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Articolo 2087 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 27/03/2024]

Tutela delle condizioni di lavoro

Dispositivo dell'art. 2087 Codice Civile

L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro [Cost. 37, 41](1).

Note

(1) Il datore di lavoro deve adottare tutte le misure idonee a prevenire sia i rischi insiti all'ambiente di lavoro, sia quelli derivanti da fattori esterni e inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova, atteso che la sicurezza del lavoratore è un bene di rilevanza costituzionale che impone al datore di anteporre al proprio profitto la sicurezza di chi esegue la prestazione.

Ratio Legis

La norma contiene un principio generale, di cui la legislazione in materia di prevenzione e di assicurazione degli infortuni sul lavoro costituisce applicazione specifica. Inoltre, ha valore integrativo rispetto a tale legislazione e costituisce una norma di chiusura del sistema antinfortunistico.

Spiegazione dell'art. 2087 Codice Civile

La norma impone all'imprenditore, in ragione della sua posizione di garante dell'incolumità fisica del lavoratore, di adottare tutte le misure atte a salvaguardare chi presta la propria attività lavorativa alle sue dipendenze.

La dottrina individua nell’art. 2087 una norma di chiusura del sistema di tutela dell’integrità del lavoratore, sottolineandone il carattere di dovere generale e la finalità prevenzionistica.

Le misure che il datore di lavoro deve adottare sono distinte in:
  1. quelle tassativamente imposte dalla legge;
  2. quelle generiche dettate dalla comune prudenza;
  3. quelle ulteriori che in concreto si rendano necessarie.
Sul piano sistematico è stato rilevato il collegamento della norma in commento con le norme costituzionali poste a difesa del diritto alla salute (32 Cost.) e del rispetto della sicurezza e della libertà e dignità umana nell’esplicazione dell’iniziativa economica (41 Cost.)

La giurisprudenza riconosce alla responsabilità del datore di lavoro sia natura contrattuale che extracontrattuale, con conseguente diritto del lavoratore ad attivare entrambe le azioni, anche in concorso, per la tutela dei suoi diritti.

I beni tutelati dalla norma sono l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.
Vi rientrano il danno biologico, il danno morale e il c.d. mobbing.

Le controversie promosse dai dipendenti per denunciare violazioni dei doveri datoriali in materia di salute e sicurezza sono devolute alla competenza del giudice del lavoro, ex art. 409, n. 1, cpc.

Massime relative all'art. 2087 Codice Civile

Cass. civ. n. 770/2023

In tema di tutela delle condizioni di lavoro, l'ampio ambito applicativo dell'art. 2087 c.c. rende necessaria la predisposizione da parte del datore di lavoro di adeguati mezzi di tutela dell'integrità fisiopsichica dei lavoratori nei confronti dell'attività criminosa di terzi, nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro.

Cass. civ. n. 37019/2022

All'associato in partecipazione che svolge attività lavorativa si applicano la disciplina di prevenzione a tutela della salute e della sicurezza e la norma "di chiusura" dell'art. 2087 c.c., in quanto l'ordinamento individua i beneficiari degli obblighi di protezione prescindendo da una loro formale categoria contrattuale e dando rilievo, invece, alla prestazione di attività nell'ambito di un contesto professionale organizzato da un datore di lavoro, ancorché senza retribuzione.

Cass. civ. n. 34968/2022

In tema di azione risarcitoria ex art. 2087 c.c. per i danni cagionati dallo svolgimento di un'attività eccedente la ragionevole tollerabilità, il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo le predette modalità nocive e a provare il nesso causale tra il lavoro svolto e il danno, mentre al datore di lavoro, in ragione del suo dovere di assicurare che l'attività lavorativa non risulti pregiudizievole per l'integrità fisica e la personalità morale del dipendente, spetta dimostrare che la prestazione si è, invece, svolta secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili. (

Cass. civ. n. 33639/2022

In tema di obbligo di protezione ex art. 2087 c.c., la dimensione organizzativa assume rilevanza quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori, atteso che l'art. 28 del T.U. n. 81 del 2008, ulteriore specificazione del più generale canone presidiato dall'art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro la valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli collegati allo stress lavoro-correlato; ne consegue che, ove il datore di lavoro indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, per configurare la responsabilità datoriale è sufficiente che l'inadempimento, imputabile anche solo per colpa, si ponga in nesso causale con un danno alla salute.

Cass. civ. n. 33428/2022

In tema di tutela della salute del lavoratore nell'ambiente di lavoro, rientra nell'obbligo datoriale di protezione di cui all'art. 2087 c.c. la tutela contro le tecnopatie da costrittività organizzativa, potendosi configurare lo "straining" sia in presenza di comportamenti stressogeni scientemente attuati dal datore di lavoro nei confronti di un dipendente, sia in caso di una condotta datoriale che colposamente consenta il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute.

Cass. civ. n. 33080/2022

In tema di violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi di protezione imposti dall'art. 2087 c.c. verso i lavoratori, il permanere dell'inadempimento, successivamente all'eziopatogenesi della malattia, configura un illecito permanente solo ove sia stato causalmente rilevante quale fattore di accelerazione o di aggravamento della patologia, così concretizzando una ipotesi di causalità correlata.

Cass. civ. n. 31919/2022

In tema di violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi imposti dall'art. 2087 c.c., la prescrizione - decennale, ove il lavoratore esperisca l'azione contrattuale - decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, divenendo percepibile e riconoscibile dal danneggiato.

Cass. civ. n. 29769/2022

In caso di infortunio sul lavoro, la responsabilità ex art. 2087 c.c. è di carattere contrattuale sicché grava sul datore di lavoro l'onere di fornire la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare l'evento dannoso e che questo sia stato determinato da fattori imprevisti ed imprevedibili; la sentenza penale ex art. 444 c.p.p., presupponendo una ammissione di colpevolezza, costituisce un importante elemento di prova da cui il giudice di merito può desumere la responsabilità del datore di lavoro.

Cass. civ. n. 2403/2022

In materia di responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., non costituisce fattore di esclusione della responsabilità datoriale il fatto che il lavoratore, per la sua posizione apicale, avesse la possibilità di modulare dal punto di vista organizzativo la propria prestazione, anche in relazione ai carichi di lavoro, alle modalità di fruizione delle ferie e dei riposi, residuando pur sempre in capo al datore di lavoro un obbligo di vigilanza del rispetto di misure atte a prevenire conseguenze dannose per la salute psicofisica del dipendente lavoratore, salva l'ipotesi che la condotta di questi si configuri come abnorme e del tutto imprevedibile.

Cass. civ. n. 8911/2019

La responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c. non è una responsabilità oggettiva, ma colposa, dovendosi valutare il difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire danni per i lavoratori, in relazione all'attività lavorativa svolta, non potendosi esigere la predisposizione di misure idonee a fronteggiare ogni causa di infortunio, anche quelle imprevedibili. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. per la predisposizione di equipaggi cd. misti sui treni, e, di conseguenza, aveva ritenuto legittimo il rifiuto del macchinista di condurre il treno senza la presenza in cabina di un secondo agente abilitato alla condotta). (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO GENOVA, 19/07/2016).

Cass. civ. n. 24742/2018

L'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro - di natura contrattuale - va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la pretesa risarcitoria della lavoratrice - caduta in ufficio scivolando su di una carpetta di plastica trasparente portadocumenti - sul presupposto che non era stata provata la nocività dell'ambiente di lavoro, non emergendo quale misura organizzativa fosse adottabile per evitare l'infortunio).

Cass. civ. n. 20080/2018

In tema di obblighi di protezione ex art. 2087 c.c. trova applicazione il medesimo principio espresso in riferimento al demansionamento illegittimo, nel senso che il giudice di merito, oltre a sanzionare l'inadempimento dell'obbligo da parte del datore di lavoro con la condanna al risarcimento del danno, può emanare una pronuncia di adempimento in forma specifica, di contenuto satisfattorio dell'interesse leso, che condanni il datore ad affidare al lavoratore mansioni confacenti alle condizioni di salute e riconducibili a quelle già assegnate ovvero di contenuto equivalente; tale obbligo è derogabile solo nel caso in cui il datore provi l'impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore nell'azienda, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore.

Cass. civ. n. 16026/2018

Il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 2087 c.c., è tenuto a prevenire anche le condizioni di rischio insite nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia del lavoratore, dimostrando di aver messo in atto a tal fine ogni mezzo preventivo idoneo, con l'unico limite del cd. rischio elettivo, da intendere come condotta personalissima del dipendente, intrapresa volontariamente e per motivazioni personali, al di fuori delle attività lavorative ed in modo da interrompere il nesso eziologico tra prestazione e attività assicurata. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito, che aveva escluso la responsabilità del datore in un caso di infortunio mortale occorso ad un lavoratore, investito dal treno mentre operava un controllo degli scambi ferroviari sul rilievo che l'intervento era stato effettuato in anticipo rispetto all'orario prefissato).

Cass. civ. n. 12437/2018

E' configurabile il "mobbing" lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio del datore medesimo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ravvisato entrambi gli elementi, individuabili, il primo, nello svuotamento progressivo delle mansioni della lavoratrice e, il secondo, nell'atteggiamento afflittivo del datore di lavoro, all'interno di un procurato clima di estrema tensione in azienda).

Cass. civ. n. 26684/2017

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l'elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell'illegittimità dei singoli atti bensì nell'intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell'assenza dell'elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali all'interno dell'ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore.

Cass. civ. n. 24217/2017

In materia esercizio di attività pericolose ed esposizione dei lavoratori alle polveri di amianto, la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando un'ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e d'indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. (Nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia del giudice di merito che – riconosciuto il nesso di causalità tra affezione ed esposizione alle polveri da asbesto - aveva ritenuto la responsabilità del datore di lavoro sul presupposto che ad esso, Autorità portuale di Venezia, all’epoca di svolgimento del rapporto di lavoro - anni dal 1968 al 2000 - dovesse essere ben nota la pericolosità delle fibre di amianto, materiale il cui uso è sottoposto a particolari cautele fin dal principio del secolo scorso, indipendentemente dal grado di concentrazione di fibre in relazione a periodi temporali di esposizione per attività lavorativa).

Cass. civ. n. 14468/2017

In tema di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., posto che, ai fini del superamento della presunzione di cui all’art. 1218 c.c., grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta, e di aver adottato tutte le misure che, in considerazione della peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica, siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza, il vizio strutturale del macchinario, quale fatto liberatorio, non può prescindere dalla prova circostanziata, da parte del datore di lavoro, dell’assolvimento dei suddetti obblighi di protezione specifici.

Cass. civ. n. 11311/2017

L’art. 2087 c.c. che, integrando le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro previste da leggi speciali, impone all’imprenditore l’adozione delle misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, è applicabile anche nei confronti del committente, obbligandolo a provvedere alle misure di sicurezza dei lavoratori, benché da lui non dipendenti, ove egli stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alle misure da adottare in concreto, riservandosi i poteri tecnico-organizzativi dell’opera da eseguire.

Cass. civ. n. 10319/2017

Il lavoratore che agisca, nei confronti del datore di lavoro, per il risarcimento integrale del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento ed il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione ex art. 1218 c.c.. In particolare, nel caso di omissione di misure di sicurezza espressamente previste dalla legge, o da altra fonte vincolante, c.d. nominate, la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore; viceversa, ove le misure di sicurezza debbano essere ricavate dall’art. 2087 c.c., c.d. innominate, la prova liberatoria è generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, quali anche l’assolvimento di puntuali obblighi di comunicazione. (Nella specie, la S.C., ha cassato la sentenza impugnata che, pur non avendo ravvisato un'ipotesi di rischio elettivo, aveva escluso, per difetto di specifiche indicazioni da parte del lavoratore sulle cautele adottabili, la responsabilità del datore di lavoro per l'infortunio subito dal dipendente durante la discesa dalla cabina di guida di un autocarro ribaltata ed in pendenza).

Cass. civ. n. 798/2017

Ai sensi degli artt. 2087 c.c. e 7 del d.l.vo n. 626 del 1994, quest'ultimo applicabile “ratione temporis”, che disciplina l'affidamento di lavori in appalto all'interno dell'azienda, il committente, nella cui disponibilità permanga l'ambiente di lavoro, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell'impresa appaltatrice, e che consistono nel fornire adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio, nel predisporre quanto necessario a garantire la sicurezza degli impianti e nel cooperare con l'appaltatrice nell'attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività appaltata.

In tema di infortuni sul lavoro e di cd. rischio elettivo, premesso che la “ratio” di ogni normativa antinfortunistica è quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori, destinatari della tutela, la responsabilità esclusiva del lavoratore sussiste soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere. In assenza di tale contegno, l'eventuale coefficiente colposo del lavoratore nel determinare l'evento è irrilevante sia sotto il profilo causale che sotto quello dell'entità del risarcimento dovuto.

Cass. civ. n. 20051/2016

In materia di obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. gravano sul datore di lavoro specifici obblighi di informazione del lavoratore, al fine di evitare il rischio specifico della lavorazione, insuscettibili di essere assolti mediante indicazioni generiche (quali, nella specie, di "svuotare la carriola con il badile, per renderla più leggera" o di "non sollevarla quando completamente piena" rispetto ad un danno verificatosi a causa del sollevamento manuale del carico), in quanto in tal modo la misura precauzionale non risulta adottata dal datore di lavoro ma l'individuazione dei suoi contenuti è inammissibilmente demandata al lavoratore; né l'obbligo di controllo può ritenersi esaurito nell'accertamento della prassi seguita in azienda, esigendosi, viceversa, una verifica riferita ai singoli lavoratori, attraverso specifici preposti e con riferimento ad ogni fase lavorativa rischiosa.

Cass. civ. n. 18503/2016

In materia di tutela della salute del lavoratore, il datore di lavoro è tenuto, ai sensi dell'art. 2087 c.c., a garantire la sicurezza al meglio delle tecnologie disponibili, sicché, con riferimento alle patologie correlate all'amianto, l'obbligo, risultante dal richiamo effettuato dagli artt. 174 e 175 del d.P.R. n. 1124 del 1965 all'art. 21 del d.P.R. n. 303 del 1956, norma che mira a prevenire le malattie derivabili dall'inalazione di tutte le polveri (visibili od invisibili, fini od ultrafini) di cui si è tenuti a conoscere l'esistenza, comporta che non sia sufficiente, ai fini dell'esonero da responsabilità, l'affermazione dell'ignoranza della nocività dell'amianto a basse dosi secondo le conoscenze del tempo, ma che sia necessaria, da parte datoriale, la dimostrazione delle cautele adottate in positivo, senza che rilevi il riferimento ai valori limite di esposizione agli agenti chimici (cd. tlv, "threshold limit value") poiché il richiamato articolo 21 non richiede il superamento di alcuna soglia per l'adozione delle misure di prevenzione prescritte.

Cass. civ. n. 3291/2016

Ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene" (cd. "straining"), e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno.

Cass. civ. n. 2209/2016

Ai fini dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro per un infortunio sul luogo di lavoro, incombe sul lavoratore l'onere di provare di aver subito un danno, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale fra questi due elementi, mentre grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedirlo e, tra queste, di aver vigilato circa l'effettivo uso degli strumenti di cautela forniti al dipendente, non potendo essere ragione di esonero totale da responsabilità l'eventuale concorso di colpa di altri dipendenti, se non quando la loro condotta rappresenti la causa esclusiva dell'evento. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che, individuati elementi di colpa nella condotta di altri dipendenti, aveva esonerato da ogni responsabilità il datore di lavoro senza accertarne l'esclusione da ogni addebito in merito alla violazione degli obblighi di vigilanza e prevenzione).

Cass. civ. n. 7405/2015

L'ampio ambito applicativo dell'art. 2087 c.c., rende necessario l'apprestamento di adeguati mezzi di tutela dell'integrità fisiopsichica dei lavoratori nei confronti dell'attività criminosa di terzi nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale. (Nella specie, la S.C. ha annullato la sentenza che aveva negato la sussistenza del nesso di causalità tra la verificazione degli eventi criminosi e la mancata adozione di qualsivoglia misura specificamente diretta ad impedire, prevenire o comunque rendere più difficoltoso il realizzarsi di rapine ai danni di un ufficio postale di ridotte dimensioni, presso il quale non vi era alcun sistema di allarme rivolto all'esterno, ma solo una protezione del banco cassa con vetro antisfondamento).

Cass. civ. n. 18786/2014

In tema di responsabilità del datore di lavoro derivante da inosservanza di cautele antinfortunistiche, per rischio elettivo si intende una condotta personalissima del lavoratore, avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa o ad essa riconducibile, esercitata ed intrapresa volontariamente in base a ragioni e a motivazioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa e prescindendo da essa, come tale idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, secondo la quale l'avere il lavoratore utilizzato una scala per montare una tenda parasole, alla finestra del locale portineria in cui egli era costretto ad operare, non costituiva rischio elettivo).

Cass. civ. n. 9945/2014

Ai fini della sussistenza della responsabilità ex art. 2087 cod. civ., è irrilevante l'assenza di doglianze mosse dal lavoratore, così come l'ignoranza delle particolari condizioni in cui sono prestate le mansioni affidate ai dipendenti, che, salvo prova contraria, si presumono conosciute dal datore di lavoro in quanto espressione ed attuazione concreta dell'assetto organizzativo adottato dall'imprenditore. (Nella specie, il dipendente, deceduto per infarto del miocardio, era stato costretto, ancorché non per sollecitazione diretta, a conformare i propri ritmi di lavoro all'esigenza di realizzare lo smaltimento delle proprie incombenze, nei tempi richiesti dalla natura e dalla molteplicità degli incarichi affidatigli).

Cass. civ. n. 18836/2013

Costituisce mobbing la condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni - di vario tipo ed entità - al dipendente medesimo. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha ritenuto che, come adeguatamente motivato dalla corte territoriale, non ricorressero gli estremi della condotta mobbizzante nella mera denegata partecipazione ai corsi professionali, in sé gestiti con metodo clientelare, nonché nell'omessa dotazione di supporti informatici per lo svolgimento dell'attività professionale e nella messa a disposizione di ambienti di lavoro particolarmente ristretti, attesa l'assenza della prova di una esplicita volontà del datore di lavoro di emarginare il dipendente in vista di una sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, di un intento persecutorio).

Cass. civ. n. 18093/2013

Integra la nozione di "mobbing" la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali ed, eventualmente, anche leciti), diretti alla persecuzione o all'emarginazione del dipendente, di cui viene lesa - in violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 c.c. - la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica); né la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro - su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c. - ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo. (Nella specie, la S.C. ha reputato corretta la valutazione del giudice di merito che, nel condannare la società datrice di lavoro al risarcimento del danno morale, aveva valorizzato le risultanze del processo penale a carico di altro dipendente, gerarchicamente sovraordinato, il quale, per lungo tempo - nella sostanziale inerzia del datore di lavoro - si era rivolto alla vittima con espressioni ingiuriose).

Cass. civ. n. 2038/2013

L'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. Né la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio" implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici. (Nella specie, in sede di merito era stata accertata la dipendenza da causa di servizio di talune infermità contratte da un dipendente, e lo stesso aveva successivamente invocato la responsabilità risarcitoria del datore per "mobbing" in relazione alle medesime patologie; la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva respinto per difetto di prova la domanda, ed ha affermato il principio su esteso).

Cass. civ. n. 18927/2012

Nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati - esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale - pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili.

Cass. civ. n. 17092/2012

L'art. 2087 c.c., che, integrando le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro previste da leggi speciali, impone all'imprenditore l'adozione di misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, è applicabile anche nei confronti del committente, tenuto al dovere di provvedere alle misure di sicurezza dei lavoratori anche se non dipendenti da lui, ove egli stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alle misure da adottare in concreto, riservandosi i poteri tecnico - organizzativi dell'opera da eseguire.

Cass. civ. n. 14375/2012

Nel caso in cui il datore di lavoro non adotti, a norma dell'art. 2087 c.c., tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e le condizioni di salute dei prestatori di lavoro, il lavoratore ha - in linea di principio - la facoltà di astenersi dalle specifiche prestazioni la cui esecuzione possa arrecare pregiudizio alla sua salute, essendo coinvolto un diritto fondamentale protetto dall'art. 32 Cost.

Cass. civ. n. 14192/2012

La responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c. non è una responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha respinto il ricorso contro la decisione di merito che aveva escluso la responsabilità del datore di lavoro, previo accertamento, tramite consulenza tecnica d'ufficio, dell'idoneità a fini preventivi delle strisce antiscivolo poste sui gradini della scala, dalla quale il lavoratore era caduto).

Cass. civ. n. 13956/2012

La responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia.

Cass. civ. n. 1994/2012

Il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell'integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell'infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l'incolumità di quest'ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; pertanto, la condotta imprudente del lavoratore attuativa di uno specifico ordine di servizio, integrando una modalità dell'iter produttivo del danno "imposta" dal regime di subordinazione, va addebitata al datore di lavoro, il quale, con l'ordine di eseguire un'incombenza lavorativa pericolosa, determina l'unico efficiente fattore causale dell'evento dannoso. (Nella specie, relativa ad infortunio per caduta, la S.C., in applicazione del principio, ha respinto il ricorso, avendo il giudice di merito correttamente addebitato al datore di lavoro l'imprudenza del lavoratore che, per raggiungere un motore elettrico, si era recato su una tettoia inclinata e ghiacciata, scavalcando il parapetto, in quanto comandato ad eseguire il lavoro malgrado la pericolosità del luogo e senza adozione di cautele).

Cass. civ. n. 7272/2011

La prescrizione del diritto al risarcimento del danno alla salute patito dal lavoratore in conseguenza della mancata adozione da parte del datore di adeguate misure di sicurezza delle condizioni di lavoro, ai sensi dall'art. 2087 c.c., decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile solo ove l'illecito sia istantaneo, ossia si esaurisca in un tempo definito, ancorché abbia effetti permanenti, mentre ove, l'illecito sia permanente e si sia perciò protratto nel tempo, il termine prescrizionale inizia a decorrere al momento della definitiva cessazione della condotta inadempiente.

Cass. civ. n. 4656/2011

Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l'esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazione dell'indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell'estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso che la condotta del lavoratore, infortunatosi mentre era intento nelle operazioni di lavaggio della cucina di un albergo, avesse i caratteri dell'abnormità o dell'imprevedibilità atteso che, anche ammesso che il dipendente si fosse tolto le calzature di sicurezza prima di terminare il turno di lavoro, era onere del datore di lavoro predisporre controlli idonei per garantire l'osservanza dell'obbligo e ciò tanto più che il lavoratore era stato addetto a mansioni di lavoro diverse da quelle di assunzione ed operava in un ambiente di lavoro nuovo rispetto a quello abituale).

Cass. civ. n. 22818/2009

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro e di responsabilità del datore di lavoro la condotta del lavoratore è abnorme, divenendo unico elemento causale del fatto, solo quando assume le connotazioni dell'inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo, non già quando sia caratterizzata da imprudenza, imperizia o negligenza. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ascritto l'infortunio, determinato dal mancato bloccaggio delle ruote del trabattello sul quale il lavoratore si apprestava ad effettuare il proprio intervento, al preponderante concorso di colpa della società datoriale nella causazione dell'infortunio per il mancato assolvimento, da parte del responsabile della sicurezza dell'obbligo della puntuale vigilanza sull'esecuzione dei lavori affinché condizioni ed uso delle attrezzature fossero conformi alle condizioni di sicurezza specifiche o generiche).

Cass. civ. n. 14946/2009

In tema di malattia professionale ed infortuni sul lavoro, va esclusa la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. ove la normativa specifica sulla pericolosità ambientale delle attività inerenti la prestazione lavorativa (nella specie, per aver fatto bruciare, come combustibile, in una stufa all'interno del locale di lavorazione delle traversine ferroviarie impregnate con una miscela di olio di catrame e pentaclorofenolo) sia stata introdotta solo in epoca successiva ai fatti che hanno dato causa all'infermità, dovendosi escludere, in tale eventualità, la colpa dell'azienda, mentre resta fermo, in ogni caso, il diritto dell'interessato a vedersi riconosciuto, a tutela del danno subito, un equo indennizzo, la cui attribuzione prescinde da ogni profilo di colpa.

Cass. civ. n. 3785/2009

In tema di responsabilità del datore di lavoro per mancato rispetto dell'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 cod. civ è necessario che l'evento dannoso sia riferibile a sua colpa, non potendo esso essere ascritto al datore medesimo a titolo di responsabilità oggettiva. Il relativo accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto che le lesioni subite da un portalettere scivolato su una lastra di ghiaccio non fossero riferibili a colpa delle Poste Italiane s.p.a., atteso che nessuna norma, legale o contrattuale, imponeva a detto datore di lavoro di dotare i portalettere di scarpe antiscivolo e che non risultavano violate le norme di comune prudenza, potendo le condizioni metereologiche ed ambientali mutare anche nel corso della giornata lavorativa, senza che ciò fosse facilmente prevedibile in anticipo).

Per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psicofisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.

Cass. civ. n. 45/2009

In tema di tutela antinfortunistica nelle esternalizzazioni delle fasi del processo produttivo, ove lavoratori dipendenti da più imprese siano presenti sul medesimo teatro lavorativo, i cui rischi interferiscano con l'opera o con il risultato dell'opera di altri soggetti (lavoratori dipendenti o autonomi), tali rischi concorrono a configurare l'ambiente di lavoro ai sensi degli artt. 4 e 5 del d.P.R. n. 547 del 1955, sicché ciascun datore di lavoro è obbligato, ex art. 2087 cod. civ., ad informarsi sui rischi derivanti dall'opera o dal risultato dell'opera degli altri attori sul medesimo teatro lavorativo e a dare le conseguenti informazioni ed istruzioni ai propri dipendenti, atteso che tale obbligo - non derogabile in virtù della notorietà dell'impresa presso la quale vengono inviati i dipendenti medesimi - si pone in sintonia con la normativa vigente in tema di organizzazione del lavoro delle odierne realtà produttive complesse (v d.P.R. cit. n. 547 del 1955 ed art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994).

Cass. civ. n. 29323/2008

In materia di prevenzione dagli infortuni sul lavoro, il d.P.R. n. 547 del 27 aprile 1955, con indicazioni che hanno trovato conferma nel sistema delineato dal d.lgs. n. 626 del 19 settembre 1994, prevede una distribuzione di responsabilità ripartita in via gerarchica tra datore di lavoro, dirigenti e preposti, figura, quest'ultima, che ricorre nel caso in cui il datore di lavoro, titolare di una attività aziendale complessa ed estesa, operi per deleghe secondo vari gradi di responsabilità, e che presuppone uno specifico addestramento a tale scopo, nonché il riconoscimento, con mansioni di caposquadra, della direzione esecutiva di un gruppo di lavoratori e dei relativi poteri per l'attribuzione di compiti operativi nell'ambito dei criteri prefissati, non assumendo rilievo esimente, invece, la dedotta insufficiente qualifica contrattuale ricoperta dal dipendente. Ne consegue che, ove l'infortunio sia occorso al preposto per la mancata individuazione delle modalità esecutive di intervento e dei relativi mezzi di protezione da adottare, va esclusa la responsabilità del datore di lavoro trattandosi di profili e di decisioni operative di competenza del delegato. (Nella specie, il caposquadra - ritenendo inidonee allo scopo l'uso delle scale e delle cinture di sicurezza messe a disposizione dell'azienda - si era avventurato su un'intercapedine che non aveva retto al suo peso, con conseguente caduta da una altezza di circa sette metri; la S.C., nel rigettare il ricorso, ha ritenuto la correttezza della decisione di merito che aveva imputato alla responsabilità del preposto la concreta scelta delle modalità esecutive, restando irrilevanti le censure sull'inadeguatezza delle scale e degli altri mezzi di protezione a disposizione).

Cass. civ. n. 22893/2008

La condotta vessatoria consapevolmente posta in essere dal datore di lavoro finalizzata ad isolare od espellere il dipendente dal contesto lavorativo (cosiddetto "mobbing") si differenzia, pur potendola ricomprendere, da quella discriminatoria per motivi sindacali: richiedendosi, nel primo caso, una pluralità di atti e comportamenti (eventualmente anche leciti in sé considerati) unificati dall'intento di intimorire psicologicamente il dipendente e funzionali alla sua emarginazione, attuandosi, invece, la discriminazione per motivi sindacali, anche attraverso un unico atto o comportamento e connotandosi di illiceità di per sé, in quanto diretta a realizzare una diversità di trattamento o un pregiudizio in ragione della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali, a prescindere da un intento di emarginazione. Ne consegue che la domanda con cui si deduca, quale autonomo motivo di illegittimità della condotta datoriale, il "mobbing" ha una `causa
petendi" differente rispetto alla domanda diretta alla repressione di atti discriminatori per ragioni sindacali e, ove venga introdotta per la prima volta in appello, va dichiarata inammissibile.

Cass. civ. n. 9817/2008

In materia di responsabilità datoriale nei confronti del lavoratore per danni da infortunio sul lavoro a causa di inadempimento all'obbligo contrattuale di sicurezza (art. 2087 c.c.) si applicano le regole civilistiche sull'inadempimento (art. 1218 c.c.) e, tra queste, anche quella del concorso di colpa del creditore (art. 1227, primo comma, c.c.) e ciò diversamente dal regime di tutela previdenziale degli infortuni sul lavoro, in forza del quale l'Istituto assicuratore è tenuto a pagare la rendita nella sua interezza anche in caso di concorso del lavoratore nella causazione della lesione della propria integrità psicofisica.

Cass. civ. n. 23162/2007

L'art. 2087 c.c., il quale fa carico al datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità del dipendente, introduce un dovere che trova fonte immediata e diretta nel rapporto di lavoro e la cui inosservanza, ove sia stata causa di danno, può essere fatta valere con azione risarcitoria. Tuttavia è pur sempre necessario che siano ravvisabili, nella condotta del datore di lavoro, profili di colpa cui far risalire il danno all'integrità fisica patito dal dipendente. Pertanto, quando l'espletamento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e comporti l'aggravamento di una preesistente malattia, non può ritenersi responsabile il datore di lavoro per non aver adottato le misure idonee a tutelare l'integrità fisica del dipendente, ove non risulti che egli era a conoscenza dello stato di salute di quest'ultimo e dell'incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli.

Cass. civ. n. 19022/2007

In tema di risarcimento del danno subito dal lavoratore per effetto della mancata tutela da parte del datore delle condizioni di lavoro, in violazione degli obblighi imposti dall'art. 2087 c.c., la prescrizione decennale, ove il lavoratore esperisca l'azione contrattuale decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile e non dal momento di un successivo aggravamento che non sia dovuto ad una causa autonoma, dotata di propria efficienza causale (In applicazione di tale principio, la S.C. ha censurato la sentenza di merito, che aveva collocato l'inizio della malattia professionale ipoacusia per adibizione a lavorazioni nocive in un momento successivo all'epoca della diagnosi ).

Cass. civ. n. 16003/2007

Il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno, ma non anche la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall'art. 1218 c.c., il superamento della quale comporta la prova di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, in relazione alle specificità del caso ossia al tipo di operazione effettuata ed ai rischi intrinseci alla stessa, potendo al riguardo non risultare sufficiente la mera osservanza delle misure di protezione individuale imposte dalla legge. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva escluso la responsabilità del datore di lavoro per l'infortunio subito da un dipendente, addetto alle operazioni di aggancio alle gru dei tubi destinati al sottosuolo, in conseguenza del distacco di un tubo di acciaio dall'imbracatura che doveva sorreggerlo, ritenendo che il lavoratore, al quale non poteva addebitarsi alcuna manovra azzardata o rischiosa, non avesse fornito la prova della colpa del datore di lavoro, ma omettendo di indagare se l'infortunio fosse dipeso da un posizionamento del tubo nell'imbracatura non effettuato a regola d'arte e limitandosi a constatare, invece, che il lavoratore era stato dotato delle idonee misure protettive individuali, quali casco e guanti).

Cass. civ. n. 11622/2007

Il dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro a norma dell'art. 2087 c.c., assolto con l'adozione di tutte le cautele necessarie ad evitare il verificarsi dell'evento dannoso ed anche con l'adozione di misure relative all'organizzazione del lavoro, tali da evitare che lavoratori inesperti siano coinvolti in lavorazioni pericolose, si atteggia in maniera particolarmente intensa nei confronti dei lavoratori di giovane età e professionalmente inesperti, esaltandosi in presenza di apprendisti nei cui confronti la legge pone precisi obblighi di formazione e addestramento, tra i quali primeggia l'educazione alla sicurezza del lavoro (art. 11, legge n. 25 del 1955). Conseguentemente, l'accertato rispetto delle norme antinfortunistiche di cui agli artt. 47 e 48 del D.P.R. n. 626 del 1994 e dell'allegato VI a tale decreto, non esonera, il datore di lavoro, dall'onere di provare di aver adottato tute le cautele necessarie ad impedire il verificarsi dell'evento, con particolare riguardo all'assetto organizzativo del lavoro, specie quanto ai compiti dell'apprendista, alle istruzioni impartitegli, all'informazione e formazione sui rischi nelle lavorazioni, senza che in contrario possa assumere rilievo l'imprudenza dell'infortunato nell'assumere, come nella specie, un'iniziativa di collaborazione nel cui ambito l'infortunio si sia verificato (principio affermato in controversia in cui era rimasto infortunato un apprendista marmista, in ambiente di lavoro ove si montavano glossi blocchi di marmo, mentre tentava di aiutare due esperti operai a collocare una lastra di marmo sul banco di lavoro. La Corte territoriale, con decisione cassata con rinvio dalla S.C., aveva escluso la responsabilità datoriale sul presupposto che il datore fosse esonerato dall'onere di aver adottato tutte le cautele, anche quelle relative all'assetto del lavoro e/o all'informazione e formazione dell'apprendista, sol perché erano risultate escluse alcune specifiche violazioni delle norme antinfortunistiche e l'evento si era prodotto per un ritenuto eccesso di zelo dell'apprendista).

Cass. civ. n. 5221/2007

La responsabilità ex art. 2087 c.c. è configurabile quando la lesione del bene tutelato derivi dalla violazione dell'obbligo che incombe al datore di lavoro di adottare idonee misure a tutela della salute del lavoratore subordinato e della personalità morale, e di controllare e vigilare che esse siano osservate da parte dei lavoratori, trattandosi, pur sempre, di misure antinfortunistiche, richieste dalle oggettive caratteristiche dell'attività di lavoro e dalle condizioni dei singoli lavoratori, non riscontrabili ove la violazione dedotta attenga a doveri di contenuto diverso e niente affatto riferibili, alla tutela delle condizioni fisiche e della personalità morale dei dipendenti. (Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione della corte territoriale che aveva escluso la responsabilità datoriale, ex art. 2087 c.c., per asserita violazione dell'obbligo di mantenere comportamenti atti a tutelare la dignità e la personalità morale della lavoratrice, affetta da astenia a causa della condotta omissiva datoriale per non aver dato seguito, e neppure risposto, alla domanda di trasformazione del rapporto di lavoro da full-time a part-time).

Cass. civ. n. 12445/2006

Posta la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell'art. 2087 c.c., sul piano della ripartizione dell'onere probatorio al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell'obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre — in parziale deroga al principio generale stabilito dall'art. 2697 c.c. — non è gravato dall'onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell'inadempimento. Diversamente, invece, si atteggia il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza — asseritamente omesse — siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici (quali le misure previste dal D.L.vo n. 626 del 1994 e successive integrazioni e modificazioni, come dal precedente D.P.R. n. 547 del 1955), oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 c.c., che impone l'osservanza del generico obbligo di sicurezza. Nel primo caso — riferibile alle misure di sicurezza cosiddette «nominate» — il lavoratore ha l'onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa — ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere — nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l'inosservanza della misura ed il danno subito. La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell'insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo e il danno. Nel secondo caso — in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette «innominate» — la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore) risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe.

Cass. civ. n. 8386/2006

Nel caso in cui il lavoratore agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno biologico e morale conseguenti ad un infortunio sul lavoro (in fattispecie precedente all'entrata in vigore dell'art. 13 del D.L.vo n. 38 del 2000, che ha esteso la copertura assicurativa obbligatoria al danno biologico ), il diritto al risarcimento è subordinato alla sussistenza dei presupposti rispettivi della responsabilità civile del datore di lavoro per le due ipotesi di danno: in particolare, in riferimento al danno biologico, di natura contrattuale, ove il lavoratore alleghi la responsabilità del datore per inadempimento dell'obbligo di sicurezza, egli ha l'obbligo di provare il fatto costituente l'inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno, mentre non è tenuto a fornire la prova della colpa del datore di lavoro che si presume, mentre tale presunzione non è configurabile in relazione alla risarcibilità del danno morale ; a sua volta, il datore di lavoro può provare il concorso di colpa del lavoratore infortunato nella determinazione dell'infortunio al fine di ridurre proporzionalmente la percentuale di risarcimento a suo carico.

Cass. civ. n. 4774/2006

L'illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell'osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente (c.d. mobbing) — che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 c.c. — si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifichi obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata — procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi — considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito impugnata che, con congrua motivazione, si era attenuta a tali criteri escludendo la configurabilità, in capo al datore di lavoro, di un disegno persecutorio realizzato mediante i vari comportamenti indicati dal lavoratore come vessatori).

Cass. civ. n. 4184/2006

Sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo di neminem laedere espresso dall'art. 2043 c.c. (la cui violazione è fonte di responsabilità extracontrattuale ), sia il più specifico obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica del lavoratore sancito dall'art. 2087 c.c. ad integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro (la cui violazione determina l'insorgenza di una responsabilità contrattuale ). Conseguentemente, il danno biologico inteso come danno all'integrità psico-fisica della persona in sé considerata, a prescindere da ogni possibile rilevanza o conseguenza patrimoniale della lesione può in astratto conseguire sia all'una che all'altra responsabilità. Qualora la responsabilità fatta valere sia quella contrattuale, dalla natura dell'illecito (consistente nel lamentato inadempimento dell'obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore ) non deriva affatto che si versi in fattispecie di responsabilità oggettiva (fondata sul mero riscontro del danno biologico quale evento legato con nesso di causalità all'espletamento della prestazione lavorativa ), ma occorre pur sempre l'elemento della colpa ossia la violazione di una disposizione di legge o di un contratto o di una regola di esperienza. La necessità della colpa che accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana va poi coordinata con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale che è quello previsto dall'art. 1218 c.c. (diverso da quello di cui all'art. 2043 c.c. ), cosicché grava sul datore di lavoro l'onere di provare di aver ottemperato all'obbligo di protezione, mentre il lavoratore deve provare sia la lesione all'integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa.

Cass. civ. n. 3650/2006

Il carattere contrattuale dell'illecito e l'operatività della presunzione di colpa stabilita dall'art. 1218 c.c. non escludono che la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., in tanto possa essere affermata in quanto sussista una lesione del bene tutelato che derivi casualmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento, imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche. Ne consegue che la verificazione del sinistro non è di per sé sufficiente per far scattare a carico dell'imprenditore l'onere probatorio di aver adottato ogni sorta di misura idonea ad evitare l'evento, atteso che la prova liberatoria a suo carico presuppone sempre la previa dimostrazione, da parte dell'attore, che vi è stata omissione nel predisporre le misure di sicurezza (suggerite dalla particolarità del lavoro, dall'esperienza e dalla tecnica ) necessarie ad evitare il danno, e non può essere estesa ad ogni ipotetica misura di prevenzione, venendo altrimenti a configurarsi un'ipotesi di responsabilità oggettiva, che la norma invero non prevede. Ne consegue che il lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, ha l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, e il nesso di causalità tra l'uno e l'altro. E solo quando tali circostanze egli abbia provato incombe al datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno, rimanendo altrimenti quest'ultimo esonerato dall'onere di fornire la prova liberatoria a suo carico.

Cass. civ. n. 2930/2005

In tema di infortuni sul lavoro, la responsabilità per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore, derivante dall'art. 2087 c.c., impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori. Tale responsabilità è esclusa solo allorquando il rischio sia stato generato da una attività che non abbia alcun rapporto con lo svolgimento dell'attività lavorativa o che esorbiti del tutto dai limiti di essa, mentre l'eventuale colpa del lavoratore non è idonea ad escludere il nesso causale tra il verificarsi del danno e la responsabilità dell'imprenditore, sul quale grava l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, non essendo sufficiente, a tal fine, che le cautele assunte dall'imprenditore garantiscano che ogni singolo apparecchio addetto alla produzione sia rispondente ai dettati antinfortunistici ed essendo invece necessario che ad ogni parte del complessivo sistema antinfortunistico approntato nell'azienda sia preposto un soggetto di indubbia professionalità e con specifiche conoscenze di quel sistema. (Nella specie, la Corte Cass. ha confermato la sentenza impugnata che, facendo applicazione del suindicato principio di diritto, aveva accertato, con motivazione non sindacabile in sede di legittimità siccome congrua ed immune da vizi logici, la responsabilità dell'imprenditore nella dinamica del sinistro, che era consistito nello schiacciamento della mano — poi amputata — di un operaio, impegnato nella riparazione di una pressa sita in una cabina, rispetto alla quale non vi era alcun sistema di collegamento visivo ed acustico con l'addetto al quadro di comando, idoneo a coordinare con margini di rassicurante certezza i rispettivi movimenti, in modo da impedire gli accadimenti suscettibili di provocare danni ai dipendenti della società).

Cass. civ. n. 2444/2005

L'adempimento dell'obbligo di tutela dell'integrità fisica del lavoratore imposto dall'art. 2087 c.c. è un obbligo di prevenzione che impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo d'attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per proteggere il lavoratore dai rischi connessi tanto all'impiego d'attrezzi e macchinari quanto all'ambiente di lavoro, e deve essere verificato, nel caso di malattia derivante dall'attività lavorativa svolta, esaminando le misure in concreto adottate dal datore di lavoro per prevenire l'insorgere della patologia. (Nella specie, la Corte Cass. ha cassato la sentenza di merito che, in relazione a malattia tumorale contratta da lavoratore addetto alla saldatura presso la centrale termoelettrica di Brindisi, aveva omesso ogni indagine riguardo alle misure adottate dal datore di lavoro per proteggere il dipendente dal rischio connesso all'attività lavorativa).

Cass. civ. n. 16253/2004

In tema di responsabilità per gli infortuni sul lavoro, deve escludersi la responsabilità del datore di lavoro in tutti i casi in cui il comportamento abnorme del lavoratore sia di per sè solo sufficiente a determinare l'evento, essendo necessaria una rigorosa dimostrazione dell'indipendenza della condotta del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell'estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere. (Nella specie, un operaio addetto alla manutenzione aveva ricevuto ordine di installare un misuratore di portata in tempi brevissimi su un impianto ad acqua, e, poiché dinanzi all'impianto vi era una barriera che costituiva impedimento, il lavoratore, non avendo ricevuto direttive in proposito e in mancanza di strumenti più idonei per rimuoverla, utilizzava un elevatore, infortunandosi; la S.C. ha cassato la sentenza d'appello — escludente la responsabilità datoriale per l'utilizzo di uno strumento improprio — rilevando che il giudice di merito avrebbe dovuto valutare e motivare in ordine al fatto che l'iniziativa del lavoratore era autonoma).

Cass. civ. n. 7328/2004

Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso ; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento. Il comportamento imprudente del lavoratore, quando non presenti i caratteri estremi sopra indicati, può invece rilevare come concausa dell'infortunio, e in tal caso la responsabilità del datore di lavoro può essere proporzionalmente ridotta. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che il giudice di merito avesse fatto corretta applicazione di tale principio, affermando la colpa concorrente della vittima nella misura di un terzo, in una situazione in cui il lavoratore era salito sulle pale di un elevatore elettrico manuale privo di dispositivi di sicurezza per prelevare del materiale riposto in alto senza prima sistemare su di esso il bancale pur presente in azienda che gli avrebbe consentito una posizione sicura, ed era caduto riportando lesioni personali ).

Cass. civ. n. 3498/2004

In riferimento alla azione contrattuale di risarcimento del danno alla persona fondata sull'art. 2087 c.c., l'aggravamento del danno non vale a determinare lo spostamento del termine iniziale della prescrizione decennale qualora esso derivi da un mero peggioramento del processo morboso già in atto, e non sia manifestazione di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella già esteriorizzatasi. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto esente da vizi la sentenza di merito che aveva collocato l'inizio della malattia professionale ipoacusia oltre dieci anni prima della proposizione dell'azione, sull'assunto che l'ipoacusia sia una malattia della quale il danneggiato non può non essere immediatamente consapevole, anche quando essa si trovi ancora allo stadio iniziale).

Cass. civ. n. 12253/2003

La responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende sia da norme specifiche, sia dalla norma di ordine generale dell'art. 2087, c.c., che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelarne l'integrità fisica; l'eventuale condotta colposa del dipendente può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando presenti il carattere dell'abnormità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento, e, in difetto di tali caratteri, il comportamento colposo del lavoratore — che può sussistere anche qualora l'imprenditore non abbia adottato le misure antinfortunistiche del caso — può soltanto comportare la riduzione, in misura proporzionale, del risarcimento del danno.

Cass. civ. n. 9304/2002

Ancorché il datore di lavoro sia responsabile ex art. 2087 c.c. dell'infortunio occorso al lavoratore nel luogo ed in costanza di lavoro non solo quando omessa di adottare le idonee misure protettive ma anche quando ometta esclusivamente di controllare e vigilare che di tali misure sia fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non sussiste alcuna responsabilità del datore di lavoro nel caso in cui l'infortunio sia provocato da un comportamento del dipendente del tutto imprevedibile ed estraneo alla stessa prestazione lavorativa, non sussistendo un obbligo generale del datore di lavoro di sorveglianza dei dipendenti affinché non compiano atti inconsulti potenzialmente lesivi della propria e dell'altrui incolumità.

Cass. civ. n. 9016/2002

In tema di responsabilità per gli infortuni sul lavoro, poiché, secondo l'id quod plerunque accidit, i dipendenti (pur per imprudenza, negligenza o inesperienza) si muovono nell'ambito dell'azienda in maniera occasionale e anche al di fuori del posto loro assegnato, il luogo di lavoro non può ritenersi limitato allo spazio strettamente necessario per il compimento dei movimenti connessi alla lavorazione, ma comprende ragionevolmente le zone adiacenti, nelle quali gli addetti possono comunque recarsi e muoversi; le misure di protezione, pertanto non sono in funzione delle specifiche mansioni del singolo lavoratore, ma dell'azienda nel suo complesso. Ne consegue che la contiguità e l'accessibilità della situazione di pericolo escludono l'imprevedibilità (e quindi l'abnormità) del comportamento del lavoratore che dal proprio posto di lavoro, per raggiungere, nell'ambito delle proprie mansioni, un più lontano spazio, acceda al luogo attiguo pericoloso. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione impugnata che aveva ritenuto la responsabilità del datore di lavoro in relazione all'infortunio occorso ad un dipendente che, mentre stava eseguendo lavori di manutenzione su un nastro trasportatore, passando sulla sommità di grandi tini contenenti una soluzione di acido solforico, era caduto dentro un tino che presentava una apertura non adeguatamente protetta né segnalata).

Cass. civ. n. 5024/2002

Il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell'integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell'infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l'incolumità di quest'ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore dipendente — in quanto attuativa di uno specifico ordine di servizio del datore di lavoro (o del dirigente preposto che ne faccia le veci) — finisca per configurarsi nell'eziologia. dell'evento dannoso come una mera modalità dell'iter produttivo del danno, tale condotta, proprio perché «imposta» in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell'ordine di eseguire incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell'evento dannoso.

L'obbligo del datore di lavoro di garantire la salute del lavoratore in quanto bene primario e indisponibile sussiste anche in relazione alle condotte volontarie e di segno contrario del dipendente, sicché è configurabile, ai sensi dell'art. 2087 c.c., la responsabilità del datore di lavoro per l'infortunio subito da un dipendente per l'esercizio dell'attività lavorativa anche a fronte di una condotta imprudente di quest'ultimo, se tale condotta è stata determinata, o quanto meno agevolata, da un assetto organizzativo del lavoro non rispettoso delle norme antinfortunistiche, assetto conosciuto o colpevolmente ignorato dal datore di lavoro, che nulla abbia fatto per modificarlo al fine di eliminare ogni fonte di possibile pericolo.

Cass. civ. n. 4129/2002

Ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate, l'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisiopsichica dei dipendenti impone l'adozione — ed il mantenimento — non solo di misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell'ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività anche non collegate direttamente allo stesso come le aggressioni conseguenti all'attività criminosa di terzi, non essendo detti eventi coperti dalla tutela antinfortunistica di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 e giustificandosi l'interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) cui deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro — (Nella specie, l'impugnata sentenza — confermata dalla S.C. — aveva affermato la risarcibilità dei danni subiti da un perito industriale — assunto da una ditta specializzata in ricerche geologiche incaricata da una società, aggiudicatrice della progettazione di un canale in Etiopia, di effettuare dei sondaggi geologici — rimasto vittima di un rapimento ad opera di un gruppo di guerriglieri opponentisi al progetto, avendo rilevato che il datore di lavoro, pur a conoscenza della grave situazione di pericolo esistente nella zona dei lavori, non aveva fatto uso di una maggiore diligenza e dei propri poteri decisionali — salva la concorrente responsabilità del committente, resosi garante dell'attuazione della vigilanza sulle misure di sicurezza da adottare in concreto sul posto in relazione alla organizzazione tecnico operativa del cantiere a sé riservata — in ordine alla sorveglianza nei confronti dei propri dipendenti, nonché all'accertamento della reale situazione allo scopo di prevenire ogni possibile evento dannoso).

Cass. civ. n. 5/2002

Ai fini della individuazione di un rapporto causale fra la condotta del datore di lavoro e l'infortunio lavorativo, necessario a configurare la responsabilità del primo ai sensi dell'art. 2087 c.c., assumono rilevanza non soltanto gli eventi che costituiscono una conseguenza necessitata della condotta datoriale, secondo un giudizio prognostico ex ante, ma anche tutti gli eventi possibili, rispetto ai quali la condotta medesima si ponga con un nesso di causalità adeguata; pertanto, anche una condizione lavorativa stressante può costituire fonte di responsabilità per il datore di lavoro, sempre che sia provata la sussistenza di un rapporto di causalità fra tale condizione e l'infortunio subito dal lavoratore. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva escluso a priori, respingendo le relative richieste di prova, la configurabilità di un nesso causale fra le condizioni di stress di un lavoratore in trasferta autorizzato all'uso di autoveicolo e l'incidente stradale occorso allo stesso lavoratore).

Cass. civ. n. 15350/2001

In riferimento alla tutela dell'integrità fisiopsichica dei lavoratori dipendenti dalle aggressioni conseguenti all'attività criminosa di terzi, l'ampio ambito applicativo dell'art. 2087 c.c. non può essere dilatato fino a comprendervi ogni ipotesi di danno sull'assunto che comunque il rischio non si sarebbe verificato in presenza di ulteriori accorgimenti di valido contrasto, perché in tal modo si perverrebbe all'abnorme applicazione di un principio di responsabilità oggettiva ancorata al presupposto teorico secondo cui il verificarsi dell'evento costituisce circostanza che assurge in ogni caso ad inequivoca riprova del mancato uso dei mezzi tecnici più evoluti del momento, atteso il superamento criminoso di quelli in concreto apprestati dal datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva respinto la domanda di una dipendente postale volta ad ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno biologico patito in conseguenza dei forti traumi emotivi subiti per effetto di cinque rapine commesse, nell'arco di sette anni, ai danni dell'ufficio postale nel quale prestava servizio).

Cass. civ. n. 9601/2001

La responsabilità datoriale per l'infortunio occorso ad un proprio dipendente addetto ad una macchina pericolosa non si arresta alla comune protezione del soggetto e non è esclusa per l'avvenuta osservanza delle specifiche prescrizioni contenute nella normativa antinfortunistica, allorquando l'infortunio stesso sia derivato non già dal verificarsi del pericolo previsto dalla normativa medesima e contro il quale erano dirette le prescrizioni tecniche in essa contenute, ma si sia verificato per effetto dell'intrinseca pericolosità della macchina operatrice, richiedente la predisposizione di adeguata protezione o l'applicazione di più specifiche e idonee misure di sicurezza.

Cass. civ. n. 7367/2001

In tema di infortuni sul lavoro, il rischio elettivo — che ricorre quando l'evento lesivo è ricollegabile ad una particolare situazione nella quale il lavoratore è venuto a trovarsi per scelta volontaria, puramente arbitraria, che lo ha indotto ad affrontare un rischio diverso da quello inerente all'attività lavorativa — esclude non solo la tutela assicurativa del sinistro ma anche la responsabilità contrattuale del datore di lavoro per i danni subiti dal lavoratore di cui all'art. 2087 c.c. (Nella specie la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto che l'incidente stradale occorso alla lavoratrice ricorrente nello svolgimento di mansioni lavorative da eseguire al di fuori del luogo di lavoro sia era verificato in conseguenza del rischio elettivo affrontato dalla lavoratrice stessa consistente nell'utilizzazione del proprio ciclomotore senza la preventiva autorizzazione da parte dell'azienda datrice di lavoro).

Cass. civ. n. 7052/2001

L'obbligo, incombente in capo al datore di lavoro ex artt. 4 del D.P.R. n. 547 del 1955 e 2087 c.c., di vigilare sulla osservanza da parte dei lavoratori delle misure di sicurezza, non si estende fino a comprendere quello di impedire comportamenti anomali ed imprevedibili posti in essere in violazione delle norme di sicurezza, limitandosi il suo contenuto all'apprestamento delle predette misure e di vigilanza sulla osservanza delle stesse, ed apparendo inesigibile un controllo personale di tutti i lavoratori. (Nella specie, alla stregua del principio di cui alla massima, la Suprema Corte ha confermato la decisione del giudice di secondo grado che, in difformità della decisione del pretore, aveva rigettato la domanda dell'Inail di rivalsa nei confronti del datore di lavoro per le somme erogate in favore di un lavoratore che, nel corso di scavi che stava effettuando in trincea, era stato investito da una frana delle pareti, determinatasi durante la esecuzione di opere (inclinazione, a mezzo di escavatore, delle pareti della trincea) dirette alla predisposizione di misure di sicurezza, essendo entrato in una zona nella quale il pericolo di tale frana era manifesto, nonostante gli avvertimenti verbali e le segnalazioni in tal senso).

Cass. civ. n. 5049/2000

Le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l'obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c.; deve ritenersi pertanto legittimo il licenziamento irrogato a dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare, e senza che, in contrario, possa dedursi che il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, e non può perciò essere chiamato ad un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi, giacché, per un verso, le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi, e, per altro verso, il datore di lavoro ha in ogni caso l'obbligo, a norma dell'art. 2087 cit., di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, provvedimenti tra i quali può certamente ricomprendersi anche l'eventuale licenziamento dell'autore delle molestie sessuali.

Cass. civ. n. 1331/1999

Poiché gli obblighi che l'art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro in tema di tutela delle condizioni di lavoro si estendono, nella fase dinamica dell'espletamento della prestazione, ai comportamenti necessari per prevenire possibili incidenti, per cui non è sufficiente il semplice concorso di colpa del lavoratore per interrompere il nesso causale, tuttavia l'imprenditore è esonerato da responsabilità quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'esorbitanza, atipicità ed eccezionalità rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento. (Nella specie è stata cassata la sentenza di merito che non aveva motivato sull'incidenza, nella causazione dell'infortunio, del comportamento del lavoratore addetto al carico e scarico dei materiali ed alla manutenzione dei mezzi di trasporto, il quale, nel tentativo di rimuovere un cavo elettrico rimasto incagliato nello stabilizzatore del camion, aveva inserito la mano nello stabilizzatore stesso senza accertarsi che il manovratore fermasse il mezzo).

Cass. civ. n. 7636/1996

Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza, ed imprudenza dello stesso: ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni l'eventuale concorso di colpa del lavoratore; con l'ulteriore conseguenza che l'imprenditore è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità e esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento.

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V. G. chiede
sabato 24/02/2024
“Buongiorno.

Lavoro come dipendente in una azienda da 4 anni ormai.
Penso di aver il medesimo problema perché non ricordo un solo giorno dove io non sia stato umiliato o rimproverato dai miei datori di lavoro, dove qualsiasi cosa che facevo non andava bene, venivo mancato di rispetto da loro e anche dei colleghi e nessuno gli è importato di ciò perché per loro era un mio problema.
Faccio il magazziniere, ma nel corso degli anni mi ha sempre fatto fare il tutto fare, tra riparare computer, fare la rubrica telefonica degli apparati installati dai miei colleghi, e adesso c'e la carta chilometrica, in cui devo segnare chilometri effettuati durante la giornata, il tragitto che ha effettuato, il pieno e il collega che ha portato il rispettivo mezzo.

Purtroppo per fare questo compito sono costretto a farlo durante il fine settimana a casa perché durante le ore di lavoro sono sempre indaffarato con i colleghi del tipo: carico e scarico materiale, preparare il materiale. E altri tipi di compiti come gestire l immondizia anche dell ufficio , dove tutti colleghi non fanno la differenziata e sono l'unico che la fa - perché nel corso degli anni mi hanno chiamato di dovermi scendere l'immondizia che fanno in un ufficio, questo mi è sempre stato riferito dai miei titolari.

Mi mandano a comprare i detersivi, carta igienica, l'acqua, il caffè... Per l'ufficio, nonostante gli altri compiti di cui mi devo giornalmente occupare..
Per concludere mi hanno persino dato una colpa che non ho, dandomi una responsabilità di fare rispettare una determinata condotta ai nostri colleghi, e che se non lo facevo , me ne facevano andare via, queste sono state le loro testuali parole.

Sono anche impossibilitato di prendermi Roll , giorni di permesso perché ogni collega ha accesso al magazzino e prende materiale negli scaffali senza dirmi niente, rovinando i miei conteggi del magazzino.. e ogni collega può prendere giorni di permesso tranquillamente.. sono l'unico che ha questo problema e a marzo dovrei pure perderli hanno detto, mi sono rassegnato praticamente.
A tutto ciò potrei ancora raccontare di svariati episodi e mancanze di rispetto da parte dei miei datori di lavoro, un comportamento dedicato solo a me, in cui il resto dei miei colleghi non ha mai subito , perchè i miei colleghi sono sempre stati trattati con occhi di riguardo quando loro sbagliavano, e non vengono mai controllati sulla loro operatività del lavoro, mentre io sono sempre stato tenuto d'occhio , sempre rimproverato anche per cose che hanno fatto i miei colleghi.

Ma per loro "io sono il responsabile del magazzino e quindi anche dei posti macchina, e se non trovano il posteggio, per colpa del collega che si è posteggiato nel posto ""riservato"" dei datori di lavoro, la responsabilità è sempre stata mia.

Cosa mi consiglia di fare ?”
Consulenza legale i 03/03/2024
Nell’ambito del lavoro privato, è pacifica la possibilità di annoverare tra le condotte integranti il mobbing quelle contraddistinte da “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psichico e del complesso della sua personalità” (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza n. 87 del 2012).
Come chiarito anche dalla giurisprudenza (cfr. ad esempio Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 17698/2014), sono elementi costitutivi del fenomeno del mobbing:
  1. una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. il nesso di causalità tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio che unifica e lega tra loro tutti i singoli comportamenti ostili.
Nel caso di specie, sembrerebbe che le condotte descritte possano essere considerati comportamenti a carattere persecutorio di cui alla lettera a.

Per integrare il mobbing, tuttavia, è necessario che sussistano tutti gli elementi descritti, quindi anche il danno alla salute, il nesso di causalità e l’intento persecutorio (lettere b, c e d).

In particolare, per quanto riguarda il danno alla salute è molto importante che – in caso di assenze per malattia – la diagnosi del medico di base, pur sintetica (ad es. depressione, ansia, attacchi di panico, ecc.) attesti – se ricorrono gli estremi – che la patologia è riconducibile al contesto lavorativo (e dunque, ad es.: depressione reattiva a problematiche in ambito lavorativo).

Sul piano legale ci si può rivolgere ad un sindacato, oppure direttamente ad un avvocato giuslavorista specializzato in casi di mobbing, per avviare un’azione nei confronti del datore di lavoro.
È importante che il percorso clinico inizi contestualmente (o antecedentemente) a quello legale.

L’azione risarcitoria si prescrive in dieci anni, trattandosi di responsabilità contrattuale (legata alla violazione dell’art. 2087 c.c.).
Naturalmente è consigliabile attivarsi tempestivamente, sia per prevenire l’aggravarsi dei danni, sia per ragioni pratiche-processuali: in cause in cui le testimonianze sono di fondamentale importanza, il trascorrere del tempo rischia di far perdere memoria storica ai testimoni e rischia dunque di compromettere la buona riuscita della causa.

Nel far valere la responsabilità contrattuale del proprio datore di lavoro, che deriva dalla violazione dell’art. 2087 c.c. , il lavoratore vittima di mobbing dovrà indicare e provare i comportamenti vessatori subiti, tali da rendere “nocivo” l’ambiente di lavoro, dando altresì prova del danno patito e del nesso causale fra tale danno e le condotte mobbizzanti rese possibili dall’inadempimento degli obblighi di protezione incombenti sul datore di lavoro. Per andare esente da responsabilità, quest’ultimo dovrà invece – secondo lo schema previsto dall’art. 1218 c.c. – dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare la salute psicofisica del lavoratore o di non averlo potuto fare per cause a lui non imputabili (in questi termini si è espressa, ad esempio, Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 2038/2013).

Per quanto riguarda l’intento persecutorio, al fine di non aggravare eccessivamente l’onere probatorio del lavoratore vittima di mobbing, la giurisprudenza ha chiarito che il lavoratore può limitarsi a fornire la prova dell’idoneità persecutoria della condotta complessivamente posta in essere, rilevabile, anche in via presuntiva, dalle caratteristiche oggettive della stessa, quali la monodirezionalità, la pretestuosità e la permanenza nel tempo dei comportamenti vessatori.
Il lavoratore vittima di mobbing dovrà quindi in particolar modo dimostrare che le condotte poste in essere nei suoi confronti non rientrano nell’esercizio dei normali poteri di organizzazione e controllo delle attività riconosciuti al datore di lavoro, né si limitano a semplici e tutto sommato fisiologici episodi di conflittualità sul luogo di lavoro, ma integrano al contrario una vera e propria strategia persecutoria finalizzata a porre il soggetto che ne è bersaglio in uno stato di grave e profondo disagio.

Oltre alla responsabilità contrattuale del datore di lavoro, ricorre un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale allorché la condotta vessatoria è posta in essere da colleghi posti allo stesso livello gerarchico della vittima o anche da suoi superiori, purché diversi dal datore di lavoro, sul quale solo gravano gli obblighi di protezione esaminati in precedenza.
Nell’intraprendere un’azione di responsabilità extracontrattuale, il lavoratore vittima di mobbing dovrà dunque dar prova di tutti gli elementi previsti dall’art. 2043 c.c., e cioè il fatto dannoso, il danno patito ed il nesso causale tra fatto e danno, nonché, sul piano psicologico, l’atteggiamento doloso del danneggiante.

Oltre che nei diretti confronti del proprio persecutore, il lavoratore vittima di mobbing potrà contemporaneamente agire anche nei confronti del proprio datore di lavoro facendo valere – sempre sul piano extracontrattuale – la responsabilità indiretta che l’art. 2049 c.c. ricollega al fatto illecito commesso dal dipendente. Si tratta di una ulteriore possibilità di azione, che si affianca alla già vista responsabilità a titolo contrattuale del datore di lavoro che non abbia adeguatamente tutelato l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro a lui sottoposti.

Oltre al ricorso per ottenere il risarcimento del danno da mobbing, il rimedio più radicale è infine quello delle dimissioni per giusta causa, con le quali il lavoratore vittima di mobbing pone definitivamente fine ad un rapporto di lavoro per lui ormai divenuto insostenibile.

Alle dimissioni per giusta causa consegue per il lavoratore il diritto di percepire un’indennità sostitutiva del preavviso, cioè una somma pari alla retribuzione che sarebbe spettata al dimissionario se avesse lavorato per l’intero periodo di tempo individuato come preavviso dal contratto collettivo in ipotesi di normali dimissioni volontarie.

In presenza di tutti i requisiti previsti dalla legge, il lavoratore dimissionario perché vittima di mobbing potrà inoltre accedere all’indennità di disoccupazione (NASpI).


R. M. chiede
lunedì 11/04/2022 - Veneto
“Buongiorno, descrivo i fatti: in data 15/11/2021 stipulo un “contratto di prestazione sportiva dilettantistica” con Sport e Salute per fare delle ore di ed. fisica come tutor nelle scuole fino a giugno. A dicembre 2021 arriva l’obbligo vaccinale per i docenti, ma io non sono docente e continuo pensando che non mi riguardi. In data 14/03/2022 rileggendo il contratto vedo all’art. 6 (obblighi del tutor) lettera i) è scritto: “rispettare tutte le norme e le misure di sicurezza vigenti, per il contenimento e il rischio di contagio e della diffusione del virus covid-19, previste per il personale scolastico in servizio presso le istituzioni scolastiche”, poi richiamata dall’art.7 (recesso e risoluzione).
Chiedo informazioni con la seguente e-mail:
“Buongiorno vi scrivo per chiedere dei chiarimenti in merito all'esistenza di un obbligo vaccinale per i tutor di Scuola Attiva.
Perplessità:
1-gli obblighi contrattuali del tutor sono stati stipulati il 15 novembre 2021 quando l'obbligo vaccinale non c'era e successivamente mai aggiornati, nemmeno è stato mai chiesto il certificato vaccinale da nessun ente.
2-l'obbligo vaccinale essendo un trattamento sanitario obbligatorio non può essere imposto con contratto ma può esserlo solo in forza di una legge del Parlamento a norma dell'articolo 32 della costituzione.
3- l’art.4-ter, comma 1, lettera a), del decreto-legge 1 aprile 2021, n. 44 si riferisce al personale scolastico in senso stretto DS, docenti, ATA e non fa alcuna menzione del personale con contratto esterno.
4-il decreto-legge 52/2021 art. 9 ter.1 dice che l'ingresso a scuola del personale esterno avviene con Green pass base (vaccinazione, guarigione o tampone).
FONTE: normattiva.it
Alla luce di questa normativa chiedo conferma che per i tutor del progetto la vaccinazione è facoltativa per mancanza di una legge che ne inquadri la figura e lo obblighi.”

Mi rispondono: “Gentile Tutor, in relazione alla sua mail, a seguito di un riscontro con il nostro ufficio legale, valutate le vigenti normative, a tal proposito si comunica che va osservato quanto previsto nel contratto di prestazione sportiva dilettantistica da Lei sottoscritto, che cita che tra gli obblighi del tutor rientra quello di impegnarsi "a rispettare tutte le norme e le misure di sicurezza vigenti, per il contenimento del rischio da contagio e della diffusione del virus Covid-19, previste per il personale scolastico in servizio presso le Istituzioni scolastiche", quindi l'obbligo vaccinale introdotto dal D.L. n. 172/2021.”
In conseguenza della risposta diedi le dimissioni.
Dopo le dimissioni mi sono ammalato di covid-19 e ora sono guarito.
Ora io chiedo se ha avuto ragione sport e salute e giuste le dimissioni, oppure se ho ragione e io ed in caso chiedere di poter rientrare a scuola fino a giugno visto l’ultimo DL 24/2022 e la mia guarigione dal covid-19?
Grazie”
Consulenza legale i 19/04/2022
L’obbligo vaccinale di cui al D. L. 172/2021, stando alla lettera della legge e anche secondo l’interpretazione datane dal Ministero, non è previsto per il personale esterno che opera a supporto dell’inclusione scolastica, quello a qualunque titolo impiegato in attività di ampliamento dell’offerta formativa (esperti esterni), gli addetti alle mense, alle pulizie, ecc. Detto personale, può accedere a scuola con il greenpass base.

Nonostante l’obbligo di super greenpass si riferisca al solo personale scolastico in senso stretto, si deve tenere presente che ai sensi dell’art. 2087 c.c. e del D. Lgs. 81/2008, è onere del datore di lavoro adottare anche quelle misure di sicurezza cosiddette “innominate” che possano in concreto tutelare la salute del lavoratore, oltre a quelle già previste dai protocolli anti-covid per i luoghi di lavoro.

Il problema è delicato e discusso sia in dottrina che in giurisprudenza; per tale ragione non è possibile dare una risposta certa ed univoca.

Tuttavia, la giurisprudenza si è espressa diverse volte, seppure con riferimento agli operatori sanitari, ma anche con riferimento al periodo precedente all’introduzione dell’obbligo vaccinale (si veda Tribunale di Bergamo, sentenza n. 4318 del 27 settembre 2021, Tribunale di Milano, sentenza n. 2135 del 16 settembre 2021), giustificando la sospensione dei lavoratori non in possesso di certificazione vaccinale e richiamando appunto il dovere del datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee ad evitare e prevenire il contagio da Covid-19, anche se non espressamente previste dalla legge.

Nel caso di specie, peraltro, già nel contratto si faceva riferimento alle disposizioni previste per il personale scolastico.

Ad ogni modo, secondo quanto riferito, non è stata la scuola a sospendere il lavoratore, ma in concreto è stato il lavoratore a dare le dimissioni, seppure in conseguenza della risposta.

Pertanto, la richiesta di essere riammesso a scuola, anche se perfettamente attuabile, non potrà essere posta nei termini di una pretesa legittima, in quanto si tratterebbe di riammettere in servizio del personale che si è volontariamente dimesso e non è stato illegittimamente sospeso.

L.C. chiede
giovedì 23/09/2021 - Veneto
“CRONOSTORIA
Nel 2003 decede il padre per tumore (de cuius).
Nel 2005 il giudice (incaricando una CTU) respinge la domanda degli eredi per ottenere la malattia professionale del de cuius.
Nel 2009 la corte d'appello respinge subito il ricorso per ottenere la malattia professionale del de cuius, senza chiamare una nuova CTU.
Nel 2015 la cassazione cassa la sentenza della corte d'appello.
Nel 2019 la corte d'appello accoglie il ricorso degli eredi, dando la malattia professionale (senza concause) al de cuius.
In quella lunga causa contro l'INAIL, non vennero mai citati a giudizio i 2 datori di lavoro.

A fine 2020 gli eredi iniziano la causa contro i 2 datori di lavoro (2 società).


VERBALE DI UDIENZA
In merito all’eccezione di prescrizione,
l’avv. "A" (che difende gli eredi del de cuius) si richiama alla Corte Costituzionale n. 3206/88 che ha dichiarato illegittimità art. 185 comma 2 DPR 124/85 e cita Cass. del 2020 rileva che, in ogni caso, la prescrizione è stata interrotta dalla lettera del 17.4.2019.

L’avv. "B" (che difende il datore di lavoro, la società "X", penultimo datore di lavoro del de cuius) rileva che la Corte cost. citata da controparte lo smentisce perché la conoscenza della malattia professionale deriva dal momento della manifestazione della malattia, ribadisce che l’orientamento granitico stabilisce che il dies a quo decorre dal momento in cui il lavoratore ha gli elementi per poter affermare la propria titolarità del diritto risarcitorio. Richiama la Cassazione n.75/2021 che ribadisce l’autonomia tra l’accertamento del diritto risarcitorio fatto valere verso il datore di lavoro e l’accertamento della debenza delle somme da parte di INAIL per malattia professionale.

L’avv. "C" (che difende il datore di lavoro, la società "Y", ultimo datore di lavoro del de cuius) replica che l’ignoranza soggettiva da parte del lavoratore è irrilevante e non impedisce il decorso della prescrizione, nell’ambito delle malattie professionali il dies a quo è quello della diagnosi che nella specie è avvenuto nel 2002, come ammesso dallo stesso ricorrente.
Si riporta a quanto già dedotto dall’avv. "B" circa l’autonomia degli accertamenti del diritto risarcitorio contro il datore di lavoro e l’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della malattia professionale da parte di INAIL.

L’avv. "A" in merito al dies a quo della prescrizione cita Cassazione 14281/2011 e 10441/2007, 13284/2010; 15042/2019;
l’avv. "B" cita Cass. 1605/2020 e la 10539/2020.

Anche se non venne messo a verbale, durante l'udienza l'avv. "A" (che difende gli eredi del de cuius) disse una cosa del genere:
per il principio di consapevolezza, come si evince dai primi 2 gradi di giudizio, non fu stata riconosciuta la malattia professionale, quindi si ritiene che la conoscenza della malattia professionale sia avvenuta solamente leggendo la CTU di secondo grado del 2018 e relativa sentenza del 2019.


RICHIESTA
Leggendo la cronostoria ed analizzando il verbale d'udienza soprastante (oltre alla vostra conoscenza, esperienza e ricerche in merito),
la causa contro i 2 datori di lavoro è prescritta come sostengono i 2 avv. "B e C"? Oppure non è prescritta come sostiene l'avv. "A"?
Grazie.”
Consulenza legale i 29/09/2021
Secondo il parere di chi scrive, la causa contro i datori è prescritta come sostengono gli avvocati B e C.

Infatti, anche dalla sentenza Cass. 14281/2011, citata dall’avvocato A, si evince che la manifestazione della malattia professionale può ritenersi verificata quando la consapevolezza circa l'esistenza della malattia, la sua origine professionale e il suo grado invalidante siano desumibili da eventi oggettivi ed esterni alla persona dell'assicurato, che costituiscano fatto noto ai sensi degli articoli 2727 e 2729 c.c., come la domanda amministrativa, nonchè la diagnosi medica, contemporanea, dalla quale la malattia sia riconoscibile per l'assicurato (cfr. ex plurimis, Cass. n. 10441/2007, Cass. n. 27323/2005, Cass. n. 8257/2003, Cass. n. 4181/2003, Cass. n. 15598/2002).

Secondo Cass. 13284/2010, “la prescrizione del diritto al risarcimento del danno conseguente a una malattia causata al dipendente nell'espletamento del lavoro dal comportamento colposo del datore di lavoro decorre dal momento in cui l'origine professionale della malattia può ritenersi conoscibile dal danneggiato, indipendentemente dalle valutazioni soggettive dello stesso”. Nella specie, peraltro, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva individuato la decorrenza del termine prescrizionale nel momento in cui la malattia era stata diagnosticata, ritenendo che la sua origine professionale fosse desumibile alla stregua delle normali conoscenze dell'epoca.

Cass. n. 23110/2004 ha, altresì, precisato che la consapevolezza dell'esistenza della malattia e della sua origine professionale si può ragionevolmente presumere sussistente alla data della domanda amministrativa, atteso che, senza di essa, l'istanza sarebbe palesemente infondata e pretestuosa e la successiva domanda, per il riconoscimento giudiziale del beneficio, potrebbe comportare l'insorgenza della responsabilità per le spese, ex articolo 152 disp. att. c.p.c., per lite temeraria; per converso, in ordine al requisito del raggiungimento del minimo indennizzabile, l'opinione personale dell'interessato è assolutamente irrilevante, dipendendo da un accertamento tecnico suscettibile di divergenze valutative e di giudizi anche diametralmente opposti da parte di medici esperti della materia.

Come già rilevato dagli avvocati B e C, non può condividersi, poi, l’argomento in base al quale la prescrizione decorrerebbe solo dalla data di emanazione della sentenza resa nella causa promossa dal lavoratore contro l’INAIL, con la quale si è accertato il nesso di causalità tra le patologie sofferte dal lavoratore e l’attività lavorativa dallo stesso espletata. Infatti, come più volte rilevato dalla giurisprudenza, non vi è “alcun condizionamento tra la domanda diretta ad ottenere l’indennizzo INAIL e l’azione risarcitoria nei confronti del datore di lavoro la quale ha presupposti diversi (così, l’intervento dell’INAIL prescinde dalla sussistenza di una colpa del datore di lavoro che, nella responsabilità civile, deve essere accertata) sicché è possibile esercitare l’azione ai sensi dell’art. 2087 c.c. dal momento in cui la produzione del danno si è manifestata all’esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile; ad opinare diversamente, sarebbe frustrata l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici a cui risponde l’istituto della prescrizione”.

Nel caso di specie, considerato che la manifestazione esterna della malattia è palese (avendo causato la morte del de cuius), vi è oltretutto la proposizione della domanda giudiziale nei confronti dell’INAIL, la quale presuppone la consapevolezza della malattia professionale.

Pertanto, si può ritenere che il termine di prescrizione per l’azione nei confronti del datore di lavoro sia ormai spirato.


Sergioi S. chiede
sabato 02/01/2021 - Abruzzo
“Mia cognata, moglie di mio fratello di professione medico ortopedico e fisiatra è stata infettata da uno del personale, dal Coronavirus. Una volta a casa e del tutto inconsapevole di esserne affetta, ha infettato il marito,medico pediatra di 70 anni ed il figlio di anni 26. Lei ed il figlio se la sono cavata, il marito ne ha subito le maggiori conseguenze, sino alla morte. Vorrei sapere se in ciò si ravvisa responsabilità del datore di lavoro e nel caso specifico chi è di fatto il datore di lavoro?”
Consulenza legale i 11/01/2021
Il datore di lavoro risponde della mancata osservanza delle norme a tutela dell'integrità fisica dei prestatori di lavoro. Tale responsabilità deriva, innanzitutto, dall’art. 2087 c.c., secondo il quale “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

La normativa di riferimento in materia di salute e sicurezza sul lavoro è contenuta nel D. Lgs. n. 81/2008 (T.U. Salute e Sicurezza sul lavoro).

L'infezione da coronavirus rientra nell'alveo delle malattie infettive e parassitarie e, come tale, è meritevole di copertura Inail per gli assicurati che la contraggono “in occasione di lavoro”, come stabilito dal Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020, il c.d. “Decreto Cura Italia”, all'art. 42 comma 2, nonché dalla circolare Inail n. 13 del 3 aprile 2020.

Inoltre, l’art. 2, comma 6, del DPCM 26 aprile 2020, impone a tutte le imprese che non hanno sospeso la propria attività di osservare il “protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro” sottoscritto dal Governo e dalle parti sociali
Tale documento impone al datore di lavoro una serie di obblighi, fra cui obblighi di informazione, rilevazione della temperatura, dispositivi di protezione individuale, igiene e sanificazione dei luoghi di lavoro, gestione di eventuali persone sintomatiche e sorveglianza sanitaria.

Ancora, l’art. 1, comma 14, del d.l. 16 maggio 2020, n. 33, convertito con l. 14 luglio 2020, n. 74, prescrive che “le attività economiche, produttive e sociali devono svolgersi nel rispetto dei contenuti di protocolli o linee guida idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in ambiti analoghi, adottati dalle regioni o dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali. In assenza di quelli regionali trovano applicazione i protocolli o le linee guida adottati a livello nazionale. Le misure limitative delle attività economiche, produttive e sociali possono essere adottate, nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità, con provvedimenti emanati ai sensi dell’articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020 o del comma 16”.

Ai sensi del comma 15 del medesimo art. 1, inoltre, “il mancato rispetto dei contenuti dei protocolli o delle linee guida, regionali, o, in assenza, nazionali, di cui al comma 14 che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell'attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”.

Nel sistema delineato, la mancata osservanza di una delle norme sopra citate già in astratto sarebbe sufficiente a determinare in capo al datore di lavoro una responsabilità penale nel caso di un dipendente che affermi di aver contratto la malattia (anche rimanendo asintomatico) sul luogo di lavoro.

Il datore di lavoro che non osserva le norme antinfortunistiche, infatti, è punibile ai sensi dell'art. 40, comma 2, c.p.

Nello specifico, il datore di lavoro risponde del reato di lesioni di cui all’art. 590 c.p. (salvo ipotesi di malattia lieve, guaribile in meno di 40 giorni, procedibile a querela), oppure di omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p. qualora al contagio sia seguita la morte, oltre alla circostanza aggravante della violazione delle norme antinfortunistiche (art. 590, comma 3, c.p.). Per quanto concerne quest'ultima aggravante, nei delitti colposi derivanti da infortunio sul lavoro, non occorre che siano violate norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, essendo sufficiente che l’evento dannoso si sia verificato a causa della violazione dell’art. 2087 c.c. che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.

Per quanto riguarda, poi, l'onere della prova, la circolare n. 13/2020 dell'Inail chiarisce che in linea generale “Nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus. A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari.

Ne consegue che gli operatori sanitari, come la lavoratrice del caso di specie, che abbiano contratto per lavoro la malattia da Covid-19, possono ricevere dall’Inail l’indennizzo del periodo di temporanea conseguente alla malattia, indennizzabile con l’indennità di inabilità temporanea, e dei postumi permanenti di danno biologico, indennizzati in capitale o con rendita in caso di postumi superiori al 16%.
Per tutti gli altri lavoratori, la copertura assicurativa è riconosciuta a condizione che la malattia sia stata contratta durante l’attività lavorativa stabilendo l’onere della prova a carico dell’assicurato.
Considerando, tuttavia, che il periodo di tempo che intercorre tra il contagio ed il manifestarsi dei sintomi può arrivare fino a 14 giorni, risulta estremamente difficile sostenere per il lavoratore che il luogo del contagio possa essere individuato con certezza all'interno della sede di lavoro.
A causa della virulenza della malattia, infatti, sarebbe difficile escludere altre possibili cause di contagio quali la vicinanza ad altre persone positive in altri luoghi, quali supermercati, mezzi pubblici o altri familiari conviventi contagiati.
Al datore di lavoro potrebbe essere sufficiente dimostrare di aver adottato tutti i presidi indicati dalla legge per escludere in capo a sé ogni responsabilità o, per contro, sostenere che nei giorni prossimi all'ipotizzato contagio, il dipendente non abbia sempre e con rigore osservato le precauzioni imposte quali l'uso della mascherina o dei guanti.

Appare quindi molto difficile per il lavoratore fornire la prova “al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533 c.p.p.) e corroborare la tesi della colpevolezza del datore di lavoro escludendo con sufficiente certezza l’esistenza di altre cause di contagio esterne alla responsabilità datoriale.

L'eventuale contagio da coronavirus all'interno del luogo di lavoro è altresì rilevante per quanto riguarda il risarcimento del danno in sede civilistica ai sensi dell'art. 2043 c.c.
Anche in questo caso, tuttavia, il riparto dell'onere della prova è a carico del danneggiato il quale deve provare il nesso di causalità fra l’evento dannoso di cui chiede il risarcimento e la condotta attiva o omissiva del datore di lavoro, con le difficoltà di cui sopra.

In conclusione, nel caso di specie, si ritiene che la lavoratrice, operante nel settore sanitario, in forza della presunzione di cui sopra, potrebbe ottenere da un lato l’indennizzo Inail, dall’altro potrebbe richiedere al datore di lavoro l’ulteriore danno differenziale (l’INAIL, infatti, eroga, sotto forma di rendita, un indennizzo e non l’intero danno civilistico) che, in ragione della gravità delle conseguenze sulla salute e sulla vita di relazione, potrebbe essere molto ingente.

Per quanto riguarda, invece, l’ulteriore contagio dei familiari, si potrebbero porre problemi circa la dimostrazione della causa del contagio, per le problematiche di cui si è discusso. Seppure altamente probabile che il contagio sia avvenuto per il tramite della lavoratrice e quindi in ambito familiare, è altresì plausibile che gli stessi abbiano contratto il virus in altri luoghi o da altre persone positive.

Per quanto riguarda l’individuazione del datore di lavoro, lo stesso dovrà individuarsi nel direttore generale dell’azienda sanitaria presso cui presta la propria attività la lavoratrice.

Sul punto, la sentenza della Cassazione, sez. III, penale, n. 29543/2009 ha stabilito che “il direttore generale dell’ASL, essendo collocato al vertice amministrativo e gestionale dell’ente pubblico, è tenuto all’osservanza delle norme di prevenzione e di sicurezza che rientrano nella più ampia nozione di gestione dell’ente. Per ‘datore di lavoro’ negli enti pubblici deve intendersi chi in concreto abbia il potere gestionale sui luoghi di lavoro; nel caso di un’Azienda sanitaria del SSN questo potere gestionale, in mancanza di alcuna delega, spetta al direttore generale. L’art. 2 del D.Lgs. 81/08 infatti prevede espressamente che nelle p.a. di cui all’art. 1 c.2 D.Lgs. 165/2001 per ‘datore di lavoro’ si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione. Solo nel caso in cui un funzionario non avente qualifica dirigenziale sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici […] e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa, sullo stesso ricadono gli obblighi di prevenzione".

La Suprema Corte con un ulteriore sentenza (Cass. IV Pen. 27.9.2010 n. 34804), ha precisato ulteriormente che “la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha ripetutamente affermato che nelle strutture pubbliche (come quella ospedaliera in questione) di una certa rilevanza e complessità ricorre una suddivisione dell’attività funzionale in distinti settori, rami, servizi, in ordine a ciascuno dei quali vengono preposti soggetti qualificati ed idonei, dotati della necessaria autonomia e dei poteri indispensabili per la gestione completa degli affari inerenti a quel servizio. Dal che discendono i connessi obblighi in materia antinfortunistica […] le funzioni espletate […] comportano di per sé obblighi di assunzione delle misure per la sicurezza e la salute dei lavoratori, a prescindere anche da atti formali di individuazione dei singoli soggetti gravati dall’obbligo di garanzia”.

Pertanto, il datore di lavoro sarà da individuare nel direttore generale e la responsabilità ricadrà su di lui e/o, nel caso in cui le funzioni siano state delegate, al dirigente incaricato della specifica funzione, in merito alla quale si siano verificate eventuali mancanze.

Anonimo chiede
mercoledì 09/05/2018 - Campania
“Buongiorno sono un lavoratore ex L.s.u. per il Comune di (omissis), sono Geometra e nel lontano 1995 a causa dei fatti di mani pulite, tutti i cantieri edili si bloccarono. Mi iscrissi al collocamento e a maggio 1996 fui chiamato dal Comune di (omissis), con chiamata nominativa a capo del progetto integrativo dello spazzamento strade cittadine e viali civico cimitero, dove io ero a capo di n. 34 addetti al servizio. Nel 2002 il Comune espletò una gara di appalto per la raccolta, trasporto e smaltimento rifiuti, integrandola anche con il servizio spazzamento. Quindi fu effettuato l'assunzione di complessivi 108 lavoratori da parte della ditta aggiudicatrice dell'appalto, dei nominativi del personale dati dal Comune che erano parte integrante del Capitolato speciale d'appalto. Premesso che io al Comune ho espletato le mie mansioni con l'inquadramento del 6° liv. Nel primo passaggio con la ditta aggiudicatrice dell'appalto fui inquadrato nel 5° liv.Sorvegliante del contratto nazionale Fise-Assoambiente, e da allora ad oggi con tutte le ditte che si sono succedute in questi anni sono rimasto al mio posto ed al mio livello. L'attuale ditta vincitrice dell'appalto il 02/02/2017 a distanza di un anno e mezzo, si sta approfittando di molte situazioni nei confronti dei lavoratori tutti, avvalendosi a suo dire della riforma del lavoro attuata da Renzi con il Job act. Tengo a precisarvi che noi nel contratto iniziale sottoscritto con i lavoratori siamo ancora tutelati dall'art.18 e non abbiamo quindi le tutele crescenti. Nel mio caso specifico la persecuzione della ditta nei miei confronti è iniziata a Gennaio di quest'anno, dove il 23 del mese ebbi una raccomandata dove mi veniva intimato a decorrere dal 1° marzo di trasferirmi definitivamente su altro loro cantiere e precisamente a Gela (CL), io ho impugnato tale trasferimento iniziando un contenzioso legale, la ditta però prima di arrivare a qualsiasi giudizio mi faceva recapitare una loro missiva del 04/04/18 dove revocavano il trasferimento. Successivamente il 18/04 mi è arrivata una ulteriore raccomandata, dove mi viene richiesto un cambio di mansioni, offrendomi la mansione di autista spazzatrice(automezzo che opera per la pulizia delle strade con spazzole rotanti, e quindi di difficile manovrabilità), tutto questo appellandosi all'art. 2103 del c.c. Ora io mi chiedo come è possibile tutto questo tenendo conto che io oggi ho 60 anni, e tutto il mio trascorso lavorativo è stato solo esclusivamente tecnico e non di manovalanza o di autista, anche perché in questi anni sono successi eventi patologici che mi creerebbero difficoltà a svolgere le mansioni di autista ma non quelle che ho sempre svolto, ho paura che in caso di mia rinuncia la ditta proceda con un licenziamento, vi chiedo quindi cosa posso fare? Grazie e buon lavoro, in attesa di riscontro vi invio distinti saluti.”
Consulenza legale i 23/05/2018
Bisogna preliminarmente premettere che il codice civile ai sensi dell’art. 2087 c.c. impone all’azienda di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psicofisica dei dipendenti.
Se, pertanto, pur venuto a conoscenza della malattia di cui è affetto il lavoratore, il datore gli fa comunque svolgere le stesse mansioni, sarebbe responsabile di un eventuale aggravamento o compromissione della sua salute.
Il combinato disposto di cui all’art. 1 comma 7 e l’art. 4 comma 4 della Legge 68/99 e l’art. 3 commi 2,3 e 4 del D.P.R. n.333/2000 disciplina appositamente il caso di invalidità sopraggiunta in corso di lavoro e stabilisce che, se durante l’esecuzione del rapporto, il dipendente, non disabile al momento dell’assunzione, diventa inabile allo svolgimento delle proprie mansioni a seguito di infortunio o di malattia sopravvenuta, egli ha diritto di chiedere, al proprio datore, di adibirlo a mansioni differenti.
Ciò vale sia nel caso in cui l’invalidità dipenda dall’ambiente lavorativo che in tutti gli altri casi.
In particolare, il datore di lavoro ha un vero e proprio obbligo – e non già una semplice facoltà – di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti o, in mancanza, inferiori: in tal caso il dipendente ha diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza. Se nell’ambito aziendale però non sono disponibili mansioni equivalenti o inferiori, o se il dipendente dichiarato inabile non ha le qualifiche e le caratteristiche necessarie allo svolgimento delle diverse mansioni, si può procedere al suo licenziamento.
Nel caso di inidoneità fisica definitiva, pertanto, il lavoratore o prosegue ugualmente l’attività seppur con altre mansioni ove disponibili in azienda, e quindi continua a percepire lo stipendio, oppure viene licenziato.

Diverso è il caso in cui il medico aziendale accertasse a carico del lavoratore dipendente una inidoneità temporanea alle mansioni. In tale situazione è esclusa però la possibilità di licenziamento essendo la patologia transitoria. Il datore di lavoro, quindi ha l’obbligo di sospendere, seppur momentaneamente, il dipendente dalle mansioni a cui è addetto.
Il lavoratore si troverà, così, in presenza di un semplice periodo di attesa durante il quale, però, non viene prestata attività lavorativa.
Ebbene, fermo restando che il contratto collettivo applicabile al caso di specie potrebbe disciplinare in modo differente la fattispecie, secondo la giurisprudenza prevalente, nel caso di accertata inidoneità temporanea alle mansioni, se le prestazioni lavorative sono vietate dal certificato del medico competente, il datore di lavoro da un lato è tenuto a sospendere il dipendente dal lavoro, dall’altro lato però non è obbligato a pagargli lo stipendio e a versare i relativi contributi previdenziali.
C’è da considerare altresì che se il lavoratore ritiene di avere comunque la possibilità di svolgere le proprie mansioni e che la sospensione possa essere considerata un eccesso di zelo del datore o un subdolo tentativo di penalizzarlo, egli può impugnare il certificato del medico aziendale, ossia il suo giudizio di inidoneità, presso la competente commissione della Asl.
Inoltre è da valutare anche che nelle more della decisione delle sorti dell’impugnazione suddetta, secondo alcuni giudici il dipendente va comunque pagato, secondo altri invece no. Secondo altra giurisprudenza [Trib. di Benevento], addirittura, non può essere operata la sospensione dal lavoro del dipendente prima che la commissione dell’Asl abbia deciso le sorti dell’impugnazione del giudizio di inidoneità medica; il che significa anche che il datore di lavoro deve continuare a pagare lo stipendio al lavoratore.

Alla luce di quanto sopra considerato, sarebbe opportuno valutare preliminarmente le proprie condizioni fisiche e l’idoneità allo svolgimento delle nuove e diverse mansioni assegnate e in caso di relativa e accertata inidoneità, richiedere di essere assegnato ad altre mansioni compatibili con lo stato di salute che comunque dovranno essere effettivamente disponibili in azienda. In alternativa, qualora con l’assegnazione alle nuove mansioni di autista il datore di lavoro avesse voluto porre in essere un tentativo di penalizzare il lavoratore e quindi di violare il diritto alla professionalità fino al momento maturata, operando un grave demansionamento, sarebbe allora da valutare l'opportunità di adire il giudice del lavoro al fine di chiedere:
- l’accertamento della condotta illegittima del datore di lavoro e
- la conseguente condanna dello stesso al ripristino delle mansioni precedenti ed
- al risarcimento dei danni patiti dal lavoratore.


Stefano S. chiede
giovedì 02/02/2017 - Sardegna
“Buongiorno sono un militare e già da tempo mi sto trascurando un problema fisico per via delle continue partenze,quest'anno ci è stato detto inizialmente che non saremmo pariti per un po di tempo quindi mi sono deciso a fare la visita per il successivo intervento di varicocele,attualmente mi ritrovo a dover partire per forza su ordine,in questo caso mi viene leso il diritto di cui l'articolo 32 della Costituzione?A premessa di tutto io informai della mia intenzione di curarmi appena saputo che non sarei partito.Grazie anticipatamente”
Consulenza legale i 07/02/2017
I valori della libertà, dignità e riservatezza, così come la rilevanza della condizione di benessere psico-fisico del lavoratore, tendono ad ampliare la gamma delle disposizioni normative contenenti limiti imposti alla discrezionalità delle scelte e delle decisioni del datore di lavoro.

La salute costituisce un necessario aspetto della tutela della personalità del lavoratore, sancita anche dall'art.2087 c.c. ed il cui fondamento normativo risiede nel principio costituzionale desumibile anche dall'art. 41 Cost., teso allo sviluppo della personalità del lavoratore, subordinando perfino la libertà di iniziativa economica alla tutela della sicurezza e al rispetto della dignità umana e considerando la salute come diritto primario del cittadino-lavoratore e interesse fondamentale della collettività.

Nell'ottica del rispetto di questi che possono definirsi principi fondamentali, valevoli per ogni tipologia di rapporto di lavoro, può ritenersi dettata anche la disciplina della malattiarelativa al prestatore di lavoro appartenente ad un corpo militare.
Il riferimento va fatto al D.P.R. 15 marzo 2010 n. 90, contenente il testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare.
In particolare, l’art. 748 di tale T.U., contenuto nella sezione II relativa alle norme di servizio, disciplina l’ipotesi della malattia del militare, distinguendo a seconda che:
  1. il militare, presente al corpo o ente, sia impedito per malattia a prestare servizio;
  2. il militare, legittimamente assente, per licenza o altro, non possa rientrare al corpo per malattia o altra grave ragione.
In entrambi i casi, fatto salvo il diritto ad essere esonerato dal prestare servizio, l’unico obbligo incombente sul militare risulta essere quello di informare preventivamente il superiore diretto (nel caso sub a) e il comando di presidio o, in assenza, il locale comando dei carabinieri (nel caso sub b).

Pertanto, nessun ordine di servizio può ledere, in forza dei principi sopra espressi, il diritto del lavoratore-militare ad assentarsi per sottoporsi ad un intervento a tutela della propria salute, ancor più allorché si tratti di un intervento programmato e della cui necessità si possa produrre adeguata certificazione medica (è consigliabile, infatti, produrre una certificazione medica piuttosto che manifestare una semplice intenzione personale di volersi sottoporre a delle cure).

A tal proposito si segnala anche la nota dell’Ispettorato generale della Sanità militare del 13.07.2016, concernente “Decreto del Ministero della difesa 24.11.2015, recante le modalità per l’adozione del sistema dell’adozione del doppio certificato per il personale di cui all’art. 748 D.P.R. 90/2010”, in cui si precisa che il militare, assente per malattia, deve farsi rilasciare dal medico che abbia accertato tale condizione due certificati, uno recante la sola prognosi da consegnare al Comando del proprio ente di appartenenza ed un secondo in cui è trascritta anche la diagnosi della patologia sofferta, da consegnare, in busta chiusa, al Dirigente sanitario dell’ente in cui presta servizio e per il quale la conoscenza della diagnosi risulta indispensabile ai fini della verifica della persistenza dell’idoneità psico-fisica del militare.

Qualora, poi, si dovesse assistere a comportamenti palesemente ostruzionistici da parte del corpo di appartenenza, volti a far rinviare nel tempo l’esercizio del diritto del lavoratore di sottoporsi alle cure di cui ha bisogno, ben si potrà meditare in merito ad una eventuale richiesta di risarcimento del danno patito a causa dello stress generato dalla situazione descritta.



R.V. chiede
sabato 24/02/2024
“Buongiorno, dopo 40 anni di lavoro in azienda (non ho mai fatto un giorno di malattia) il datore di lavoro mi ha licenziato "ad nutum" a mezzo lettera il 20.09.2023, senza nessun preavviso a voce e con cessazione del lavoro il giorno successivo. Ho avuto uno schock con incapacità di intendere e di volere momentanea per cui ho eseguito, come un automa, tutto quanto richiestomi nella lettera (in primis le dimissioni i mmediate per la pensione a partire dal 01.01.24). In concomitanza ho chiamato il segretario della CGIL che ha parlato telefonicamente con il datore di lavoro (non in mia presenza) dopo di che l'azinda mi ha presentato una scrittura privata in cui mi venivano corrisposti 5.000 euro + 500 euro per non fare causa e con clausole di rinuncia a tutte le mie eventuali spettanze di ferie degli anni precedenti, permessi non retribuiti, straordinari non pagati, etc. (praticamente mi hanno messo un cappio al collo) . Questo accordo prevedeva 3 mesi di preavviso in azienda, e che purtroppo mi hanno debilitato psicologicamente. Alla scadenza dell'accordo del 31.12.2023 ( l'accordo è in mie mani già firmato dal datore di lavoro) non è stato a tutt'oggi firmato da me in Assolodi perché intorno a quella data non c'era la disponibilità di presenza sia del responsabile della Assolodi che del segretario della CGIL (così mi è stato detto dal datore di lavoro , aggiungendo che sarebbe stato firmato a gennaio; dopo di che non ho saputo più niente). Gli avvocati della CGIL hanno detto che per entrambe i documenti (lettera di licenziamento e accordo, datati entrambi 20.09.2023.) erano trascorsi i termini per l'impugnazione. Dal giorno del licenziamento continuo a piangere se si parla di questo argomento per il modo in cui mi hanno mandato in pensione dopo 40 anni, tanto che non sono riuscita a dirlo a mia figlia per 5 mesi ed ora continuo a piangere eriesco a malapena ad alzarmi dal letto per la patologia ai nervi che nel frattempo mi ha colpito nonostante i farmaci che mi hanno dato i medici. Non sono riuscita neanche a salutare i lavoratori e i colleghi con cui ho avuto un bellissimo rapporto sia lavorativo che personale in tutti questi anni 40 anni. Premetto che da questa azienda ho subito in passato (più di 5 anni fa') 13 anni di mobbing dal direttore (ora in pensione) e dalla responsabile, che è tutt'ora l'attuale responsabile. Questi 13 anni di mobbing mi hanno procurato varie patologie per cui ho un'invalidita' del 74 %. A questo punto non so cosa fare ed il segretario della CGIL mi ha scritto "di non fargli fare una brutta figura con l'azienda" ????? Cio' secondo me vuol dire che non potrò avere nessun supporto dagli avvocati della CGIL. Sottolineo anche che i due appuntamenti che mi sono stati dati presso gli avvocati erano in giorni successivi alla possibilità di impugnare sia il licenziamento che l'accordo (???) . Rimango in attesa di un vostro cortese cenno di riscontro. Cordiali saluti”
Consulenza legale i 10/03/2024
Per quanto riguarda le dimissioni, non è ormai più possibile revocarle. Infatti, l’annullamento delle dimissioni presentate è possibile solo entro 7 giorni dalla presentazione telematica delle stesse.

Tuttavia, le dimissioni rese in situazione di incapacità di intendere e di volere non sono valide. In tali casi, quindi, si può disporre l’annullamento delle dimissioni per incapacità, con conseguente richiesta delle retribuzioni arretrate a decorrere sin dalla data della richiesta di annullamento stesso.

Ciò in relazione al principio secondo cui l’incapacità naturale impedisce la cosciente e libera determinazione del soggetto. In sostanza, l’incapacità naturale priva il soggetto della facoltà di percepire e valutare il contenuto dell’atto. Il lavoratore, pertanto, nel momento di incapacità di intendere e volere si trova in una situazione di particolare debolezza. Questo perché privo di qualunque consapevolezza dell’atto che sta per compiere.

A rilevarlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 16998 del 25 giugno 2019.

La decisione deriva sostanzialmente dalla circostanza secondo la quale il lavoratore, all’atto delle dimissioni, fosse affetto da “pseudo demenza depressiva”. Situazione, questa, che gli ha causato una totale incapacità di intendere e di volere. In altre parole, era chiaro che sussistessero i presupposti per considerare l’atto di dimissioni viziato ex art. 428 c.c.

Ma l’aspetto più importante riguarda l’annullamento del contratto che si verifica, a norma dell’art. 1425 c.c., quando una delle parti era legalmente incapace di contrarre. Inoltre, è parimenti annullabile, quando ricorrono le condizioni stabilite dall’art. 428 c.c.(comma 2). Tale articolo al primo comma dispone che:

gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere e di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore”.

Il secondo comma prevede, poi, che:

l’annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente”.

Il problema, tuttavia, è che, ammesso che si riuscisse a dimostrare tutto quanto sopra e si ottenesse la reintegrazione, il datore di lavoro avrebbe comunque la facoltà di licenziare ad nutum per raggiunti limiti di età.

Il discorso è diverso per quanto riguarda le rinunce e transazioni sottoscritte nell’accordo.

In un’ottica protettiva del lavoratore, le rinunce e le transazioni sono soggette a un regime particolare volto a impedire che dismetta alcuni diritti in costanza del rapporto di lavoro con il solo scopo di salvaguardare l’occupazione o per via di una situazione di squilibrio o “timore” contrattuale.

L’articolo 2113 c.c. disciplina espressamente solo due tipi di atti attraverso i quali il dipendente può dismettere i propri diritti: le rinunce e le transazioni.

La rinuncia è un atto unilaterale e consiste nella manifestazione della volontà del lavoratore di non esercitare più un suo diritto; essa può realizzarsi non solo attraverso una dichiarazione espressa, ma anche tramite un comportamento del dipendente dal quale si può dedurre in modo inequivocabile la volontà di abdicare a tale diritto.

La transazione, invece, è un contratto con cui le parti pongono fine a una lite o ne prevengono l’insorgenza attraverso reciproche concessioni. Affinché la transazione sia valida non è indispensabile che sia stipulata per iscritto, anche se la forma scritta è necessaria ai fini della prova. I diritti oggetto dell’accordo transattivo devono essere determinati o comunque determinabili, in caso contrario il lavoratore può agire in giudizio per far valere quei diritti che non possono essere considerati oggetto della transazione.

Inoltre, il lavoratore deve essere pienamente consapevole del contenuto e dell’ampiezza dei diritti di cui intende disporre e deve essere pienamente convinto dell’intenzione di rinunciarvi, perciò tale volontà abdicativa deve risultare chiaramente dal testo dell’accordo transattivo non essendo sufficiente l’utilizzo di mere clausole di stile ampie e indeterminate.

Diverse da tali atti dispositivi sono le c.d. quietanze a saldo, ossia quei documenti, di regola sottoscritti a fine rapporto, con cui il lavoratore dichiara di aver percepito una determinata somma a totale soddisfacimento di ogni sua pretesa e di non aver più nulla a pretendere dal proprio datore di lavoro. Generalmente, esse si considerano mere dichiarazioni di scienza, perciò il lavoratore in futuro potrà promuovere un’azione giudiziale a tutela dei diritti che ne sono oggetto, indipendentemente dal termine di decadenza semestrale sancito dall’art. 2113 c.c.

La quietanza a saldo può assumere il valore di rinuncia o transazione, con l’onere per il lavoratore di impugnare nei termini di cui all’art. 2113 c.c., unicamente alla condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili altrimenti, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di rinunciarvi o di transigere sui medesimi.

Ad ogni modo, le rinunce e transazioni non sottoscritte nelle c.d. “sedi protette” sono annullabili e quindi impugnabili dal lavoratore solo entro il termine previsto nell’articolo 2113 c.c.

L’impugnazione, quindi, deve essere proposta dal lavoratore stesso o da un’organizzazione sindacale cui è stato conferito espresso mandato, entro sei mesi a pena di decadenza.

Il termine decorre dal momento:

  • della cessazione del rapporto di lavoro se le rinunce o le transazioni si sono verificate in costanza di rapporto;
  • della rinuncia o della transazione se queste sono avvenute dopo la cessazione del rapporto.

Scaduto il termine, l’atto -originariamente invalido- è sanato e il lavoratore non può più far valere in giudizio i diritti oggetto della rinuncia o della transazione.

L’impugnazione può essere effettuata con qualsiasi atto da cui emerga chiaramente la volontà del lavoratore; pertanto, può consistere sia in un ricorso al giudice che in un atto stragiudiziale, ossia una semplice lettera inviata al datore di lavoro a mezzo di raccomandata a.r. (o per posta elettronica certificata).

Inoltre, anche in seguito alla scadenza del termine di decadenza semestrale, gli atti abdicativi dei diritti possono essere impugnati entro cinque anni se ricorrono i presupposti previsti dal codice civile per l’annullamento dei contratti in generale (incapacità di agire o vizio del consenso).

Peraltro, nel caso di specie non si è rinunciato esplicitamente a far valere il mobbing, pertanto, si potrebbe sostenere di non aver comunque rinunciato ad avviare un’azione in tal senso.

L’azione risarcitoria per mobbing si prescrive in dieci anni, trattandosi di responsabilità contrattuale (legata alla violazione dell’art. 2087 c.c.).
Naturalmente è consigliabile attivarsi tempestivamente per ragioni pratiche-processuali: in cause in cui le testimonianze sono di fondamentale importanza, il trascorrere del tempo rischia di far perdere memoria storica ai testimoni e rischia dunque di compromettere la buona riuscita della causa.
Come chiarito anche dalla giurisprudenza (cfr. ad esempio Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 17698/2014), sono elementi costitutivi del fenomeno del mobbing:
  1. una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. il nesso di causalità tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio che unifica e lega tra loro tutti i singoli comportamenti ostili.
Per integrare il mobbing, tuttavia, è necessario che sussistano tutti gli elementi descritti, quindi anche il danno alla salute, il nesso di causalità e l’intento persecutorio (lettere b, c e d).
In particolare, per quanto riguarda il danno alla salute è molto importante che la diagnosi del medico, pur sintetica (ad es. depressione, ansia, attacchi di panico, ecc.) attesti – se ricorrono gli estremi – che la patologia è riconducibile al contesto lavorativo (e dunque, ad es.: depressione reattiva a problematiche in ambito lavorativo).

Sul piano legale ci si può rivolgere ad un sindacato, oppure direttamente ad un avvocato giuslavorista specializzato in casi di mobbing, per avviare un’azione nei confronti del datore di lavoro.
È importante che il percorso clinico inizi contestualmente (o antecedentemente) a quello legale.

Nel far valere la responsabilità contrattuale del proprio datore di lavoro, che deriva dalla violazione dell’art. 2087 c.c. , il lavoratore vittima di mobbing dovrà indicare e provare i comportamenti vessatori subiti, tali da rendere “nocivo” l’ambiente di lavoro, dando altresì prova del danno patito e del nesso causale fra tale danno e le condotte mobbizzanti rese possibili dall’inadempimento degli obblighi di protezione incombenti sul datore di lavoro. Per andare esente da responsabilità, quest’ultimo dovrà invece – secondo lo schema previsto dall’art. 1218 c.c. – dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare la salute psicofisica del lavoratore o di non averlo potuto fare per cause a lui non imputabili (in questi termini si è espressa, ad esempio, Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 2038/2013).

Per quanto riguarda l’intento persecutorio, al fine di non aggravare eccessivamente l’onere probatorio del lavoratore vittima di mobbing, la giurisprudenza ha chiarito che il lavoratore può limitarsi a fornire la prova dell’idoneità persecutoria della condotta complessivamente posta in essere, rilevabile, anche in via presuntiva, dalle caratteristiche oggettive della stessa, quali la monodirezionalità, la pretestuosità e la permanenza nel tempo dei comportamenti vessatori.

Il lavoratore vittima di mobbing dovrà quindi in particolar modo dimostrare che le condotte poste in essere nei suoi confronti non rientrano nell’esercizio dei normali poteri di organizzazione e controllo delle attività riconosciuti al datore di lavoro, né si limitano a semplici e tutto sommato fisiologici episodi di conflittualità sul luogo di lavoro, ma integrano al contrario una vera e propria strategia persecutoria finalizzata a porre il soggetto che ne è bersaglio in uno stato di grave e profondo disagio.

Oltre alla responsabilità contrattuale del datore di lavoro, ricorre un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale allorché la condotta vessatoria è posta in essere da colleghi posti allo stesso livello gerarchico della vittima o anche da suoi superiori, purché diversi dal datore di lavoro, sul quale solo gravano gli obblighi di protezione esaminati in precedenza.

Nell’intraprendere un’azione di responsabilità extracontrattuale, il lavoratore vittima di mobbing dovrà dunque dar prova di tutti gli elementi previsti dall’art. 2043 c.c., e cioè il fatto dannoso, il danno patito ed il nesso causale tra fatto e danno, nonché, sul piano psicologico, l’atteggiamento doloso del danneggiante.

Oltre che nei diretti confronti del proprio persecutore, il lavoratore vittima di mobbing potrà contemporaneamente agire anche nei confronti del proprio datore di lavoro facendo valere – sempre sul piano extracontrattuale – la responsabilità indiretta che l’art. 2049 c.c. ricollega al fatto illecito commesso dal dipendente. Si tratta di una ulteriore possibilità di azione, che si affianca alla già vista responsabilità a titolo contrattuale del datore di lavoro che non abbia adeguatamente tutelato l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro a lui sottoposti.


G. B. M. chiede
giovedì 18/02/2021 - Piemonte
“Buonasera
la ditta di cui sono socia ha un dipendente da oltre 20 anni che ora è diventato affetto da grave demenza. I familiari hanno avviato le pratiche per il riconoscimento dell'invalidità civile totale e ricovero in struttura adeguata ma si prevede un iter burocratico lungo anche a causa covid. Durante questo periodo la ditta è obbligata a licenziare il dipendente oppure può tenerlo in forza anche se chiaramente non può svolgere nessun lavoro ? Se in questo periodo il dipendente soffre di particolari crisi della sua malattia, ha diritto al contributo INPS per malattia fino a 180 giorni come ogni altro dipendente ?”
Consulenza legale i 26/02/2021
L’azienda non è obbligata a licenziare il dipendente divenuto disabile.

La normativa (art. 4, D. Lgs. 68/1999) prevede, invece, che il disabile abbia diritto alla conservazione del posto se in azienda vi siano altre posizioni libere che da lui possono essere ricoperte sulla base del relativo inquadramento e specializzazione. Il datore di lavoro deve operare quindi il cosiddetto repechage, ossia deve prima verificare se è possibile inserire il lavoratore divenuto inabile in altre attività.

Solo qualora non ci fosse la possibilità di affidargli altre mansioni, allora può avvenire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La Corte di cassazione, con sentenza n. 18556 del 10 luglio 2019, ha riepilogato chiaramente l'orientamento attuale affermando che il licenziamento risulta legittimo in presenza delle seguenti condizioni:
a) che non vi siano altre posizioni nella organizzazione aziendale ove utilizzare il dipendente;
b) che, pur a fronte di una nuova organizzazione possibile con una modifica della organizzazione aziendale, quest’ultima risulti gravosa sotto l’aspetto finanziario;
c) che la nuova organizzazione sia di pregiudizio alle posizioni di altri lavoratori.
Anche ricorrendo tali presupposti, l’azienda è legittimata a licenziare, ma non è obbligata. Il datore di lavoro potrebbe, in linea teorica, non licenziare il lavoratore anche se impossibilitato a svolgere qualsiasi mansione.

Tuttavia, il datore di lavoro sarà tenuto (art. 2087 c.c. e Testo unico sulla sicurezza sul lavoro) anche a salvaguardare la salute e sicurezza del lavoratore divenuto disabile e degli altri dipendenti e non potrà adibire il dipendente a mansioni incompatibili con la sua disabilità.

Sarebbe, pertanto, opportuno porre in malattia il dipendente, in attesa del riconoscimento dell’invalidità.

Il dipendente, non essendo ancora ufficialmente stato dichiarato inabile al lavoro, ha gli stessi diritti di qualsiasi altro dipendente. Pertanto, avrà diritto all’indennità di malattia Inps fino a 180 gg.


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