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Violenza sessuale: il giudice non puņ ritenere, a priori, che la persona offesa abbia riferito il falso

Violenza sessuale: il giudice non puņ ritenere, a priori, che la persona offesa abbia riferito il falso
Le dichiarazioni rese dalla persona offesa di un reato sessuale, per poter essere legittimamente utilizzate come elemento di prova, non necessitano di altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, essendo sorrette da una presunzione di veridicità.
La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 35559 del 19 luglio 2017, ha fornito alcune interessanti precisazioni circa il valore delle dichiarazioni rese dalla vittima di un reato di natura sessuale.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva confermato la condanna di un imputato per il reato di “violenza sessuale” (art. 609 bis cod. pen.) e di “lesioni personali” (art. 582 cod. pen.), rideterminando, tuttavia, la pena inflittagli.

Nello specifico, l’imputato era stato accusato del suddetto reato per aver costretto l’allora convivente a subire rapporti sessuali e le aveva cagionato, altresì, delle lesioni personali giudicate guaribili in sette giorni.

Ritenendo la decisione ingiusta, l’imputato aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, evidenziando come la Corte d’appello non avesse adeguatamente motivato il proprio giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, sulle quali si era basata la sentenza di condanna.

Osservava il ricorrente, inoltre, come, dalla sentenza impugnata, non risultasse in modo chiaro “in quale momento, nella complessiva dinamica dei fatti, la donna avrebbe reso manifesto il suo dissenso” ai rapporti sessuali oggetto di contestazione e come il giudice avesse fondato la propria decisione sulla sola base delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, la quale non poteva considerarsi attendibile.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione all’imputato, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.

Rilevava la Cassazione che la Corte d’appello aveva del tutto correttamente ritenuto attendibile la persona offesa, dal momento che le sue dichiarazioni erano state confermate dalle testimonianze rese da alcune amiche e dall’assistente sociale cui la persona offesa si era rivolta prima di denunciare l’imputato.

Sul punto, la Cassazione precisava, peraltro, che, le dichiarazioni rese dalla persona offesa, per poter essere legittimamente utilizzate come elemento di prova, non necessitano “di altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità” ma, anzi, al pari di qualsiasi altra testimonianza, esse sono sorrette “da una presunzione di veridicità”, con la conseguenza che il giudice, pur dovendo verificarne l’attendibilità, non può porre alla base del proprio convincimento l’ipotesi che la persona offesa dica consapevolmente il falso (a meno che, ovviamente, non sussistano degli specifici elementi che inducano a ritenere ciò).

Ebbene, nel caso di specie, poiché non sussistevano elementi che inducessero a ritenere che la persona offesa avesse riferito il falso, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal ricorrente, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando l’imputato anche al pagamento delle spese processuali.


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