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Uccide un ciclista aprendo lo sportello dell'auto

Uccide un ciclista aprendo lo sportello dell'auto
Condannata per omicidio colposo la donna che ha causato la morte di un ciclista aprendo lo sportello dell'auto senza essersi prima assicurata di non provocare pericolo agli altri utenti della strada.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 33602 del 1 agosto 2016, si è occupata di un interessante caso in tema di circolazione stradale.

Nel caso esaminato dalla Corte, il Tribunale di Ferrara aveva condannato l’imputata per il reato di omicidio colposo, con violazione delle norme sulla circolazione stradale (art. 589 del c.p., secondo comma), in quanto “aprendo lo sportello anteriore sinistro della propria autovettura, senza previamente essersi assicurata di non provocare pericolo o intralcio per gli altri utenti della strada, urtava la bicicletta, condotta dall’A., che a cagione dell’impatto, perdeva l’equilibrio e finiva rovinosamente al suolo, ove veniva travolto dal ciclomotore condotto da C.C., in quell’attimo transitante, perdendo la vita a causa delle lesioni patite, dopo ricovero e cure ospedaliere”.

In sostanza, l’imputata aveva aperto lo sportello della propria auto, senza verificare se, nel frattempo, stava sopraggiungendo qualcuno, urtando, pertanto, un ciclista in transito e facendolo cadere a terra; questi veniva poi travolto da un ciclomotore in transito, perdendo la vita a causa dell’impatto.

La Corte d’Appello di Bologna, pronunciatasi in secondo grado, aveva confermato la sentenza di condanna; avverso tale sentenza, la donna proponeva ricorso in Cassazione.

Secondo l’imputata, il sinistro doveva ricondursi alla condotta imprudente e imprevedibile della vittima, dal momento che il ciclista “circolava irrazionalmente a ridosso delle autovetture parcheggiate, al di là della linea gialla, delimitante l’area di sosta per lo scarico/carico delle merci, così avendo reso inevitabile l’impatto, nonostante l’imputata avesse aperto parzialmente e con attenzione lo sportello”.

Secondo la ricorrente, dunque, il fatto era da addebitare alla persona offesa, la quale “violando l’art. 140 del Codice della strada, aveva costituito pericolo ed intralcio alla circolazione”.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter accogliere le argomentazioni svolte dalla ricorrente, rigettando il relativo ricorso.

Secondo la Corte, infatti, era stato accertato che la condotta dell’imputata aveva rappresentato la “causa penalisticamente sufficiente a determinare l’evento”.

In particolare, sia i testimoni sentiti in corso di causa, che le conclusioni del perito, avevano confermato che “la vittima, la quale transitava a bordo della propria bicicletta, tenendo la destra, siccome prevede la legge, era stata violentemente colpita dallo sportello dell’autovettura, improvvidamente spalancato con furia dall’imputata, senza prima accertarsi, attraverso gli specchi retrovisori, del sopraggiungere di veicoli o pedoni”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava la ricorrente al pagamento delle spese processuali.



LA SENTENZA

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 20 maggio – 1 agosto 2016, n. 33602
Presidente Bianchi – Relatore Grasso

Ritenuto in fatto
1. II Tribunale di Ferrara, con sentenza del 25/2/2010, giudicò M.S.M. responsabile del delitto di omicidio colposo, con violazione delle norme sulla circolazione stradale, ai danni di A.G.. La M., alla quale veniva addebitata colpa specifica (art. 157, cod. della str.) e generica, aprendo lo sportello anteriore sinistro della propria autovettura, senza previamente essersi assicurata di non provocare pericolo o intralcio per gli altri utenti della strada, urtava la bicicletta, condotta dall’A., che a cagione dell’impatto, perdeva l’equilibrio e finiva rovinosamente al suolo, ove veniva travolto dal ciclomotore condotto da C.C., in quell’attimo transitante, perdendo la vita a causa delle lesioni patite, dopo ricovero e cure ospedaliere.
2. La Corte d’appello di Bologna, con sentenza del 22/5/2015, confermò la statuizione di primo grado.
3. L’imputata propone ricorso per cassazione prospettando duplice censura.
3.1. Con il primo motivo, denunziante violazione di legge e vizio motivazionale in ordine alla ricostruzione del nesso di causalità, la ricorrente afferma che la responsabilità della medesima era stata
erroneamente fondata sulle dichiarazioni testimoniali e sulle conclusioni del perito. Doveva ritenersi, a parere della medesima, che la condotta imperita ed imprevedibile della vittima, in contrasto con il principio di affidamento, era stata la causa esclusiva dell’evento. Il ciclista, infatti, era da ritenere, circolava irrazionalmente a ridosso delle autovetture parcheggiate, al di là della linea gialla, delimitante l’area di sosta per lo scarico/carico delle merci, così avendo reso inevitabile l’impatto, nonostante l’imputata avesse aperto parzialmente e con attenzione lo sportello. Le conclusioni, poi, del perito non erano condivisibili, in quanto, pur vero che l’autovettura si trovava in posizione obliqua rispetto all’asse stradale, con il retrotreno avanzato, rispetto all’avantreno, di una ventina di centimetri, ma, in ogni caso, al di dentro dell’area delimitata dalla linea gialla. In definitiva, per la M., il fatto era da addebitare alla stessa p.o., la quale, violando l’art. 140, cod. della str., aveva costituito pericolo ed intralcio alla circolazione.
3.2. Con il secondo motivo la ricorrente allega mancanza e vizio della motivazione a riguardo del trattamento penale, in quanto la pena appariva non poco discosta dal minimo, senza l’ausilio di una reale motivazione, che non poteva essere costituita dal mero richiamo all’art. 133, cod. pen.
Considerato in diritto
4. II ricorso è immeritevole d’accoglimento, ponendosi, anzi, ai limiti della manifesta infondatezza.
Con il primo motivo la ricorrente assume che l’incidente era da ritenere dipendente in via esclusiva dalla condotta di guida della vittima.
Per disattendere la censura basterebbe affermare la congetturalità dell’asserto, del tutto privo di persuasivi richiami processuali che lo rendano minimamente plausibile.
Peraltro, il ricorso, limitandosi a riproporre, in larga parte, le doglianze espresse in sede d’appello, non si confronta puntualmente con le risposte fornite dal Giudice di secondo grado, con la conseguenza di apparire affetto da aspecificità.
Non è dubbio, invece, che la condotta dell’imputata costituì causa penalisticamente sufficiente a determinare l’evento. I testi escussi, in conformità, peraltro, con le conclusioni del perito, hanno consentito di appurare i termini della vicenda: la vittima, la quale transitava a bordo della propria bicicletta, tenendo la destra, siccome prevede la legge, era stata violentemente colpita dallo sportello dell’autovettura, improvvidamente spalancato con furia dall’imputata, senza prima accertarsi, attraverso gli specchi retrovisori, del sopraggiungere di veicoli o pedoni.
In definitiva, la M., piuttosto che chiedere una verifica di legittimità, pretende una revisione di terzo grado del merito, sulla base di allegazioni meramente congetturali, non prevista dalla legge.
Sull’argomento può richiamarsi, fra le tante, la seguente massima, tratta dalla sentenza n.15556 dei 12/2/2008 di questa Sezione, particolarmente chiara nel delineare i confini del giudizio di legittimità sulla motivazione: Il nuovo testo dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., come modificato dalla I. 20 febbraio 2006 n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli “atti del processo”, non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di cassazione di procedere a una rinnovata valutazione dei fatti ovvero a una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. Il “novum” normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto travisamento della prova, finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere a un’inammissibile rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no “veicolato”, senza travisamenti, all’interno della decisione. E’ stato utilmente chiarito (sentenza 6/11/2009, n. 43961 di questa Sezione) che il giudice di legittimità è tuttora giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto. Pertanto, ove si deduca il vizio di motivazione risultante dagli atti del processo non è sufficiente che detti atti siano semplicemente contrastanti con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua complessiva ricostruzione dei fatti e delle responsabilità, né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudice.
Occorre, invece, che gli atti dei processo, su cui fa leva il ricorrente per sostenere la sussistenza di un vizio della motivazione, siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione.
4.1.Neppure il secondo motivo merita miglior sorte.
Con esso, inammissibilmente, la ricorrente invoca un trattamento più mite, senza considerare che la Corte territoriale ha congruamente motivato sul punto, evidenziando che erano state riconosciute, con criterio di equivalenza, le attenuanti generiche e che la misura della pena doveva reputarsi rispettosa dei criteri di cui all’art. 133, cod. pen. Né vi sono ragioni per ritenere che la pena avrebbe dovuto attestarsi nel minimo assoluto.
5. All’epilogo consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


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