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Trattenersi nel domicilio altrui è reato

Famiglia - -
Trattenersi nel domicilio altrui è reato
Commette reato di "violazione di domicilio" l'ex marito che si trattiene nell'abitazione dell'ex moglie nonostante l'invito della stessa ad andarsene.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5315 del 4 febbraio 2015, si è pronunciata su un interessante caso di “violazione di domicilio”, di cui all’art. 614 codice penale.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, l’ex moglie dell’imputato aveva agito in giudizio onde ottenere la condanna dell’ex marito per il reato di cui sopra, poiché il medesimo, in due occasioni, si era recato presso l’abitazione dell’ex moglie, rifiutando di andarsene, nonostante i ripetuti inviti e l’intervento, altresì, dei Carabinieri.

La Corte d'Appello di Lecce, in riforma della sentenza resa dal Tribunale, aveva assolto l’imputato per il primo episodio, mentre aveva ridotto la pena per il secondo, accaduto in altra data, confermando la rilevanza penale della condotta posta in essere.

L’imputato proponeva, dunque, ricorso in Cassazione, affermando che la Corte d’Appello avrebbe fondato la propria decisione di condanna sulla base delle dichiarazioni rese dalla moglie separata, senza tener conto che dalla testimonianza della medesima era emerso che l’imputato era stato “invitato ad uscire dall'abitazione - in cui era entrato consensualmente per prelevare i figli - non per la sua arbitraria permanenza, ma per il "fastidio" che le aveva procurato il rifiuto dell'ex marito di versare denaro alla domestica [e] per il medesimo fastidio aveva rifiutato di consegnare i figli”.

Secondo l’imputato inoltre, le dichiarazioni rese dal Carabiniere (il quale aveva dichiarato che il marito “non ne voleva sapere” di andarsene), intervenuto sul luogo del fatto su richiesta della moglie, sarebbero state generiche e non avrebbero dato modo di comprendere “se l'imputato rifiutasse di allontanarsi o se tentasse di ottenere una giustificazione al rifiuto della donna di consegnare i figli, giustificazione che neanche con l'intervento dei carabinieri aveva ottenuto”.

Sosteneva l'imputato, dunque, che egli non intendeva affattotrattenersi nell'abitazione” ma semplicemente “attendere e sollecitare la consegna dei figli, ritenendolo suo diritto".

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal marito.

Secondo la Corte, infatti, la Corte d’Appello aveva coerentemente e puntualmente motivato la propria decisione, che risultava “saldamente ancorata agli inequivoci risultati dell'istruttoria dibattimentale”, incentrata sulle dichiarazioni della moglie, del Carabiniere intervenuto e dello stesso imputato.

Osservava la Cassazione, in proposito, che “la testimonianza della persona offesa, al pari di tutte le testimonianze, deve essere sottoposta al generale controllo sulle capacità percettive e mnemoniche del dichiarante, nonchè sulla corrispondenza al vero della sua rievocazione dei fatti, desunta dalla linearità logica della sua esposizione e dall'assenza di risultanze processuali incompatibili, caratterizzate da pari o prevalente spessore di credibilità”.

Tale controllo, secondo la Corte, era stato correttamente effettuato dalla Corte d’Appello, la quale “ha razionalmente e insindacabilmente ritenuto dimostrata la responsabilità dell'imputato”.

L’imputato, infatti, era “entrato nell'abitazione della ex moglie con il suo consenso, a seguito di un contrasto di opinioni insorto con la medesima” e si era “ivi trattenuto, sia pure per un breve arco di tempo, nonostante i ripetuti inviti ad allontanarsi”.

Precisava la Corte, inoltre, come “il successivo allontanamento, necessariamente determinato dall'intervento coercitivo della polizia giudiziaria”, non incideva sulla rilevanza penale della condotta dell’imputato.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato e confermava la sentenza di condanna resa dalla Corte d’Appello.


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