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Tardare al lavoro e mentire sulla causa del ritardo non giustifica il licenziamento

Lavoro - -
Tardare al lavoro e mentire sulla causa del ritardo non giustifica il licenziamento
Illegittimo il licenziamento del dipendente che giunge in ritardo al lavoro e mente sulla ragione del ritardo.
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 7419 del 14 aprile 2016, si è occupata di un’interessante caso di impugnativa del licenziamento.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, un lavoratore licenziato aveva agito in giudizio nei confronti della società datrice di lavoro, la quale gli aveva intimato il licenziamento a seguito di un ritardo, in quanto il dipendente avrebbe “preso servizio solo alle 11:30”.

Secondo la società datrice di lavoro, infatti, la giustificazione addotta dal dipendente (che aveva affermato di aver tardato in ragione dello straordinario svolto la sera precedente) sarebbe risultata non veritiera, “con il conseguente venir meno del necessario rapporto fiduciario”.

L’impugnazione proposta dal lavoratore veniva rigettata in primo grado e la sentenza veniva confermata anche dalla Corte d’appello, la quale rilevava che “la circostanza giustificativa addotta dal lavoratore non era emersa dall’istruttoria svolta e che era stato lo stesso lavoratore ad ammettere, in una missiva del 17.8.2009, altra causale del ritardo, dovuta a proprie condizioni di salute”.

Avverso la sentenza di secondo grado, il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, deducendo la violazione ed errata applicazione dell’art. 2697 codice civile, dell’art. 5 della legge 604 del 1966, dell’art. 2119 codice civile, degli artt. 115 e 116 codice procedura civile, dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) e degli artt. 1362 e seguenti codice civile.

Secondo il ricorrente, in particolare, la Corte d’appello non avrebbe tenuto in adeguata considerazioni le risultanze emerse nel corso dell’istruttoria, “adducendo, a sostegno della decisione, una motivazione che, oltre ad essere intrinsecamente contraddittoria, non trova nessun riscontro nelle prove testimoniali raccolte”.

Osservava il ricorrente, inoltre, come il giudice di secondo grado avesse “omesso qualsiasi apprezzamento del grado della colpa o anche dell’elemento intenzionale, così come anche una valutazione dell’effettiva gravità e portata della medesima condotta”.

Evidenziava il lavoratore, peraltro, come apparisse oggettivamente inspiegabile che un mero ritardo al lavoro e la non veridicità della sua giustificazione potesse essere stato posto a fondamento di un licenziamento per giusta causa, soprattutto “in punto di pretesa lesione del vincolo fiduciario”.

La Corte di Cassazione riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, accogliendo il relativo ricorso.

Secondo la Cassazione, infatti, il giudice di secondo grado non avrebbe compiutamente analizzato la gravità del fatto contestato, così come non avrebbe adeguatamente valutato la sua “idoneità a ledere il vincolo fiduciario (anche in relazione alla successiva condotta sostanziatosi nella menzogna)”.

Rilevava la Corte, in proposito, che “l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare le clausole generali come quella di cui all’art. 2119 o all’art. 2106 cod. civ., che dettano tipiche ‘norme elastiche’, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca”.

In altri termini, secondo la Cassazione, la sentenza di secondo grado andava annullata, in quanto la Corte d’appello aveva confermato la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore senza valutare se, effettivamente, la condotta contestata fosse di gravità tale da poter giustificare tale sanzione, anche con riferimento alla presunta violazione del rapporto fiduciario che deve necessariamente sussistere tra datore di lavoro e lavoratore.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione annullava la sentenza di secondo grado, rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima colmasse “le lacune riguardo alla valutazione in ordine alla sussistenza della giusta causa sulla scorta dei fatti accertati”.


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