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Stalking e libertà vigilata

Famiglia - -
Stalking e libertà vigilata
Alcune precisazioni della Corte di Cassazione circa il reato di stalking nei confronti della moglie e i presupposti dell'applicazione della libertà vigilata.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20703 del 18 maggio 2016, è tornata sulla delicata questione relativa alla configurabilità del reato di “atti persecutori” (o “stalking”), di cui all’art. 612 bis del c.p., nell’ambito dei rapporti famigliari.

Nel caso sottoposto alla Corte, l'imputato veniva condannato in primo grado per il reato di stalking nei confrornti della moglie; la condanna per il reato ascrittogli veniva poi confermata in secondo grado dalla Corte d’Appello, la quale confermava anche la correttezza dell'applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata, di cui all’art. 228 del c.p..

Ritenendo la condanna ingiusta, il marito proponeva ricorso in Cassazione per ottenerne l’annullamento.

In particolare, secondo il ricorrente non sussisteva l’elemento psicologico del reato di atti persecutori, dal momento che egli “avrebbe avuto solo intenzione di convincere la moglie a non chiedere la separazione ed in seguito a riconquistarla, né l'aveva mai ingiuriata o usato violenza verso di lei”.
Riteneva, pertanto, che il reato non potesse dirsi configurato, perché egli non avrebbe mai offeso o maltrattato la moglie, tenendo i comportamenti molesti che gli erano stati addebitati (pedinamenti e minacce di morte).

Inoltre, secondo il ricorrente, anche l’applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata non appariva corretta e proporzionata, in quanto non vi era pericolo che tali episodi si potessero ripetere, dal momento che “l'imputato aveva cessato da ogni condotta molesta ed aveva accettato una separazione consensuale”, con la conseguenza che doveva ritenersi che, di fatto, avesse accettato la fine del matrimonio.

La Corte di Cassazione ritenne di dover aderire solo in parte alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rilevando come la decisione della Corte d’Appello fosse del tutto corretta con riferimento alla condanna per il reato di “stalking”, di cui all’art. 612 bis del c.p., in quanto “la motivazione ha puntualmente dato atto delle condotte emergenti dagli atti - consistite in pedinamenti sotto casa e fino al luogo di lavoro, minacce anche di morte, successive ad un antico rapporto contraddistinto anche da fasi di grave violenza personale - dalle quali ha tratto, con motivazione logica ed incensurabile in questa fase, l'esistenza del dolo del delitto in capo all'imputato, consapevole non solo delle minacce portate alla persona offesa ma anche, per la loro reiterazione e gravità, della loro idoneità a provocare gli eventi alternativamente previsti dall'art. 612 bis del c.p. per l'integrazione del delitto”.

Secondo la Cassazione, dunque, la Corte d’Appello aveva adeguatamente motivato la sua decisione di condannare l’imputato, in quanto dalle condotte moleste che erano state poste in essere, emergeva che l’imputato fosse ben consapevole di quello che stava facendo e che tali comportamenti avrebbero avuto l’effetto di ingenerare nella moglie uno stato d’ansia e di paura, come richiesto ai fini della condanna per stalking.

La Corte di Cassazione non risultava d’accordo, tuttavia, con la Corte d’Appello relativamente alla applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata; riteneva, infatti, che il giudice di secondo grado non avesse ben motivato le ragioni poste a fondamento di tale decisione.

Osservava, infatti, la Cassazione che “il giudice che ritenga di applicare una misura di sicurezza personale ha l'obbligo di motivare in ordine alla accertata attuale pericolosità sociale dell'imputato, mentre non è richiesta alcuna esplicita motivazione nel caso in cui detta pericolosità sia ritenuta insussistente”.

Nel caso di specie, invece, la sentenza di secondo grado avrebbe del tutto omesso “la motivazione sul capo della misura di sicurezza, riguardo al quale doveva provvedere”, limitandosi la stessa a fare un semplice accenno alla gravità dei fatti e ai precedenti penali dell’imputato ma “senza prendere in esame le deduzioni ed allegazioni difensive, riguardanti il mutamento di atteggiamento dell'imputato nei confronti della moglie, desumibile dall'accettazione della separazione consensuale, né il prospettato superamento del quadro clinico legato alla mancata accettazione della fine del rapporto matrimoniale”.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte di Cassazione riteneva di dover confermare la sentenza di secondo grado, nella parte in cui condannava l’imputato per il reato di stalking, accogliendo, invece, il ricorso, per quanto riguardava l’impugnazione relativa alla misura di sicurezza, rinviando al Tribunale del riesame la decisione sulla liberta vigilata.


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