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Si rifiuta di lavorare al banco del pesce

Lavoro - -
Si rifiuta di lavorare al banco del pesce
E' da considerarsi illegittimo il licenziamento della dipendente che si rifiuta di lavorare al banco del pesce ed è obbligo del datore di lavoro trovare una mansione alternativa.
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 4502 dell’8 marzo 2016, ha affrontato un altro interessante caso di licenziamento intimato per una presunta “giusta causa”.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale aveva rigettato il ricorso proposto da una dipendente contro il licenziamento intimatole dalla Cooperativa presso la quale era impiegata “in conseguenza del reiterato rifiuto della lavoratrice di eseguire le disposizioni aziendali impartite (svolgere i turni di servizio al banco del pesce)”.

Il Tribunale aveva ritenuto sussistenti i fatti contestati dalla Cooperativa ed ingiustificato il rifiuto opposto dalla lavoratrice.

La sentenza di primo grado, tuttavia, veniva riformata dalla Corte d’appello, la quale “accoglieva il gravame, e per l'effetto dichiarava l'illegittimità del licenziamento, con ordine di reintegra nel posto di lavoro e con condanna della società cooperativa al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni non percepite dal momento del recesso sino all'effettiva reintegra, con gli accessori di legge”.

La Cooperativa proponeva, dunque, ricorso in Cassazione, evidenziando che il Tribunale aveva precisato che, ai sensi dell'art 41 d.lgs. n. 81\2008, “sarebbe stato onere della lavoratrice dimostrare la propria inidoneità fisica allo svolgimento di attività a contatto con pesce fresco, producendo documentazione medica e chiedendo se del caso di essere sottoposta ad una visita medica da parte di un medico competente”.

La ricorrente, invece, denunciava “la violazione e falsa applicazione degli artt. 1460 e 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c.”, lamentando che “la sentenza impugnata ritenne certa la conoscenza dell'azienda in ordine ai (dedotti) problemi di salute o di incompatibilità della lavoratrice nel contatto col pesce”, nonostante non avesse mai prodotto “alcun certificato medico attestante tale incompatibilità, sicché l'azienda provvide legittimamente allo spostamento presso il reparto pesce (nel rispetto della qualifica posseduta), ed altrettanto legittimamente a sanzionare il relativo rifiuto della B., che non poteva certamente sussumersi nella fattispecie di cui all'art 1460 c.c., essendo comunque illegittimo il rifiuto dei lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa laddove il datore di lavoro adempia a tutti gli obblighi nascenti dal contratto (pagamento della retribuzione e rispetto dell'inquadramento)”.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla ricorrente, rigettando il relativo ricorso.

Secondo la Cassazione, infatti, non poteva ritenersi esistente un obbligo in capo alla ricorrente di documentare con certificato medicola sua personale impossibilità (o estrema difficoltà) di svolgere il lavoro presso il reparto pesce, ex art 41 (che semmai avrebbe imposto alla Cooperativa di far valutare l'idoneità delle nuove mansioni affidate alla lavoratrice)”.

Osservava la Corte, in proposito, che “gli obblighi di sicurezza (art. 2087 del c.c.) e di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto (art. 1375 del c.c.), (…) avrebbero imposto alla datrice di lavoro, una volta informata della incompatibilità o seria difficoltà da parte della lavoratrice a svolgere il lavoro presso il reparto dei pesce (…), di adottare le misure alternative e possibili (in assenza di difformi deduzioni da parte della Cooperativa) al licenziamento”.

Secondo la Cassazione, in particolare, la Cooperativa non aveva dimostrato, “in conformità dell'obbligo di correttezza nell'esecuzione dei contratto, di non poter adibire la lavoratrice ad altre mansioni se non a quelle del banco del pesce”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla Cooperativa, condannando la medesima al pagamento delle spese processuali.


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