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Pizzeria nel condominio: si può?

Pizzeria nel condominio: si può?
Il condomino può aprire una pizzeria se il regolamento condominiale non lo vieta espressamente.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21307 del 20 ottobre 2016, si è occupata di un altro interessante caso in materia di condominio.

Nel caso esaminato dalla Corte, un condomino aveva agito in giudizio nei confronti di altri due condomini, contestando loro di aver violato le norme del regolamento condominiale, nonché una delibera assembleare, adibendo il loro immobile (destinato ad uso abitativo) a pizzeriamediante la creazione di una scala di collegamento interna con il sottostante terraneo, adibito a sua volta a pizzeria – ristorante, creando in tal modo intollerabili immissioni di rumori”.

La Corte d’appello, confermando la sentenza di primo grado, condannava i convenuti “al ripristino della destinazione abitativa per l’immobile di loro proprietà”, rilevando “la pacifica vincolatività del regolamento condominiale, in quanto trascritto anche nei registri immobiliari e richiamato anche nel titolo di provenienza dei convenuti”.

Di conseguenza, poiché il regolamento prevedeva espressamente le destinazioni d’uso consentite, ammettendo che solo “cantinati e terranei” potessero essere adibiti ad attività commerciale, doveva ritenersi esistente il divieto di adibire gli altri locali condominiali all’esercizio di attività commerciale.

I condomini, ritenendo la sentenza ingiusta, proponevano ricorso in Cassazione, evidenziando l’erronea interpretazione delle norme del regolamento condominiale ed evidenziando come mancasse “una previsione specificamente rivolta a disciplinare l’uso delle unità immobiliari collocate dal primo piano in su”.

Secondo i ricorrenti, dunque, l’interpretazione offerta dalla Corte d’appello violava l’art. 1363 del c.c., “nella parte in cui ha omesso di valutare il complesso delle previsioni contrattuali”, nonché l’art. 1367 del c.c., in quanto “gli immobili dal primo piano a salire non avrebbero alcuna destinazione”; inoltre, appariva violato anche l'art. 1369 del c.c., dovendosi “privilegiare l’interpretazione più coerente con la natura del contratto, essendo viceversa priva di coerenza la soluzione per la quale verrebbe ad essere impedito l’utilizzo di gran parte delle unità immobiliari presenti nell’edificio”.

Di conseguenza, rilevavano gli attori come il fatto che il regolamento condominiale prevedesse che le “cantine” e i “terranei” potessero essere destinati ad attività commerciale non potesse automaticamente indurre a ritenere la sussistenza di un divieto per gli altri locali dell’edificio, in quanto non espressamente previsto.

Ebbene, la Corte di Cassazione riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dai ricorrenti, evidenziando come l’interpretazione della clausola regolamentare offerta dalla Corte d’appello non potesse essere condivisa, poichè i divieti e i limiti al diritto di proprietà dei singoli condomini, contenuti nel regolamento condominiale, “devono risultare da espressioni chiare” e “incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze”.

Di conseguenza, secondo la Cassazione, non si poteva procedere ad un’interpretazione estensiva delle norme del regolamento condominiale, né “per quanto attiene all’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale”, né “per quanto concerne la corretta individuazione dei beni effettivamente assoggettati alla limitazione circa le facoltà di destinazione di norma spettanti al proprietario”.

Nel caso di specie, invece, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva proprio proceduto a tale illegittima interpretazione estensiva delle norme poste dal regolamento di condominio, dal momento che la disposizione citata dalla Corte si riferiva espressamente solo alle cantine e ai terranei, senza nulla dire in merito agli appartamenti posti ai piani superiori.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso presentato dai ricorrenti, annullando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima decidesse nuovamente sulla questione, tenendo conto dei principi espressi dalla Cassazione medesima.


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