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Perseguitare l'ex compagna costituisce reato

Perseguitare l'ex compagna costituisce reato
Costituisce reato assillare l'ex compagna con ripetute telefonate, telegrammi, raccomandate e denunce a contenuto denigratorio delle capacità genitoriali.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 50057 del 24 novembre 2016, è tornata ad occuparsi nuovamente di un caso di stalking (art. 612 bis del c.p.).

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Messina, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato l'imputato per aver “con condotte reiterate”, minacciato e molestato la ex compagna, “in modo da determinare nella stessa un perdurante e grave stato di ansia, ingenerando nella vittima fondato timore per l’incolumità propria e dei propri familiari, in particolare della figlia minore, che riportava, a causa delle sue condotte persecutorie (…), turbe nella sfera emotiva-affettiva secondaria e grave patologia dell’accudimento”.

Nello specifico, l’imputato aveva pedinato e assillato l'ex compagna con telefonate, telegrammi, raccomandate e denunce all’autorità giudiziaria, mettendo in discussione il ruolo genitoriale della stessa, con riferimento ad ogni attività che riguardava la figlia, ostacolandone il normale sviluppo psico-fisico.

Avverso la sentenza di condanna, veniva proposto ricorso per Cassazione, il quale, tuttavia, veniva rigettato.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, appariva di tutta evidenza che la condotta persecutoria dell’imputato avesse determinato nella vittima “un perdurante e grave stato di ansia, oltre che un fondato timore per l’incolumità propria e dei suoi familiari”, determinando le patologie descritte in capo alla figlia minore, “il cui sviluppo psico-fisico risultava, in tal modo, ostacolato”.

Sussisteva, nel caso di specie, secondo la Corte, anche l’elemento soggettivo del reato, rappresentato dalla consapevolezza dell’idoneità della condotta posta in essere a produrre uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice (ovvero, perdurante e grave stato di ansia o di paura, tale da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto).

Era, infatti, stato evidenziato “il macroscopico carattere persecutorio delle condotte accertate e delle reazioni immediatamente percepibili provenienti sia dalla madre che dalla minore” e sottolineato “come non solo la bambina si opponesse con pianti alle visite ed ispezioni anali cui il padre la sottoponeva direttamente o attraverso visite mediche, il che era addirittura sfociato in una crisi della minore con ricovero della stessa”.

Di conseguenza, secondo la Corte, i reiterati comportamenti del padre dimostravano inequivocabilmente la consapevolezza del medesimo della loro idoneità a produrre il “perdurante stato d’ansia o di paura” di cui parla l’art. 612 bis del c.p., con la conseguenza che, del tutto correttamente, la Corte d’appello aveva ritenuto integrati tutti gli estremi del reato di stalking.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso, confermando la sentenza di condanna di secondo grado e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


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