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Ostacola il diritto di transito sulla servitù

Ostacola il diritto di transito sulla servitù
Il proprietario del terreno su cui grava una servitù di passaggio commette reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” se impedisce al titolare di tale diritto di esercitarlo.
La Corte d’appello di Lecce, con la sentenza nn. 875 del 22 aprile 2016, ha fornito alcune interessanti precisazioni in tema di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”, con violenza sulle cose o sulle persone (artt. 392 e 393 codice penale)

Nel caso esaminato dalla Corte, un soggetto era stato imputato del delitto di cui agli artt. 81 - 392 - 393 codice penale, “per avere, con continuazione, al fine di esercitare il preteso diritto all’uso esclusivo di uno stradone carrozzabile di sua proprietà, ma gravato da servitù di passaggio in favore del fondo di proprietà del vicino, potendo ricorrere al giudice, posto in essere condotte idonee a farsi arbitrariamente ragione da sé medesimo, mediante violenza sulle cose e minaccia al vicino., in particolare impedendogli l’accesso, ma anche l’uscita dallo stradone, con conci di tufo, dapprima di piccole dimensioni e poi di notevoli dimensioni, posizionati per terra, dicendogli aggressivamente: “tu non devi più passare sul mio fondo, hai capito!” e ribadendo in altre occasioni urlando il predetto concetto, anche dopo avergli impedito di uscire con la (…) affermando: “così impari a parcheggiare dentro casa mia! Ora te li togli da solo se vuoi uscire!”, costringendolo a chiamare i suoi figli An. e Fa. ed il genero Ad.Ma. per poterlo fare”.

Il giudice di primo grado, riteneva di dover condannare l’imputato per il reato di cui all’art. 392 codice penale e di doverlo, invece, assolvere per quello di cui all’art. 393 codice penale, perché “il fatto non sussiste”.

Avverso tale pronuncia, l’imputato proponeva appello, rilevando come il Tribunale non avesse minimamente considerato che lo stesso fosse “il legittimo proprietario e possessore dello stradone sul quale sono stati posizionati i conci di tufo, avendolo acquistato a seguito di asta pubblica. Ciò conferiva piena legittimità al suo operato, privo del carattere di arbitrarietà necessario a integrare la fattispecie delittuosa”.

Secondo l’imputato, inoltre, la condotta posta in essere non sarebbe stata caratterizzata da violenza, che “sussiste solo in caso di danneggiamento,trasformazione o mutamento”.

La Corte d’appello, pronunciandosi sul punto, riteneva che la ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale fosse “in linea con i risultati delle indagini preliminari”.

La Corte osservava come “con l’apposizione dei conci di tufo sull’area stradale lo Sp. ha inteso farsi ragione da sé, di fatto impedendo l’esercizio di una servitù di passaggio”, quando il medesimo ben avrebbe potuto rivolgersi al giudice civile, mediante un’azione negatoria della servitù, di cui all’art. 949 codice civile.

Secondo la Corte, infatti, nel caso di specie, “l’autosoddisfazione” era stata realizzata “facendo ricorso arbitrariamente alla violenza materiale, che si ha non solo quando la cosa viene danneggiata o trasformata, ma anche quando ne è mutata la destinazione o l’utilizzazione, indipendentemente dalla sua fisica alterazione e dal verificarsi di danni materiali”, come, peraltro, affermato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6187 del 17 dicembre 2008.

Ebbene, la Corte d’appello evidenziava che “l’apposizione di pesanti conci di tufo (che il vicino è riuscito a rimuovere solo con l’aiuto di altre persone) all’evidenza impedisce di godere, in maniera concreta e permanente (se non con la rimozione dell’ostacolo ad opera della controparte), di quello stradone conformemente alla destinazione di esso propria”.

Evidenziava il giudice di secondo grado, inoltre, come sussistesse “l’elemento psicologico del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, rappresentato dall’intento di esercitare un preteso diritto nel ragionevole convincimento della sua legittimità”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte d’appello confermava la sentenza di condanna di primo grado, condannando l’appellante al pagamento delle spese processuali.


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