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Licenziamento del lavoratore disabile per "scarso rendimento": si può fare?

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Licenziamento del lavoratore disabile per "scarso rendimento": si può fare?
La Cassazione ha confermato la condanna di una società a reintegrare una lavoratrice disabile nel proprio posto di lavoro, in quanto la stessa era stata adibita a mansioni non compatibili con le proprie ridotte capacità lavorative ed era, successivamente, stata licenziata per "scarso rendimento".
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17526 del 14 luglio 2017, si è occupata di un interessante caso di licenziamento di un lavoratore disabile per “scarso rendimento”.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Potenza, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato una società a reintegrare nel posto di lavoro una lavoratrice disabile che era stata licenziata per “scarso rendimento”, nonché a risarcirle i danni subiti, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, in misura pari alle retribuzioni spettanti dalla data dell’illegittimo licenziamento fino all’effettiva reintegra.

Ritenendo la decisione ingiusta, la società datrice di lavoro aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.

Secondo la ricorrente, in particolare, la Corte d’appello aveva errato nel dichiarare l’illegittimità del licenziamento, in quanto era stato compiutamente dimostrato che la lavoratrice in questione produceva appena il 10% dei pezzi prodotti dai suoi colleghi (anche disabili), adibiti alle stesse mansioni.

Secondo la ricorrente, inoltre, era errata anche la misura del licenziamento, in quanto il giudice non avrebbe tenuto in considerazione “l’assenza di colpa della società”, che aveva assegnato delle determinate mansioni alla lavoratrice, tenendo conto delle sue ridotte capacità lavorative, accertate dall’ASL locale.

Dunque, a detta della società, il giudice avrebbe dovuto ridimensionare l’ammontare del licenziamento, se non escluderlo del tutto.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di dover dar ragione alla società datrice di lavoro, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.

Evidenziava la Cassazione, in particolare, che era stata verificata la colpa della società ricorrente, che era consistita nell’aver adibito la lavoratrice a “mansioni incompatibili con le sue ridotte capacità lavorative”.

Tale circostanza, infatti, risultava da una certificazione dell’Ambulatorio di Medicina del Lavoro dell’Ospedale e dal responso del Collegio Medico dell’Asl, che era stato richiesto dalla stessa datrice di lavoro, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 300 del 1970.

Inoltre, secondo la Cassazione, era stato, altresì, accertato che il confronto con il rendimento degli altri lavoratori addetti alle stesse mansioni era stato “falsato dall’essere stato eseguito rispetto a lavoratori tutti normodotati operanti nel medesimo reparto, il che ha fatto ulteriormente risaltare il minor rendimento di chi, come l’odierna intimata, già non era in condizioni di svolgere le mansioni che la società ricorrente le aveva illegittimamente assegnato noncurante delle sue ridotte capacità lavorative”.

Ciò considerato, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, confermando integralmente la sentenza resa dalla Corte d’appello.


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