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Non č discriminatorio il licenziamento del dipendente omosessuale che esercita attivitā di prostituzione

Lavoro - -
Non č discriminatorio il licenziamento del dipendente omosessuale che esercita attivitā di prostituzione
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12898 del 22 giugno 2016, ha affrontato il delicato tema dei licenziamenti discriminatori, connessi all’orientamento sessuale del lavoratore dipendente, disciplinati, i quali comportano violazione degli artt. 3 e 4 della legge n. 604 del 1966 e dall’art. 15 dello Statuto dei lavoratori.

Nel caso esaminato dalla Corte, un dipendente pubblico aveva agito in giudizio al fine di veder dichiarata la nullità del proprio licenziamento, ritenuto discriminatorio, in quanto fondato sull’orientamento sessuale.

La Corte d’Appello, tuttavia, confermava la sentenza di primo grado del Tribunale, che aveva rigettato la domanda del lavoratore, ritenendola infondata.

Il dipendente, pertanto, decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, in quanto, a suo dire, la Corte d’Appello avrebbe errato nel ritenere che il licenziamento non fosse stato intimato in ragione dell’orientamento sessuale, “bensì in ragione della pubblica e riconoscibile attività di prostituzione da egli esercitata su alcuni siti internet”.

Secondo la Corte d’Appello, infatti, il licenziamento per tale motivo era pienamente legittimo, dal momento che il dipendente aveva posto in essere un’attività “chiaramente lesiva del prestigio e dell’immagine (…) della Pubblica Amministrazione, anche a motivo della visibilità del lavoratore, atteso il ruolo esterno rivestito come istruttore informatico”.

Secondo il ricorrente, invece, il licenziamento sarebbe stato discriminatorio e illegittimo, in quanto “i comportamenti posti a base del licenziamento si sarebbero svolti tutti nell’ambito della vita privata ed al di fuori dell’ambito lavorativo”.

Peraltro, osservava il ricorrente, come la sua attività non fosse stata resa nota su “siti di pubblico accesso”, bensì in una community di un social network rivolto prevalentemente a persone omosessuali o bisessuali.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal lavoratore licenziato, rigettando il relativo ricorso.

La Corte, infatti, osserva come il provvedimento di licenziamento sia stato “assunto esclusivamente in relazione all’attività di prostituzione pubblicamente esercitata” dal lavoratore su alcuni siti internet, nei quali “egli offriva le proprie prestazioni sessuali a pagamento”.

Pertanto, secondo la Cassazione, il giudice di secondo grado aveva correttamente ritenuto tale attività “lesiva dell’immagine dell’Ente”, in quanto la medesima screditava tutta la Pubblica Amministrazione.

Anche secondo la Cassazione, dunque, si era trattato di un “licenziamento per giusta causa”, il quale “punisce comportamenti tenuti dal dipendente al di fuori dell’attività di lavoro ma ritenuti tali da influire sugli obblighi discendenti dal rapporto”.

Tale licenziamento, quindi, non aveva “alcuna connotazione discriminatoria, né diretta né indiretta; tanto meno con riferimento all’orientamento sessuale”.

Infatti, nella contestazione disciplinare, si leggeva che il ricorrente era stato licenziato “per avere esercitato attività prostituiva (sia essa omo o etero sessuale) e non per il suo orientamento sessuale”.

La Corte rilevava, perciò, come non fosse possibile “ancorare il licenziamento ad alcun riferimento, neppure remoto, di natura discriminatoria”, dal momento che il medesimo “ha sanzionato, non l’orientamento sessuale del dipendente (…) ma esclusivamente l’attività prostituiva esercitata”, con conseguente danno per la Pubblica Amministrazione.

Secondo la Cassazione, peraltro, anche a voler affermare che “il fatto attenesse solo alla vita privata del dipendente, per le modalità di accesso non automatico (o tutt’altro che facile) a tali siti”, in ogni caso, “non si potrebbe comunque sostenere (…) che da ciò derivi la prova di una identificabile ragione di discriminatorietà del licenziamento”.

In quest’ultima ipotesi, infatti, al massimo si tratterebbe di una valutazione “che comporta illegittimità e mancanza della ragione giustificativa addotta, ma che non conduce alla violazione di alcun divieto discriminatorio”.

Alla luce di quanto sopra, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal dipendente pubblico licenziato, confermando la sentenza di secondo grado, che aveva accertato la natura non discriminatoria del licenziamento in questione e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.



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