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Non basta una generica "difficoltà economica" a giustificare il mancato pagamento del mantenimento

Famiglia - -
Non basta una generica "difficoltà economica" a giustificare il mancato pagamento del mantenimento
Ecco una nuova pronuncia della Cassazione sul tanto discusso tema dell’assegno di mantenimento in favore dei figli.

Come noto, in sede di separazione o divorzio, il giudice può porre a carico di uno dei due coniugi il pagamento di un assegno mensile in favore dell’altro, a titolo di contributo nel mantenimento del coniuge stesso e dei figli minorenni (o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti).

I provvedimenti assunti al momento della separazione o del divorzio, però, non sono del tutto immodificabili, in quanto, se cambia la situazione economico-reddituale dei coniugi, nonché la loro situazione personale (se, per esempio, uno di loro si crea una nuova famiglia), è possibile chiedere, con un apposito procedimento, la “modifica delle condizioni di separazione o divorzio”, chiedendo, a seconda dei casi, che l’assegno venga revocato o che l’importo venga ridotto.

Tuttavia, non è cosi facile ottenere la revoca dell’assegno di mantenimento per presunte “difficoltà economiche” del genitore e occorre anche fare attenzione, in quanto, in caso di mancato pagamento dell’assegno, si potrebbe venire denunciati per “violazione degli obblighi di assistenza familiare”, ai sensi dell’art. 570 codice penale.

Va, infatti, osservato, come una semplice “difficoltà economica” non giustifica il mancato pagamento del mantenimento, con la conseguenza che il reato sarebbe sempre configurabile.

Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12308 del 14 marzo 2014, un padre separato aveva proposto ricorso per Cassazione dopo essere stato condannato dalla Corte d’Appello per il reato sopra citato.

In particolare, il ricorrente sostiene, a giustificazione della propria condotta, di non aver adempiuto ai propri obblighi, in quanto non era stato in grado di farlo, a causa dell’intervenuto licenziamento dal luogo di lavoro, “reso, si, su sua iniziativa ma perché non riceveva da tempo lo stipendio essendo il datore di lavoro da tempo in condizioni economiche assolutamente precarie”.

La Cassazione, tuttavia, non ritiene le argomentazioni svolte dal padre convincenti, dal momento che la condanna era stata, giustamente, comminata in considerazione del fatto che “non è stata adeguatamente comprovata l’impossibilità di adempiere in presenza di un licenziamento che è stato peraltro determinato dalla scelta volontaria del ricorrente, nonché guardando alla assoluta modestia degli importi da versare ed alla mancata dimostrazione di essersi attivato per cercare una nuova occupazione tale da consentirgli di adempiere”.

Secondo la Corte, infatti, allo scopo di escludere la responsabilità del genitore che non provveda al mantenimento, non è sufficiente “una semplice difficoltà e neppure la documentata acquisizione dello stato di disoccupazione, potendo l’interessato provvedere ugualmente aliunde in forza di altre disponibilità finanziarie e patrimoniali, la cui insussistenza radicale va comprovata a cura ed onere della parti obbligata (cfr , tra le tante, recentemente Sez. 6, Sentenza n. 7372 del 29/01/2013 Ud. Rv. 254515). Ciò a maggior ragione quando, come nella specie, il peso posto a carico del M. era di assoluta modestia si da risultare in linea di principio compatibile anche con la assenza di, una siffatta fonte reddituale e da imporre nel ricorrente uno stato di indigenza assoluta utile a giustificare la violazione dell’obbligo di sostentamento riscontrato”.

Tra l’altro, nel caso di specie, secondo la Corte, il licenziamento non era dipeso dal fatto che il soggetto avanza delle retribuzioni, in quanto “le ragioni della disoccupazione erano determinate da una scelta volontaria del ricorrente, risultando privo di alcun specifico conforto sia il dato di fatto in forza al quale la detta scelta venne motivata dalla insolvenza del datore di lavoro sia quello dell’impegno mostrato nella ricerca di una nuova attività lavorativa”.

Di conseguenza, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso promosso dal padre e conferma la condanna per il reato di “violazione degli obblighi di assistenza familiare”.


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