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Anche lo scherzo telefonico può costituire reato

Anche lo scherzo telefonico può costituire reato
Commette il reato di molestie di cui all’art. 660 codice penale chi effettua numerose telefonate mute al cellulare di un amico.
Con la sentenza n. 13363/2019 la Prima Sezione Penale della Cassazione ha respinto il ricorso di un uomo, condannato in primo grado alla pena della sola ammenda, perché ritenuto responsabile del reato di molestia o disturbo alle persone, previsto dall'art. 660 del c.p.
In particolare, l’imputato aveva effettuato numerosissime telefonate, sia di giorno che di notte, molte delle quali sull’utenza cellulare di un’amica, e che risultavano "mute" e anonime.
Preliminarmente, la Corte ha sottolineato che l’uomo (come rilevato dalla sentenza impugnata) aveva già riportato condanne penali per fatti analoghi e, nel caso in esame, era stato identificato grazie all'acquisizione dei tabulati della persona offesa la quale, “impaurita”, aveva denunciato in modo preciso gli orari in cui aveva ricevuto le telefonate moleste. Infatti gli squilli reiterati e le telefonate, pur essendo mute, avevano creato turbamento emotivo nella vittima, come emerso dalla testimonianza resa da quest’ultima.
Ciò premesso, la Corte ha confutato le argomentazioni del ricorrente, secondo il quale non si sarebbero verificati alcuna interferenza nella libertà della persona offesa, né alcun mutamento delle sue condizioni di vita per effetto della ricezione delle telefonate.
Nel dichiarare infondati i motivi di ricorso, la Cassazione ha rammentato che “il reato di molestie o di disturbo alla persona mira a prevenire il turbamento della pubblica tranquillità attuato mediante l'offesa alla quiete privata. Pertanto, rispetto alla contravvenzione in discorso, viene in considerazione l'ordine pubblico, pur trattandosi di offesa alla quiete privata; onde l'interesse privato individuale riceve una protezione soltanto riflessa, cosicché la tutela penale viene accordata anche senza e pur contro la volontà delle persone molestate”.
Quanto all’elemento oggettivo del reato in questione, esso consiste, ricorda la Corte, “in qualsiasi condotta oggettivamente idonea a molestare e disturbare terze persone, interferendo nell'altrui vita privata e nell'altrui vita di relazione”.
Pertanto, ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 660 c.p., risulta del tutto irrilevante se l’autore del fatto persegua un intento scherzoso oppure persecutorio, “una volta che si sia accertato che, comunque, a prescindere dalle motivazioni che sono alla base del comportamento, esso è connotato dalla caratteristica della petulanza, ossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone”.
Nel caso in esame, il Tribunale aveva evidenziato il persistente turbamento della stessa persona offesa, dovuto alle modalità della condotta posta in essere, consistita in telefonate mute e anonime, effettuate anche in orario notturno: ciò indipendentemente dalle affermazioni della stessa persona offesa, che si era tranquillizzata dopo aver scoperto (comunque solo grazie alle indagini di polizia giudiziaria svolte) l'identità del molestatore.
Secondo la Cassazione, dunque, anche i semplici squilli, se idonei a cagionare un turbamento o una molestia, integrano il reato contestato: di tale principio il giudice di merito aveva fatto corretta applicazione.
Da ultimo, la sentenza in commento ha rigettato pure l’ulteriore doglianza del ricorrente, il quale lamentava il mancato riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131 bis del c.p., poiché - secondo l’imputato - si sarebbe trattato di un mero scherzo tra amici.
Sul punto, la Corte ha ritenuto pienamente condivisibile la motivazione del Tribunale, il quale aveva evidenziato il numero delle telefonate e degli squilli accertati sulla base dei tabulati, lo stato di sofferenza della vittima, manifestato anche durante la deposizione in aula. e soprattutto che il condannato non era nuovo a simili fatti. Viceversa, la particolare tenuità di cui all'art. 131 bis c.p. può essere ravvisata solo quando il comportamento non è abituale e non è stato posto in essere con condotte plurime e reiterate.


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