Cassazione civile Sez. III sentenza n. 4852 del 19 maggio 1999

(2 massime)

(massima n. 1)

La consulenza tecnica può essere sia strumento di valutazione tecnica che di accertamento di situazioni di fatto rilevabili solo mediante il ricorso a determinate cognizioni tecniche e, qualora la parte solleciti l'esercizio del potere ufficioso di disposizione della consulenza per accertare fatti di tale specie, il giudice deve motivare l'eventuale diniego e le ragioni spiegate sono sindacabili in sede di legittimità; peraltro, allorquando si richieda in appello la rinnovazione della consulenza contestando non i dati tecnico-storici accertati ma le valutazioni tecniche del consulente fatte proprie dal giudice di primo grado, da un lato l'istanza è ammissibile in quanto non si versa nell'ipotesi di richiesta di nuovi mezzi di prova ai sensi dell'art. 345 c.p.c. e dall'altro il giudice non ha un obbligo di motivare il diniego, che può essere anche implicito, bensì di rispondere alle censure tecnico-valutative mosse dall'appellante alle valutazioni di ugual natura contenute nella sentenza impugnata; conseguentemente l'omesso espresso rigetto dell'istanza di rinnovazione non dà luogo a vizio di omessa pronuncia ai sensi dell'art. 112 c.p.c. potendo se del caso sussistere solo un vizio di motivazione in ordine alle ragioni addotte per respingere le censure tecniche alla sentenza impugnata.

(massima n. 2)

La responsabilità del medico in ordine al danno subito dal paziente presuppone la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento della professione, tra cui il dovere di diligenza da valutarsi in riferimento alla natura della specifica attività esercitata; tale diligenza non è quella del buon padre di famiglia ma quella del debitore qualificato ai sensi dell'art. 1176, secondo comma c.c. che comporta il rispetto degli accorgimenti e delle regole tecniche obbiettivamente connesse all'esercizio della professione e ricomprende pertanto anche la perizia; la limitazione di responsabilità alle ipotesi di dolo e colpa grave di cui all'art. 2236, secondo comma c.c. non ricorre con riferimento ai danni causati per negligenza o imperizia ma soltanto per i casi implicanti risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà che trascendono la preparazione media o non ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica; quanto all'onere probatorio, spetta al medico provare che il caso era di particolare difficoltà e al paziente quali siano state le modalità di esecuzione inidonee ovvero a questi spetta provare che l'intervento era di facile esecuzione e al medico che l'insuccesso non è dipeso da suo difetto di diligenza. (Nella specie la S.C. ha ritenuto immune da vizi la sentenza di merito che, in un caso di "grave sofferenza perinatale con danno cerebrale", facendo applicazione di tali principi, aveva escluso l'applicabilità dell'art. 2236, secondo comma e affermato la responsabilità concorrente del medico ginecologo-ostetrico che, per aver omesso di praticare tempestivamente il taglio cesareo e per aver indugiato nel disporre perfusioni ossitociche in presenza di una dilatazione anomala, aveva colposamente condotto la partoriente ad una complicanza finale che imponeva la scelta tecnica di particolare difficoltà dell'applicazione della ventosa, che implicava ulteriore ritardo per reperire altro chirurgo e un anestesista, e e della casa di cura per essere stata dotata di attrezzature non funzionanti, non aver predisposto terapie di rianimazione adeguate e a aver tardato il trasferimento in struttura pubblica).

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