Cassazione civile Sez. III sentenza n. 2836 del 26 febbraio 2002

(1 massima)

(massima n. 1)

Le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzo e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non al suo conseguimento. Ne deriva che l'inadempimento del professionista (nella specie: avvocato) alla propria obbligazione non può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell'attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del tradizionale criterio della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dall'art. 1176, secondo comma, c.c. parametro da commisurarsi alla natura dell'attività esercitata , sicché, non potendo il professionista garantire l'esito comunque favorevole auspicato dal cliente (nella specie, del giudizio di appello), il danno derivante da eventuali sue omissioni (nella specie, tardiva proposizione dell'impugnazione) intanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri (necessariamente) probabilistici, si accerti che, senza quell'omissione, il risultato sarebbe stato conseguito (nella specie, il gravame, se tempestivamente proposto, sarebbe stato giudicato fondato), secondo un'indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici.

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