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Articolo 3 Costituzione

[Aggiornato al 22/10/2023]

Dispositivo dell'art. 3 Costituzione

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale (1) e sono eguali davanti alla legge (2), senza distinzione di sesso [29, 31, 37 1, 48 1, 51; c.c. 143, 230bis], di razza, di lingua [6], di religione [8, 19, 20], di opinioni politiche [21, 49], di condizioni personali e sociali (3).

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico [24 3, 34, 36, 40] e sociale [30 2, 31, 32, 37], che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana [37, 38] e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori [35] all'organizzazione politica [48, 49], economica [39, 45-47] e sociale [31, 34] del Paese (4).

Note

(1) Nella prospettiva giuridica qui adottata, l'eguaglianza si può sintetizzare anzitutto nella parità formale tra tutti i cittadini, inibendone così discriminazioni. Essa si raccorda idealmente all'art. 1 della CEDU; vengono quindi in seguito specificati i singoli divieti (le mancanze di distinzioni di cui al termine del primo capoverso) cui ancorare una effettiva tutela del pari trattamento.
(2) Come anticipato, per legge è da intendersi ogni fonte disciplinante il complesso dei diritti da tutelarsi, ivi comprese quelle comunitarie (art. 20 CEDU). Le leggi che introducono differenziazioni tra categorie o situazioni sono sottoposte ad una valutazione di conformità a Costituzione in riferimento all'articolo qui in esame (così Bartole-Bin sub Commentario breve alla Cost.).
(3) Eguaglianza comprende altresì il divieto di discriminazione, ed il dovere di imparzialità, alla luce del canone di razionalità: particolare rilievo assumerebbero le "condizioni personali e sociali", che avrebbero la loro radice in ragioni soggettive indefinite e quindi più facilmente eludibili. Sarà compito del Giudice costituzionale sancire eventuali disparità.
(4) La salvaguardia e l'effettiva tutela di cui al secondo comma, qui in esame, prevede altresì il trattamento differenziato di situazioni diverse; la complessità spesso crea diseguaglianze latenti, ma che esigono trattamenti razionali e paritari, onde non sconfinare in diseguaglianza di fatto. Detti trattamenti saranno possibili solo se riconducibili ad analoghi principi ispiratori: il monito è al legisaltore, per attivarsi in varie direzione, soprattutto per i cosiddetti diritti sociali.
Diversamente, quindi, dovranno applicarsi i meccanismi del giudizio di eguaglianza e del giudizio di ragionevolezza: ossia, la verifica della giustificatezza di una differenziazione normativa o di una assimilazione costituzionalmente possibile.

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Par condicio
Servi
Status

Spiegazione dell'art. 3 Costituzione

La Carta Costituzionale contiene, all'interno dei primi dodici articoli, i principi fondamentali dell'ordinamento repubblicano.

A differenza di altre Costituzioni straniere, il Costituente ha preferito inserire tali principi direttamente nel testo della Carta fondamentale, senza cioè relegarli in un preambolo separato, al fine di evitare qualsiasi dubbio sull'ampiezza della propria efficacia e sulla immediata applicabilità.

Così facendo, i principi non fungono solamente da criteri guida cui i poteri pubblici devono conformarsi, ma altresì come norme che vincolano l'interprete.

Per quanto concerne il presente articolo, al primo comma viene posto il principio dell'uguaglianza formale tra i cittadini, quale regola fondamentale di ogni Stato di diritto.

Il secondo comma sancisce invece il principio dell'uguaglianza sostanziale, secondo cui è compito preciso dello Stato rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto limitano la libertà e l'uguaglianza dei consociati.

Premesso che la norma non si riferisce in realtà solo ai cittadini italiani, ma a qualsiasi persona, essa ha valenza generale e si riferisce a tutte quelle ipotesi in cui è necessario che situazioni uguali siano trattate in maniera uguale, e che situazioni diverse siano trattate in maniera diversa.

Quanto al principio di uguaglianza formale, trattasi della pari soggezione di tutti i cittadini al diritto, senza alcuna distinzione. Tale riconoscimento implica che tutte le Autorità e di poteri dello Stato sono egualmente soggetti alla legge. Ciò non toglie che possano essere previste disciplina differenziate per casi particolari, come l'art. 6 Cost., che impone di tutelare le minoranze linguistiche.

Come anticipato, il divieto di discriminazione va interpretato in una duplice accezione:

  • le leggi, anche quando riferite a gruppi determinati, non possono avere carattere personale o singolare, a meno che non esistano giustificate ragioni (si pensi alle leggi di interpretazione autentica con efficacia retroattiva);

  • il principio di uguaglianza non vieta in assoluto trattamenti differenziati, ma impone discriminazioni irrazionali o irragionevoli.

Il principio di ragionevolezza è infatti un naturale corollario del principio di uguaglianza, ed esige che le norme dell'ordinamento, in tutte le loro forme, siano adeguate al fine perseguito. Esso rappresenta pertanto uno stringente limite alla discrezionalità del legislatore. Le norme irragionevoli possono essere infatti oggetto di falcidia costituzione anche e soprattutto per irragionevolezza.

La Corte Costituzionale, nel valutare la ragionevolezza, si serve del c.d. tertium comparationis, al fine di avere un parametro di riferimento.

La verifica della ragionevolezza comporta l'indagine sui suoi presupposti, la valutazione della compatibilità tra mezzi e fini, nonché l'accertamento dei fini stessi.

Per quanto riguarda l'uguaglianza sostanziale, essa implica che lo Stato si adoperi effettivamente ed efficacemente per assicurare la parità dei diritti. Il legislatore è dunque tenuto ad azioni positive per impedire che il sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche e le condizioni personali e sociali diventino causa di una discriminazione di fatto.

Relazione al Progetto della Costituzione

(Relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana, 1947)

3 Il principio dell'eguaglianza di fronte alla legge, conquista delle antiche carte costituzionali, è riaffermato con più concreta espressione, dopo le recenti violazioni per motivi politici e razziali. E trova oggi nuovo ed ampio sviluppo con l'eguaglianza piena, anche nel campo politico, dei cittadini indipendentemente dal loro sesso.
Col giusto risalto dato alla personalità dell'uomo non vengono meno i compiti dello Stato. Se le prime enunciazioni dei diritti dell'uomo erano avvolte da un'aureola d'individualismo, si è poi sviluppato, attraverso le stesse lotte sociali, il senso della solidarietà umana. Le dichiarazioni dei doveri si accompagnano mazzinianamente a quelle dei diritti. Contro la concezione tedesca che riduceva a semplici riflessi i diritti individuali, diritti e doveri avvincono reciprocamente la Repubblica ed i cittadini. Caduta la deformazione totalitaria del «tutto dallo Stato, tutto allo Stato, tutto per lo Stato», rimane pur sempre allo Stato, nel rispetto delle libertà individuali, la suprema potestà regolatrice della vita in comune. «Lo Stato — diceva Mazzini — non è arbitrio di tutti, ma libertà operante per tutti, in un mondo il quale, checché da altri si dica, ha sete di autorità». Spetta ai cittadini di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica, rendendo effettiva e piena la sovranità popolare. Spetta alla Repubblica di stabilire e difendere, con l'autorità e con la forza che costituzionalmente le sono riconosciute, le condizioni di ordine e di sicurezza necessarie perché gli uomini siano liberati dal timore e le libertà di tutti coesistano nel comune progresso.

Massime relative all'art. 3 Costituzione

Corte cost. n. 151/2021

Con la sentenza n. 151/2021 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile una questione di costituzionalità dell’art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui non prevede un termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio mediante l’emissione dell’ordinanza-ingiunzione o dell’ordinanza di archiviazione degli atti. L’ordinanza del giudice a quo lamentava l’incompatibilità di questa previsione con gli artt. 3, 97 e 117, primo comma, Cost.: il fatto che l’autorità competente possa emettere il provvedimento sanzionatorio anche a notevole distanza di tempo dall’accertamento dell’illecito e dalle deduzioni difensive dell’incolpato darebbe luogo a un contrasto coi principi d’imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, oltre che con la tutela del legittimo affidamento e col principio di eguaglianza. Né; aggiunge il giudice rimettente, si potrebbe pensare di applicare l’art. 2 della legge n. 241/1990 per soddisfare l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici.

La Corte osserva che il procedimento sanzionatorio regolato dalla legge n. 689/1981 si articola in due fasi distinte: la prima è deputata all’acquisizione di elementi istruttori, mentre la seconda ha natura in senso lato contenziosa e decisoria. Nella prima fase, l’art. 14 della legge n. 689/1981 prevede che la contestazione dell’illecito debba essere effettuata entro 360 giorni dall’accertamento. Per contro, il legislatore non ha previsto un termine per la conclusione della fase decisoria; residua, volendo, solo il termine di prescrizione quinquennale del diritto alla riscossione delle somme dovute per le violazioni amministrative, previsto all’art. 28 della medesima legge. La Corte rileva inoltre che in alcune normative settoriali il legislatore ha previsto sia un termine prescrizionale sia un termine decadenziale, entro il quale dev’essere emesso il provvedimento sanzionatorio; talora, poi, è la stessa autorità competente a determinare in via regolamentare un termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio.
Il tema della certezza – intesa come prevedibilità temporale delle conseguenze dell’esercizio dei pubblici poteri – assume una valenza peculiare nel procedimento sanzionatorio, tale da distinguerlo dal procedimento amministrativo generale. Come si può desumere dalla giurisprudenza costituzionale, in materia di sanzioni amministrative il principio di legalità impone non solo la predeterminazione legislativa di rigorosi criteri di esercizio del potere, della configurazione della norma di condotta, della tipologia e misura della sanzione e della struttura di eventuali cause esimenti, ma deve definire anche la formazione procedimentale del provvedimento, anche con riguardo alla scansione cronologica dell’esercizio del potere. Si tratta di tutelare l’interesse soggettivo alla tempestiva definizione della propria situazione giuridica di fronte alla potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione, ma anche l’esercizio effettivo del diritto di difesa, che richiede che la conclusione del procedimento non risulti distante nel tempo dal momento dell’accertamento e della contestazione dell’illecito.
A fronte di queste considerazioni, la sola previsione di un termine di prescrizione del diritto alla riscossione delle somme dovute per le violazioni amministrative si ripercuote negativamente sull’esigenza di contenere nel tempo il protrarsi della situazione d’incertezza connessa alla contestazione di un illecito amministrativo.
La questione di costituzionalità risulta inammissibile in mancanza di una soluzione costituzionalmente obbligata: l’omissione legislativa denunciata dal giudice rimettente, che ha correttamente rilevato l’esistenza di un ingiustificato privilegio dell’autorità titolare della potestà punitiva, non può essere sanata dal giudice delle leggi, ma presuppone una valutazione – “ineludibile” e necessariamente “tempestiva” – che può essere compiuta soltanto dal legislatore.

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Tania L. G. chiede
mercoledì 22/02/2017 - Trentino-Alto Adige
“Buon giorno, sono nata da padre inglese e madre italiana - teoricamente godo di jus sanguinus matrilineare. Sono una italiana che appartiene o no alla Repubblica? Potrebbero spiegarsi le tante recriminazioni che ho vissuto come insegnante e tecnica nel pubblico impiego. Il // all'.art 51 del Lavoro comporta problematiche se accetto un lavoro a titolo inferiore della categoria C, come la coadiuvazione amm. in B. Tuttavia a me sembrano solo discriminazioni, in quanto non si vuole riporre fiducia nei lavoratori che hanno 'sfumature' nazionalistiche diverse essendo pienamente cresciuti in Italia con madre lingua italiana.”
Consulenza legale i 25/02/2017
Occorre innanzitutto precisare come il figlio nato da almeno un genitore italiano è cittadino italiano per diritto di nascita. Attualmente la cittadinanza italiana è regolata dalla legge 5 febbraio 1992, n. 91 (ed i relativi decreti di attuazione – D.P.R. nn. 572/93 e 362/94), il cui art. 1 stabilisce il c.d. ius sanguinis: “è cittadino per nascita il figlio di padre o madre cittadini”. Lei, pertanto, è cittadina italiana sin dalla nascita.

Per ciò che concerne il problema da Lei sollevato, nel caso in cui – nel contratto di lavoro – siano indicate le mansioni da svolgere in orario lavorativo, non si può parlare di demansionamento discriminatorio laddove Lei abbia accettato di svolgere tali mansioni. Infatti, l’art. 2103 c.c. recita testualmente che il lavoratore “deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte … ogni patto contrario è nullo”.
In altre parole, può parlarsi di demansionamento solo laddove il lavoratore sia stato assunto per lo svolgimento di determinate mansioni e ne svolga – in concreto – altre di natura inferiore. Solo in tali casi si potrà adire il giudice del lavoro ai sensi degli artt. 409 e segg. c.p.c. per chiedere l’assegnazione alle mansioni superiori effettivamente svolte, con il riconoscimento delle relative differenze retributive. Naturalmente, toccherà al lavoratore provare queste circostanze per vedere riconosciuti i propri diritti.