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Articolo 1105 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 07/03/2024]

Amministrazione

Dispositivo dell'art. 1105 Codice Civile

Tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell'amministrazione della cosa comune.

Per gli atti di ordinaria amministrazione le deliberazioni della maggioranza(1) dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote, sono obbligatorie per la minoranza dissenziente [259 cod. nav.].

Per la validità delle deliberazioni della maggioranza si richiede che tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati dell'oggetto della deliberazione [1109 n. 2](2).

Se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero, se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria(3). Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore [261 cod. nav.].

Note

(1) Nella comunione la maggioranza viene individuata in base al valore delle quote dei comunisti (se un comunista detiene la titolarità di una quota pari ad oltre la metà del valore del bene, egli da solo rappresenterà, in tal modo, la maggioranza voluta dalla legge).
Si tratta di una maggioranza semplice (più della metà del valore integrale della cosa comune) ed è richiesta per gli atti di ordinaria amministrazione, per l'eventuale approvazione di un regolamento in materia di ordinaria amministrazione ed in funzione di un più efficace godimento della cosa comune, e per l'eventuale nomina di un amministratore (art. 1106 del c.c.).
Per gli atti di straordinaria amministrazione è, invece, prevista una maggioranza qualificata (art. 1108 del c.c.).
(2) Anche se la norma non parla di convocazione, la preventiva convocazione di tutti i partecipanti alla comunione è ritenuta necessaria. Non occorrono, tuttavia, forme speciali, essendo sufficiente una qualsiasi modalità di avviso che consenta ai comproprietari di essere messi a conoscenza dell'assemblea e del suo oggetto.
Secondo la giurisprudenza non è qui applicabile analogicamente l'art. 66, comma terzo, disp. att. c.c. che fissa in tema di condominio di edifici il termine minimo di cinque giorni di preavviso dell'assemblea condominiale.
(3) Si tratta di un diritto irrinunciabile.
La negligenza dei compartecipi non dà in sé luogo a risarcimento del danno, perché i comunisti hanno il potere ma non l'obbligo di amministrare.

Ratio Legis

La disposizione fissa il criterio in base al quale la gestione della cosa comune, in costanza di comunione, è collettiva, e, pertanto, ad essa può contribuire ogni soggetto che partecipa alla comunione.
Si tratta della c.d. amministrazione congiunta, che si differenzia da quella disgiuntiva, propria delle società di persone (art. 2257 del c.c.).
Questa diversità esprime la staticità del godimento della cosa comune oggetto della comunione, e, viceversa, la dinamicità dell'attività economica effettuata dalla società. Al principio di amministrazione congiuntiva è collegato quello maggioritario, secondo cui al contenuto le delibere assunte dalla maggioranza dei partecipanti sono tenuti anche i dissenzienti.

Spiegazione dell'art. 1105 Codice Civile

Amministrazione ordinaria della cosa comune

In mancanza di diversa convenzione, tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell'amministrazione della cosa comune. La norma, per quanto non formulata, vigeva anche per il codice del 1865, con una differenziazione della comunione dalla società. Nella prima si ha una forma di amministrazione collettiva, mentre nella società si aveva (art. 1723 n. I, vecchio codice) e si ha (art. 2286 del c.c.) un'amministrazione individuale, per la presunzione che i soci si siano data reciprocamente la facoltà di amministrare l'uno per l'altro.

A rendere possibile l'esercizio di tale diritto di concorrere all'amministrazione, il secondo capov. dell'art. 1105 prescrive che tutti i partecipanti debbano essere preventivamente informati dell'oggetto della deliberazione, mentre tale obbligo di preventiva informazione non esisteva e non esiste per la società semplice, neppure ai fini dell'esercizio del diritto di opposizione concesso dall'art. 1723 del vecchio codice civile e conservato dall'art. 2286 citato.

Diritto di concorrere nell'amministrazione non significa, però, diritto di imporre la propria volontà individuale su quella degli altri partecipanti. Il sistema del nuovo codice è quello di distinguere fra gli atti di ordinaria amministrazione (art. 1105 del c.c.), gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione e gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune o le locazioni ultranovennali (art. 1108 del c.c.).

Per la prima categoria di atti, l' art. 1105 del c.c. stabilisce che le deliberazioni della maggioranza dei partecipanti, calcolate secondo il valore delle loro quote, sono obbligatorie per la minoranza dissenziente: è già questa una affermazione del carattere sociale della comunione.

L'articolo ha, però, previsto anche che non si prendano i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si formi una maggioranza ovvero la deliberazione adottata non sia eseguita, e, per non lasciare il singolo senza tutela, stabilisce che ciascun partecipante può ricorrere all' autorità giudiziaria, la quale provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore.

Così formulato, l'art. 1105 differisce dal corrispondente art. 678 del vecchio codice, in quanto ha un contenuto più limitato, riferendosi agli atti di ordinaria amministrazione, mentre l'art. 678 si riferiva anche a quelli eccedenti la semplice amministrazione, quali possono essere quelli diretti al miglior godimento della cosa comune.

Per converso il nuovo codice, in relazione agli atti di semplice amministrazione, ha meglio circostanziata l'ipotesi di mancanza dell'atto di amministrazione, contemplando e tenendo distinte le varie possibilità: a) omessa iniziativa; b) mancata formazione di una volontà di maggioranza; c) omessa esecuzione della deliberazione.

Nell' art. 1105 non viene menzionato il ricorso all'autorità giudiziaria per il caso che le deliberazioni di maggioranza risultino gravemente pregiudizievoli alla cosa comune, come si leggeva nell'art. 678. Esiste, invece, la precisazione che l'autorità giudiziaria provvede in camera di consiglio. I due rilievi sono connessi l'uno all'altro: l'ipotesi di una deliberazione di maggioranza gravemente pregiudizievole per la cosa comune, anche nell'ambito dell' ordinaria amministrazione, è prevista nell'art. 1109, ma in tale ipotesi, trattandosi non di svolgimento di un'attività amministrativa, come nei casi di cui all'art. 1105, ma di una vera e propria attività giurisdizionale, l'autorità giudiziaria dovrà provvedere nelle forme ordinarie.

Un dissenso, per vero, si può manifestare anche nel caso in cui non si riesca a formare una maggioranza, ma la mancanza dell'atto rende pur sempre prevalente la funzione amministrativa, mentre nella ipotesi di cui all'art. 1109 si tratta di vera e propria impugnativa di un atto regolarmente deliberato.

La nomina dell'amministratore da parte dell'autorità giudiziaria può seguire ricorrendo una sola o più delle ipotesi previste nel quarto comma dell'art. 1105.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

520 I poteri della maggioranza sono disciplinati dagli articoli 1105, 1106 e 1108. La maggioranza non solo delibera sugli atti di ordinaria amministrazione, ma può anche disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento della cosa o a renderne più comodo o redditizio il godimento, purché non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa eccessivamente gravosa. Dal conferimento di tale potere alla maggioranza l'istituto deriva elasticità di disciplina: a differenza delle modificazioni che può apportare il singolo partecipante, le quali trovano un limite nel rispetto della destinazione della cosa, le innovazioni deliberate dalla maggioranza, salvo il concorso delle condizioni dianzi indicate, possono importare anche un mutamento di destinazione. Per gli atti compresi nell'ambito della prima categoria, e cioè per gli atti non eccedenti l'ordinaria amministrazione, basta la semplice maggioranza, calcolata secondo il valore delle quote; per le innovazioni si richiede, invece una maggioranza qualificata, che rappresenti cioè almeno i due terzi del valore complessivo della cosa comune. Tale maggioranza qualificata è pure richiesta per gli altri atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, i quali possono essere disposti sempre che non risultino pregiudizievoli all'interesse di alcuno dei partecipanti. E' necessario però il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni ultranovennali. Si fa eccezione soltanto per l'ipoteca costituita a garanzia di mutui destinati al miglioramento o alla ricostruzione della cosa comune, ammettendosi, in considerazione della speciale finalità, che essa sia consentita dall'anzidetta maggioranza qualificata. Per evitare eventuali abusi, si esige per la validità delle deliberazioni della maggioranza che tutti i partecipanti siano previamente informati dell'oggetto della deliberazione (art. 1105 del c.c., terzo comma). Nell'art. 1109 del c.c. vengono determinati i casi in cui le deliberazioni della maggioranza possono essere impugnate dinanzi all'autorità giudiziaria da ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente. Per l'impugnazione è però stabilito un breve termine (trenta giorni), il quale, per coloro che sono intervenuti all'adunanza, decorre dalla data della deliberazione e, per gli assenti, dal giorno in cui la deliberazione fu loro comunicata. L'impugnazione non ha effetto sospensivo, ma l'autorità giudiziaria può sospendere l'esecuzione del provvedimento deliberato. Prevedendo il caso che non si prendano i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si formi una maggioranza, o che la deliberazione adottata non sia eseguita, l'art. 1105, ultimo comma, consente a ciascun partecipante di ricorrere all'autorità giudiziaria, la quale provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore. Ho ritenuto inopportuno stabilire per queste ipotesi che sia proposta istanza in sede contenziosa, poiché è profondamente diversa la portata dei provvedimenti che l'autorità giudiziaria è chiamata ad emettere nei casi previsti dall'articolo 1109 e in quelli previsti dall'ultimo comma dell'art. 1105. Nei primi vi è una deliberazione di maggioranza (positiva o negativa) impugnabile dalla minoranza dissenziente, onde sorge una controversia che non può altrimenti essere decisa che nelle forme contenziose; nei secondi si ha invece inerzia nell'amministrazione per non essersi presi o attuati i provvedimenti necessari per la conservazione della cosa comune e s'invoca l'autorità giudiziaria perché supplisca a tale inerzia: il provvedimento che il giudice emette ha carattere essenzialmente amministrativo. In conformità del sistema largamente attuato in tema di condomini edilizi, è conferito alla maggioranza anche il potere di stabilire un regolamento per l'ordinaria amministrazione e per il miglior godimento della cosa comune, nonché il potere di delegare l'amministrazione a uno dei partecipanti o anche a un estraneo (art. 1106 del c.c.). I partecipanti dissenzienti possono, nel termine di trenta giorni, reclamare all'autorità giudiziaria contro la deliberazione che approva il regolamento della comunione. Per gli assenti il termine decorre dal giorno in cui la deliberazione fu loro comunicata. Trascorso il termine senza che alcun reclamo sia stato proposto, il regolamento acquista efficacia, oltre che per i partecipanti, per i loro eredi e aventi causa (art. 1107 del c.c.).

Massime relative all'art. 1105 Codice Civile

Cass. civ. n. 14120/2021

Il provvedimento di revoca giudiziaria dell'amministratore della comunione ordinaria ha natura di atto di volontaria giurisdizione, ex art. 1105, comma 4, c.c. - in ogni tempo suscettibile, pertanto, di revoca o modificazione, ma non ricorribile per cassazione, ex art. 111, comma 7, Cost., salvo che, travalicando i limiti per la propria emanazione, abbia risolto una controversia su diritti soggettivi - non essendo configurabile un diritto dell'amministratore medesimo alla prosecuzione dell'incarico e potendo eventuali pretese dello stesso, analogamente a quanto avviene in ambito condominiale, in ipotesi di dedotta insussistenza della giusta causa di revoca, trovare tutela in forma risarcitoria o per equivalente nella sede propria del giudizio di cognizione. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto dall'amministratore giudiziario di un complesso immobiliare rispetto al decreto di revoca adottato, nei propri confronti, dalla Corte di appello, adìta in sede di reclamo ex art. 739 c.p.c.).

Cass. civ. n. 18038/2020

In tema di regolamentazione dell'uso della cosa comune, la previsione, ad opera dell'art. 1105, comma 4, c.c. del ricorso, da parte di ciascun partecipante, all'autorità giudiziaria per adottare gli opportuni provvedimenti in sede di volontaria giurisdizione (inclusi gli atti di conservazione), preclude al singolo partecipante alla comunione di rivolgersi al giudice, in sede contenziosa, per ottenere provvedimenti di gestione della "res", ai fini della sua amministrazione nei rapporti interni tra i comunisti; ne consegue che non è consentito il ricorso all'A.G. per ottenere determinazioni finalizzate al "migliore godimento" delle cose comuni, ovvero l'imposizione di un regolamento contenente norme circa l'uso delle stesse, spettando unicamente al gruppo l'espressione della volontà associativa di autorganizzazione contenente i futuri criteri di comportamento vincolanti per i partecipanti alla comunione. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva proceduto, in sede contenziosa, alla determinazione giudiziale delle superfici delle mura perimetrali dell'androne, utilizzabili dai proprietari dei locali terranei del condominio per apporvi delle vetrine espositive). (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO SALERNO, 14/01/2016).

Cass. civ. n. 29747/2017

L'assemblea dei partecipanti alla comunione ordinaria, diversamente da quanto stabilito per il condominio degli edifici, è validamente costituita mediante qualsiasi forma di convocazione purché idonea allo scopo, in quanto gli artt. 1105 e 1108 c.c. non prevedono l'assolvimento di particolari formalità, menzionando semplicemente la preventiva conoscenza dell'ordine del giorno e la decisione a maggioranza dei partecipanti. (Rigetta, CORTE D'APPELLO BOLOGNA, 21/05/2015).

Cass. civ. n. 1986/2016

Nel caso di acquisto di un immobile da parte di un soggetto, con denaro fornito da un terzo per spirito di liberalità, si configura una donazione indiretta, che si differenzia dalla simulazione giacché l'attribuzione gratuita viene attuata, quale effetto indiretto, con il negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti ed alla quale, pertanto, non si applicano i limiti alla prova testimoniale - in materia di contratti e simulazione - che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo.

Qualora il contratto di locazione abbia ad oggetto un immobile in comproprietà indivisa, ciascuno dei comunisti ha, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori, rispondendo a regole di comune esperienza che uno o alcuni di essi gestiscano, con il consenso degli altri, gli interessi di tutti, sicché l'eventuale mancanza di poteri o di autorizzazione rileva nei soli rapporti interni fra i comproprietari e non può essere eccepita alla parte conduttrice che ha fatto affidamento sulle dichiarazioni o sui comportamenti di chi appariva agire per tutti.

Cass. civ. n. 1650/2015

Ciascun comproprietario, in quanto titolare di un diritto che, sia pure nei limiti segnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti, investe l'intera cosa comune (e non una sua frazione), è legittimato ad agire o resistere in giudizio per la tutela della stessa nei confronti dei terzi o di un singolo condomino, anche senza il consenso degli altri partecipanti.

Cass. civ. n. 11553/2013

In tema di tutela del diritto di comproprietà, qualora il partecipante alla comunione compia un atto di ordinaria amministrazione, anche consistente in un negozio giuridico o in un'azione giudiziale aventi tali finalità, come l'agire per finita locazione contro i conduttori della cosa comune, la presunzione del consenso degli altri che sussiste ai sensi dell'art. 1105, primo comma, c.c., può essere superata dimostrando l'esistenza del dissenso degli altri comunisti per una quota maggioritaria o eguale della comunione, senza che occorra che tale dissenso risulti espresso in una deliberazione a norma dell'art. 1105, secondo comma, c.c.

Cass. civ. n. 4616/2012

In tema di amministrazione della cosa comune, il decreto emesso ai sensi dell'art. 1105, quarto comma, c.c. ha natura di provvedimento di volontaria giurisdizione, che, essendo suscettibile di revoca e modifica ex art. 742 c.p.c., è privo del carattere di definitività e, quindi, non è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., a meno che il provvedimento, travalicando i limiti previsti per la sua emanazione, abbia risolto in sede di volontaria giurisdizione una controversia su diritti soggettivi. (Nella specie, il giudice di merito, atteso il disaccordo tra i comunisti, aveva nominato un amministratore affinché procurasse la condanna del locatario a rimuovere le opere abusive eseguite sugli immobili comuni; in applicazione dell'enunciato principio, la S.C., negando la consistenza di diritto soggettivo all'interesse di alcuni comunisti di ottenere la sanatoria degli illeciti edilizi, ne ha dichiarato inammissibile il ricorso).

Cass. civ. n. 11589/2010

Il recesso del concedente da un contratto di comodato o di precario di beni comuni è atto di amministrazione ordinaria, in quanto è una modalità di indiretto godimento della cosa comune, e, quindi, può essere esercitato anche da un comproprietario, a meno che tale iniziativa sia esclusa dalla maggioranza, la cui determinazione, vincolando la minoranza, esclude la legittimazione ad agire del comproprietario.

Cass. civ. n. 480/2009

Con riguardo alle domande di risoluzione del contratto di locazione e di condanna del conduttore al pagamento dei canoni, deve essere negata la legittimazione (attiva ) del comproprietario del bene locato pro parte dimidia, ove risulti l'espressa volontà contraria degli altri comproprietari (e sempre che il conflitto, non superabile con il criterio della maggioranza economica, non venga composto in sede giudiziale, a norma dell'art. 1105 c.c. ), considerato che, in detta situazione, resta superata la presunzione che il singolo comunista agisca con il consenso degli altri, e, quindi, cade il presupposto per il riconoscimento della sua abilitazione a compiere atti di utile gestione rientranti nell'ordinaria amministrazione della cosa comune.

Cass. civ. n. 26408/2008

L'assemblea dei partecipanti alla comunione ordinaria, diversamente da quanto stabilito per il condominio degli edifici, è validamente costituita mediante qualsiasi forma di convocazione purché idonea allo scopo, in quanto gli artt. 1105 e 1108 cod. civ non prevedono l'assolvimento di particolari formalità, menzionando semplicemente la preventiva conoscenza dell'ordine del giorno e la decisione a maggioranza dei partecipanti.

Cass. civ. n. 14759/2008

In tema di comunione, il potere di concorrere nell'amministrazione della cosa comune statuito dal primo comma dell'art. 1105 c.c. può, nei confronti dei terzi, indurre a ritenere che chi agisce per la comunione la rappresenti ma, per vincolare i comunisti agli atti non stipulati dalla maggioranza, occorre, in ogni caso, che gli stessi vi prestino consenso. Infatti, per gli atti di ordinaria amministrazione, tra cui quelli indicati dall'art. 374 c.c., poiché l'esercizio da parte del singolo della facoltà di amministrare la cosa comune può collidere con quello analogo degli altri, ai sensi del secondo comma della norma citata, la potestà di disporre spetta alla maggioranza delle quote, la cui volontà vincola la minoranza e, comunque, ciascun comunista, se ritiene di esserne pregiudicato, può ricorrere all'autorità giudiziaria, ai sensi del quarto comma del richiamato art. 1105 c.c., come nel caso in cui non si formi la volontà della maggioranza o non si deliberi sull'amministrazione della cosa comune.

In tema di comunione, qualora la maggioranza dei comunisti appresa l'intenzione della minoranza o di uno di essi di cedere in locazione (o in affitto agrario) ad un terzo la cosa comune, ovvero l'avvenuta stipulazione del contratto si opponga, rispettivamente, alla conclusione del contratto o all'esecuzione del rapporto locativo, al terzo, cui venga comunicato tale dissenso, resta preclusa la possibilità di pretendere quella conclusione o esecuzione, con la conseguenza che il contratto, stipulato nonostante tale consapevolezza, è invalido per carenza di potere, o di valida volontà, della parte concedente di disporre per l'intero. Inoltre, la comunicazione del detto dissenso non solo alla minoranza, ma anche al terzo conduttore (o affittuario), determina la consapevolezza, in quest'ultimo, della mancanza di legittimazione alla stipula dell'atto da parte della minoranza e, quindi, il concorso, in malafede, nell'abuso del diritto nell'amministrazione del bene comune e ciò costituisce fatto illecito generatore del danno di cui è, pertanto, corresponsabile in solido il conduttore (o affittuario) che ha concorso e cooperato nella conclusione del contratto.

Cass. civ. n. 16075/2007

L'art. 1105 c.c. che stabilisce le regole di amministrazione della cosa comune è applicabile, in forza del rinvio contenuto nell'art. 1139 c.c. in materia condominiale, solo nell'ipotesi di condominio minimo, costituito di due soli condomini. In tutte le altre ipotesi le deliberazioni condominiali vengono assunte mediante le modalità e le maggioranze indicate nell'art. 1136 c.c. e alla ripartizione delle spese urgenti, eseguite senza la preventiva autorizzazione assembleare, si applica l'art. 1134 c.c.

Cass. civ. n. 24052/2004

La mancata comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea di un consorzio atipico, di gestione di parti comuni poste al servizio di proprietà esclusive (nella specie, consorzio di urbanizzazione), ad uno dei partecipanti al consorzio, in quanto vizio del procedimento collegiale, comporta, non già la nullità, ma l'annullabilità della delibera che, ove non impugnata nei termine di trenta giorni (dalla comunicazione per i consorziati assenti e dalla approvazione per quelli dissenzienti), è valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al consorzio, in applicazione di un indirizzo, rinvenibile nella materia delle delibere delle assemblee condominiali, cui la materia delle delibere consortili è assimilabile, ed al quale il legislatore si è uniformato anche in materia societaria, che, invertendo i principi comuni di diritto negoziale, ha assunto la generalità dei casi di contrasto con la legge od il regolamento nella categoria dell'annullabilità, rimanendo pertanto confinata la nullità assoluta in casi nominati o residuali nella elaborazione giurisprudenziale. Ne consegue che, eccepita, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo relativo al pagamento di contributi deliberati dall'assemblea consortile, la nullità della deliberazione per il mancato avviso di convocazione dell'assemblea stessa a tutti i consorziati, sulla decisione del giudice di pace che, giudicando secondo equità, rigetti la opposizione escludendo la radicale nullità della deliberazione e ritenendo che la eventuale illegittimità dell'assemblea si sarebbe dovuta far valere in via di impugnazione nel termine di trenta giorni, non può esercitarsi alcun sindacato di legittimità, circoscritto alla osservanza delle norme costituzionali e di quelle comunitarie, oltre che, in applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 206 del 2004, dei principi informatori della materia.

Cass. civ. n. 5889/2001

In materia di gestione condominiale il ricorso all'autorità giudiziaria ex art. 1105 c.c. presuppone ipotesi tutte riconducibili ad una situazione di assoluta inerzia in ordine alla concreta amministrazione della cosa comune per mancata assunzione dei provvedimenti necessari o per assenza di una maggioranza o per difetto di esecuzione della deliberazione adottata; detta norma non è, invece, applicabile quando l'assemblea condominiale abbia approvato dei lavori considerati necessari per la manutenzione delle parti comuni dell'edificio, contestati da taluni compartecipanti, in quanto l'intervento del giudice in tal caso si risolverebbe in un'ingerenza nella gestione condominiale ed in una sovrapposizione della volontà assembleare.

Cass. civ. n. 4133/2001

Non sussiste la violazione dell'art. 1102 c.c. se al condomino aspirante ad esser conduttore della cosa comune è preferito un terzo perché la predetta norma tutela l'uso diretto di ciascun condominio sulla medesima e non quello indiretto, come nel caso la maggioranza dei condomini, secondo il valore delle rispettive quote, deliberi di locare la cosa comune un terzo, ancorché a condizioni meno vantaggiose per il condominio rispetto a quelle offerte dal condomino, non essendovi il limite del pregiudizio agli interessi dei condomini, come invece per le innovazioni, al potere di scelta della maggioranza.

Cass. civ. n. 4131/2001

Quando non sia possibile l'uso diretto della cosa comune per tutti i partecipanti al condominio, proporzionalmente alla loro quota, promiscuamente ovvero con sistema di turni temporali o frazionamento degli spazi, i condomini possono deliberare l'uso indiretto della cosa comune, a maggioranza se è un atto di ordinaria amministrazione, come nel caso della locazione.

Cass. civ. n. 330/2001

Quando il potere dispositivo della cosa appartiene a più soggetti nella forma della comunione, tutti possono, rinunziando al godimento diretto, concederla in affitto a terzi ed anche a taluno soltanto dei contitolari che, in caso di affitto d'azienda, viene ad assumere l'esclusivo potere di gestione. Allo stesso modo, il condomino può concedere in affitto la propria quota.

Cass. civ. n. 14162/2000

In tema di comunione semplice — diversamente da quanto statuito per il condominio degli edifici — gli artt. 1105 e 1108 c.c. non prevedono la costituzione formale dell'assemblea, ma semplicemente la decisione a maggioranza dei partecipanti. Pertanto deve ritenersi regolarmente costituita e capace di deliberare, la riunione dei partecipanti alla comunione con la presenza dell'amministratore per decidere su oggetti di comune interesse.

Cass. civ. n. 8876/1998

La previsione, ad opera dell'art. 1105, comma quarto, c.c. in materia di comunione, per il caso in cui non si formi una maggioranza ai fini dell'adozione dei provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune, dello specifico rimedio del ricorso, da parte di ciascun partecipante, all'autorità giudiziaria perché adotti gli opportuni provvedimenti in sede di volontaria giurisdizione, preclude al singolo partecipante alla comunione di rivolgersi al giudice in sede contenziosa. Tale preclusione concerne tuttavia esclusivamente la gestione della cosa comune, ai fini della sua amministrazione nei rapporti interni tra i comunisti, e non opera, per converso, in relazione ad iniziative giudiziarie contenziose promosse dal comunista in qualità di terzo, come avviene nel caso in cui il comunista faccia valere in giudizio la posizione di proprietario di cose estranee alla comunione, che dalla rovina della cosa di cui è comproprietario abbia subito pregiudizio.

Cass. civ. n. 3653/1998

Sui beni oggetto di comunione concorrono pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari, in virtù della presunzione, relativa, che ognuno di essi operi con il consenso degli altri, con la conseguenza che il singolo condomino può stipulare contratti aventi ad oggetto il godimento del bene comune.

Cass. civ. n. 7613/1997

L'inerzia dell'amministratore nel compimento di un atto di ordinaria amministrazione non legittima il singolo condomino a rivolgersi all'autorità giudiziaria in sede contenziosa senza avere, in precedenza, provocato la convocazione dell'assemblea condominiale. La mancata convocazione dell'organo assembleare, la mancata formazione di una volontà maggioritaria, la adozione di una delibera poi ineseguita legittimano, per l'effetto, il condomino ad agire non in sede contenziosa bensì di volontaria giurisdizione, giusto disposto dell'art. 1105 c.c. (mentre la deliberazione di maggioranza risulterà impugnabile in via contenziosa nelle sole ipotesi di lesione di diritti individuali dei partecipanti dissenzienti, ovvero di violazione di legge o del regolamento condominiale), non rilevando, in contrario, la disposizione di cui all'art. 1133 c.c. (a mente della quale il ricorso avverso i provvedimento dell'amministratore, per il singolo condomino, è proponibile, oltreché all'assemblea, anche all'autorità giudiziaria), poiché detta norma delimita la possibilità di esercizio della ivi prevista facoltà ai casi espressamente stabiliti nel successivo art. 1137 (ostativo, per l'autorità giudiziaria, all'esercizio di qualsivoglia sindacato di merito sulle deliberazioni dell'assemblea), escludendo, pertanto, che il giudice possa, in sede contenziosa, sopperire all'inerzia dell'amministratore nel compimento di atti di ordinaria amministrazione.

Cass. civ. n. 7457/1997

Il singolo condomino può agire per la risoluzione del contratto di affitto salvo che risulti la volontà contraria degli altri condomini, nel qual caso la sua carenza di legittimazione attiva deve essere rilevata dal giudice anche d'ufficio.

Cass. civ. n. 3831/1996

Il singolo condomino può locare la cosa comune senza necessità di espresso assenso degli altri condomini trattandosi di un atto di ordinaria amministrazione che si presume fino a prova contraria compiuto nell'interesse di tutti e può del pari domandare la risoluzione del contratto senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri condomini. Tuttavia, nel caso di dissenso dei due soli condomini circa l'opportunità di promuovere o coltivare il giudizio di risoluzione contrattuale, essendo esclusa la possibilità della formazione della maggioranza ed essendo altresì esclusa ogni presunzione di consenso o di utile gestione, è necessario il preventivo intervento dell'autorità giudiziaria a norma dell'art. 1105 c.c.

Cass. civ. n. 12241/1995

La realizzabilità giuridica dell'intenzione, posta dal locatore a fondamento del diniego di rinnovo, di adibire l'immobile all'esercizio di attività di ristorante non trova ostacolo nel dissenso di alcuni comproprietari dell'immobile stesso, atteso che, integrando la gestione di detta attività un atto di ordinaria amministrazione, non è necessario il consenso di tutti i partecipanti alla comunione, ma è sufficiente quello della maggioranza di essi.

Cass. civ. n. 9113/1995

Sugli immobili oggetto di comunione concorrono, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari, in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri. Ne consegue che il singolo condomino può stipulare il contratto di locazione avente ad oggetto l'immobile in comunione e che un condomino diverso quello che ha assunto la veste di locatore è legittimato ad agire per il rilascio del bene stesso (senza che sia necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini), purché non risulti l'espressa ed insuperabile volontà contraria degli altri comproprietari, la quale fa venire meno il presunto consenso della maggioranza.

Cass. civ. n. 8085/1995

Il potere di ogni condomino di agire per la gestione ordinaria della cosa comune, traendo origine dal diritto di concorrere all'amministrazione di tale bene (art. 1105 c.c.), incontra il suo limite nell'obbligo di rispettare la volontà della maggioranza. Pertanto, allorché un immobile locato appartenga ad una molteplicità di condomini e dagli stessi sia congiuntamente stipulato il relativo contratto, è la maggioranza dei condomini a stabilire circa l'amministrazione ed il godimento della cosa comune e, quindi, della possibilità e volontà di disdire e far cessare, alla scadenza contrattuale, il contratto di locazione, anche in contrasto con la minoranza dissenziente.

Cass. civ. n. 4005/1995

Con riguardo ad un procedimento di sfratto per finita locazione relativo ad un immobile in comproprietà, ciascun comproprietario — quale titolare del diritto di concorrere alla gestione ordinaria del bene, con il solo limite del rispetto della volontà della maggioranza — è legittimato ad agire in giudizio, nella presunzione del consenso degli altri alla proposizione dell'azione, salva la possibilità per i comproprietari che rappresentino una quota maggioritaria di opporsi all'azione medesima. Nel caso in cui siano i comproprietari rappresentanti una quota maggioritaria ad agire in giudizio, un eventuale loro interesse personale al rilascio dell'immobile (nella specie, ai fini dell'utilizzazione di esso in proprio) non vale a trasformare la domanda giudiziale in un atto eccedente l'ordinaria amministrazione, atteso che il suddetto interesse non «qualifica» l'atto di gestione, inerendo alla successiva utilizzazione del bene, peraltro rimessa alla determinazione anche degli altri comproprietari e comunque non realizzabile senza un corrispondente vantaggio di tutti.

Cass. civ. n. 10575/1994

L'art. 1105 c.c. prevede il ricorso all'A.G., che provvede in camera di consiglio, nell'ipotesi in cui la deliberazione dei partecipanti alla comunione relativa all'amministrazione della cosa comune non venga eseguita dagli stessi partecipanti, ovvero dall'amministratore nel caso in cui questo sia stato nominato. È inammissibile, pertanto, il ricorso alla procedura anzidetta per la declaratoria di esecutività della deliberazione (che integra un atto negoziale privato) nei confronti di soggetti estranei alla comunione medesima.

Cass. civ. n. 11431/1993

I decreti emessi dal giudice ordinario, anche in sede di reclamo, in ordine ai provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune a norma dell'art. 1105 ultimo comma c.c. hanno natura di provvedimenti di volontaria giurisdizione, come tali suscettibili in ogni tempo di revoca o di modificazione, a norma dell'art. 742 c.p.c. Essi, pertanto, non sono impugnabili con il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.

Cass. civ. n. 10732/1993

In tema di cessazione, recesso o risoluzione di contratti aventi ad oggetto l'utilizzazione economica dell'immobile oggetto di comunione (allorché questa si esprima sul piano negoziale con i terzi, nel suo aspetto esterno e dinamico, ma difetti di un organo titolare del potere deliberativo, come l'assemblea), vige il principio della concorrenza dei pari poteri gestori in tutti i comproprietari, in forza del quale ciascuno di essi — anche in presenza di un organo rappresentativo unitario — è legittimato ad agire, anche in giudizio — e senza che sia all'uopo necessaria una autorizzazione, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 5 c.p.c., degli altri compartecipi, contro chi pretenda di avere un diritto di godimento sul bene, e ciò indipendentemente dall'operatività dell'istituto della negotiorum gestio, bensì sulla base della comunanza di interessi tra tutti i partecipanti alla comunione e della conseguente presunzione di un loro consenso all'iniziativa volta alla tutela di detti interessati, salvo che si deduca e si dimostri, a superamento di tale presunzione, il dissenso della maggioranza dei partecipanti stessi.

Cass. civ. n. 8110/1991

Anche quando venga pronunciata risoluzione del contratto di locazione avente ad oggetto un bene comune locato ad uno dei proprietari per inadempimento del conduttore, questo — avendo diritto al godimento dello stesso in proporzione della sua quota — non può essere condannato al rilascio del bene medesimo all'altro comproprietario, restando invece ai comunisti di disciplinare l'ordinaria amministrazione della cosa comune senza privare alcuno dei contitolari del bene delle sue facoltà di godimento e così eventualmente di ricorrere, in caso di persistente disaccordo, all'autorità giudiziaria, ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., per la nomina di un amministratore.

Cass. civ. n. 2158/1983

Tra i partecipanti alla comunione esiste un reciproco rapporto di rappresentanza, in virtù del quale ciascuno di essi può procedere alla locazione della cosa comune ed agire per la cessazione o la risoluzione del contratto e la consegna del bene locato, anche nell'interesse degli altri partecipanti alla comunione, trattandosi di atti di utile gestione rientranti nell'ambito dell'ordinaria amministrazione della cosa comune, per i quali è da presumere, salvo prova contraria, che il singolo comunista abbia agito anche con il consenso degli altri.

Cass. civ. n. 4213/1982

In materia di comunione, non sono proponibili azioni giudiziarie relativamente alle spese ed all'amministrazione delle cose comuni (in questa compresi gli atti di conservazione) prima che venga sollecitata e provocata una deliberazione dell'assemblea dei comproprietari, alla quale spetta ogni determinazione al riguardo, sia che si tratti di spese voluttuarie o utili, che di spese necessarie, distinguendo la legge (ai fini della prescrizione, rispettivamente, della deliberazione a maggioranza semplice e di quella a maggioranza qualificata) unicamente tra spese d'ordinaria amministrazione (art. 1105 c.c.) e spese concernenti innovazioni o atti di straordinaria amministrazione (art. 1108 c.c.). Peraltro, mentre la deliberazione di maggioranza è impugnabile davanti al giudice, in via contenziosa, ove lesiva dei diritti individuali dei partecipanti dissenzienti, resta salva la possibilità, una volta convocata l'assemblea, in caso d'omessa iniziativa della medesima e di mancata formazione di una volontà di maggioranza o d'omessa esecuzione della deliberazione, di rivolgersi al giudice, non già in sede contenziosa, ma di volontaria giurisdizione, ai sensi del quarto comma dell'art. 1105 citato.

Cass. civ. n. 3143/1982

Un immobile comune ed indiviso può essere locato, qualora la maggioranza lo decida, tanto ad un terzo quanto ad uno dei condomini, che così deriva dal rapporto locatizio, e non dalla contitolarità del diritto reale, il godimento esclusivo dell'intero immobile (comune) senza con ciò contrastare con i pari diritti degli altri comproprietari.

Cass. civ. n. 538/1982

In tema di amministrazione del bene comune, la validità e vincolatività, nei confronti della minoranza dissenziente, della decisione adottata dalla maggioranza dei partecipanti, secondo la previsione dell'art. 1105 c.c., postula che tale decisione venga espressa mediante una formale deliberazione assembleare, previo avviso di convocazione a tutti i condomini.

Cass. civ. n. 312/1982

L'uso indiretto della cosa comune (nella specie mediante locazione) incidendo sull'estensione del diritto reale che ciascun comunista possiede sull'intero bene indiviso, può essere disposto dal giudice o deliberato dall'assemblea dei condomini a maggioranza, soltanto quando non sia possibile o ragionevole l'uso promiscuo, sempreché la cosa comune non consenta una divisione, sia pure approssimativa, del godimento. L'indivisibilità del godimento costituisce il presupposto per l'insorgenza del potere assembleare circa l'uso indiretto, onde la deliberazione che adotta l'uso indiretto senza che ne ricorrano le condizioni, è nulla, quale che sia la maggioranza, salvoché ricorra l'unanimità.

Cass. civ. n. 385/1977

I singoli condomini di un edificio hanno il diritto di utilizzare direttamente, per il miglior godimento, il piano o la porzione di piano di loro proprietà esclusiva, ma non le parti del fabbricato che, per la loro destinazione ad un servizio comune, si presumono di proprietà comune a norma dell'art. 1117, n. 2 c.c. e pertanto, tali parti non possono essere concesse in locazione a terzi se non per decisione unanime dei condomini. (Nella specie, trattavasi di locali dell'edificio condominiale che, per pattuizione contenuta negli atti di acquisto facenti capo ai singoli condomini, erano stati indicati quali beni comuni e destinati a deposito. La Suprema Corte confermando la decisione dei giudici di merito, ha ritenuto nulla la deliberazione dell'assemblea condominiale, approvata a maggioranza, con la quale era stato deciso di concedere tali locali in locazione ad un terzo).

Cass. civ. n. 3441/1976

La norma dell'art. 1105 c.c., in tema di disciplina della amministrazione della cosa di proprietà comune, non attribuisce ai condomini un reciproco mandato con rappresentanza.

Cass. civ. n. 218/1976

Il condomino, come può procedere alla locazione della cosa comune, anche nell'interesse degli altri partecipanti, trattandosi di un atto di utile gestione, per il quale è da presumere, salva la prova contraria, che operi con il consenso degli altri condomini così può agire in giudizio, anche nell'interesse degli altri, per ottenere il rilascio del bene locato, al termine del contratto, ovvero per ottenere la risoluzione del contratto, per inadempimento del conduttore. In tale ipotesi, la legittimazione ad agire del singolo condomino deve essere esclusa solo quando, a seguito dell'intervento in causa degli altri partecipanti, si accerti l'esistenza di un contrasto fra il gruppo di minoranza, che chiede la risoluzione, e quello di maggioranza, che vuole invece la continuazione del rapporto.

Cass. civ. n. 1905/1974

Il potere della maggioranza dei partecipanti alla comunione di disporre le modalità per il miglior godimento della cosa comune presuppone il rispetto della condizione che il diritto di comproprietà debba potersi estrinsecare liberamente, con l'unico limite derivante dal divieto di impedire uguale uso da parte degli altri compartecipanti e di alterare la destinazione della cosa comune. (Nella specie la Corte di cassazione ha ritenuto corretta l'affermazione dei giudici del merito secondo cui la deliberazione della maggioranza che stabiliva l'onere del pagamento di una somma per il parcheggio di autobus dei comproprietari su di un'area comune da essi utilizzata per il deposito di detti autoveicoli, veniva a limitare illegittimamente il potere di ciascuno di disporre liberamente del bene comune).

Cass. civ. n. 1765/1974

Il ricorso all'autorità giudiziaria in sede di volontaria giurisdizione previsto dall'art. 1105 (quarto comma) c.c., per l'ipotesi in cui non vengano adottati i provvedimenti necessari all'amministrazione della cosa comune, è improponibile quando tra i partecipanti alla comunione si controverta sull'esistenza e sull'estensione di diritti soggettivi.

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Consulenze legali
relative all'articolo 1105 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Anonimo chiede
sabato 03/06/2023
“Sono comproprietario (comunione ereditaria) assieme a mio fratello di tre immobili.
Uno di questi è occupato stabilmente, dopo aver risolto il contratto con l’inquilino senza chiedere il mio consenso, da mio fratello e della sua famiglia.
Ho manifestato, in maniera celere, la mia opposizione ma non ho ancora richiesto l’indennità di occupazione.
Mio fratello oppone la possibilità di utilizzare l’appartamento nello stesso momento in maniera congiunta. Ipotesi irrealizzabile per ragioni legate agli spazi nonché per la mia volontà di godere del bene attraverso la locazione sul libero mercato.
Gli altri due immobili (contigui) sono siti in una nota località sciistica Piemontese. Entrambi sono utilizzati in vari periodi dell’anno da mio fratello, in particolar modo dalla metà di Dicembre alla metà di Gennaio.
Ho manifestato la mia volontà di locare gli immobili e di utilizzare, gli stessi, a turnazione nel periodo sopra indicato.
Tali ipotesi formalmente (attraverso la forma scritta) non sono state contestate. Di contro l’attuazione concreta è stata ostacolata attraverso comportamenti di segno opposto (occupazione esclusiva nel periodo indicato e inerzia/ostruzionismo nella ricerca di soggetti interessati alla locazione e nel conseguente libero godimento).
Chiedo un parere circa le migliori modalità per la tutela dei miei interessi. In particolare vorrei sapere se ci sono le condizioni per richiedere l’indennità di occupazione nonché la possibilità di ottenere un risarcimento del danno per la violazione degli artt. 1102 e 1105.
Gradirei rimanere anonimo.”
Consulenza legale i 09/06/2023
Il quesito descrive un classico caso di scuola di conflitto nella gestione ed amministrazione della cosa comune, aggravato dal fatto che la comunione è composta da due soli partecipanti e che quindi non è tecnicamente possibile che si formi una maggioranza che possa imporre la propria volontà alla minoranza dissenziente.
Se dovesse permanere la conflittualità descritta, l’autore del quesito ha due strade davanti a sé: la prima ai sensi del 4° co. dell’art. 1105 del c.c. è quella di ricorrere al giudice il quale adotterà, per mezzo di un provvedimento giudiziario, sostituendosi di fatto ai due proprietari, le decisioni più idonee per l’amministrazione dei cespiti, se del caso anche nominando un amministratore giudiziario; la seconda è quella di monetizzare il capitale e richiedere la divisione della comunione ai sensi dell' art. 1111 del c.c., divisione che, anche in questo caso permanendo la conflittualità, dovrà realizzarsi in contraddittorio in un processo.

Nell’ambito del procedimento instaurato ai sensi dell’art. 1105 del c.c. si potrà ovviamente far presente al giudice la volontà di mettere a reddito i cespiti ricorrendo al mercato delle locazioni ed è molto probabile che il giudice accoglierà tale richiesta.
La soluzione della divisione, però, è forse quella più estrema ma è sicuramente maggiormente risolutiva del problema: per tale motivo ci si sente di consigliare tale strada. Essa, infatti, permetterebbe di acquistare in proprietà esclusiva alcuni dei cespiti oggi condivisi con l’altro proprietario, a patto ovviamente che si abbia la capacità economica per realizzare l’acquisto.

Affianco a tutto questo è assolutamente possibile richiedere al giudice un risarcimento del danno per ingiusta occupazione del bene da parte dell’altro comproprietario.
L’art. 1102 del c.c., se da un lato ammette che il singolo comunista possa fare anche un uso esclusivo del bene comune, dall’altro precisa che non si deve impedire anche agli altri proprietari di farne parimenti uso.
Se, quindi, il cespite occupato esclusivamente dal fratello non ha delle caratteristiche costruttive tali da poter garantire un pari utilizzo del bene per entrambi i nuclei familiari, è ovvio che la condotta tenuta dalla controparte si pone in violazione dell’art 1102 del c.c.
Ciò comporta la possibilità di richiedere, ovviamente anche e soprattutto per via giudiziaria, un risarcimento del danno che può essere sicuramente quantificato facendo ricorso al valore locatizio del cespite abusivamente occupato (Cass.Civ. n.7681 del 19.03.2019).

Il discorso fatto finora muterebbe se l’immobile occupato avesse caratteristiche costruttive tali da permettere un uso simultaneo da parte di entrambi i comproprietari: per fare un esempio pratico si pensi alla classica casetta familiare che può essere divisa in due appartamenti distinti e indipendenti, andando quindi a creare un condominio minimo. In questo caso, infatti, non vi sarebbe alcuna violazione dell’art. 1102 del c.c. e il comportamento della controparte rimarrebbe entro i limiti tracciati dalla norma citata. Il quesito non offre sotto questo aspetto spunti per permettere una ulteriore riflessione, ma sicuramente ciò potrà essere fatto se l’autore deciderà di approfondire il problema con l’ausilio di un legale.

Si precisa che il contenzioso attinente alla indennità di occupazione o alla possibile divisione dell’intero compendio in comune dovrà essere necessariamente preceduto da un tentativo obbligatorio di mediazione, sede dove è sicuramente consigliabile trovare un accordo bonario per regolamentazione pacifica degli interessi contrapposti dei due fratelli litigiosi.

M. B. chiede
mercoledì 24/05/2023
“Salve,
Sono proprietaria dell'unità al piano terra di una villetta bifamiliare. L'altra unità al primo piano ha un altro proprietario. Aggiungo che risiedo all'estero. Tempo fa (circa un anno e mezzo fa) si è rilevata la necessità di rifare la copertura per presenza di infiltrazioni.
A fine 2022 l'altro proprietario mi dice che i lavori sono ora più che mai necessari, mi rendo subito disponibile a considerare gli interventi chiedendo di essere coinvolta nelle fasi preliminari (sopralluoghi, preventivi ecc.). Seguono mesi di silenzio, a fine aprile 2023 l'altra parte mi invia un preventivo per lavori di demolizione e rifacimento del tetto, dandomi un mese di tempo per pensarci, dato che si intende iniziare i lavori il prima possibile. Il preventivo è per una cifra importante ed ad una successiva analisi emergono voci ingiustificatamente onerose, al che suggerisco di ottenere ulteriori preventivi per raffronto. Contatto personalmente diverse ditte per ottenere nel più breve tempo possibile preventivi e sopralluoghi. Otteniamo altri due preventivi che necessitano di sopralluoghi per conferma (e che dimostrano l'incongruità dei costi del primo preventivo). Alla richiesta di concordare tali sopralluoghi con tali ditte, l'altra parte non reagisce.
Non riesco ad ottenere un elaborato progettuale da parte della ditta che ha effettuato il primo preventivo. Insomma, sembra che il vicino non voglia collaborare....è difficile parlare al telefono, le mie mail non ottengono risposta.
Io non voglio approvare un preventivo lavori che non condivido, le cui cifre paiono spropositate ed aggiungo, nelle cui fasi preliminari non sono stata coinvolta.
Si tratta di un condominio minimo, per il quale non abbiamo un amministratore.

Il mio quesito è il seguente: il mio vicino può impormi il rimborso della quota a me spettante, qualora decida di procedere ai lavori nonostante il mio disaccordo?
Che cosa è consigliabile fare?

Grazie fin d'ora della Vostra attenzione e per l'aiuto.
Cordiali saluti”
Consulenza legale i 25/05/2023
L’art.1105 del c.c. al suo 1° comma, detta un principio generale assolutamente applicabile al caso specifico, ovvero che tutti i partecipanti alla comunione hanno diritto a partecipare alla amministrazione della cosa comune. Per tale motivo controparte non può in alcun modo imporre la realizzazione di lavori straordinari con ditte e modalità lavorative non condivise.

È quanto mai opportuno quindi inviare al vicino una raccomandata con ricevuta di ritorno, con la quale, innanzitutto, manifestare il proprio dissenso a che i lavori vengano realizzati con la ditta scelta da controparte, diffidandola nel contempo da realizzare lavori senza il suo preventivo consenso. Inoltre, con la medesima raccomandata si dovrà sollecitare il vicino a rendere possibile il sopraluogo delle altre ditte individuate al fine di permettere a queste ultime di inviare un preventivo completo.
L’invio di tale raccomandata ha come scopo principale quello di evitare che controparte possa sostenere che vi sia stato un disinteresse nella gestione della cosa comune e che essa usi tale pretesto per richiedere ai sensi degli artt. 1134 e 2031 del c.c. eventuali rimborsi delle spese sostenute per lavori non concordati.

Se i due condomini rimarranno fermi sulle loro posizioni senza giungere ad un accordo sulla gestione della cosa comune, purtroppo l’unica alternativa sarà quella di ricorrere al giudice ai sensi del 4° co. dell’art. 1105 del c.c. Tale norma prevede che se non si adottano i provvedimenti necessari per la gestione della cosa comune ciascun partecipante può ricorrere alla autorità giudiziaria, la quale, provvedendo in camera di consiglio, adotterà le scelte amministrative più consone sostituendosi di imperio ai comproprietari in disaccordo. L’autorità giudiziaria potrebbe anche nominare un amministratore della cosa comune.



L. P. chiede
lunedì 14/11/2022 - Abruzzo
“Spett.le Brocardi
Lo scorso anno vi scrissi per chiedere una consulenza (quesito n. Q202128867 del 11/08/2021 con vostra risposta del 24/08/2021) relativamente ad una grave situazione che, assieme a mia madre, stavamo e stiamo vivendo, a causa dell’appartenenza, nostro malgrado, ad un gruppo di comunioni di beni, due ereditarie e due ordinarie, assieme ai fratelli di mio padre deceduto nel 2012. Questi ultimi, come detto lo scorso anno, si comportano in maniera estremamente scorretta e disonesta. In particolare colui che amministra. Riassumendo velocemente il mio quesito, chiedevo come sbloccare una situazione di stallo gestionale messa in atto da parte dell’amministratore delle comunioni (chiamato così solo per modo di dire) che, assieme ai fratelli, stava (e sta) facendo di tutto per danneggiare la minoranza costituita da me e mia madre. Lo stallo consiste nella totale mancanza di rispetto del Regolamento di gestione redatto dallo stesso “amministratore” e quindi dal mancato invio dei rendiconti di gestione in tempo utile per la redazione della dichiarazione dei redditi, e, naturalmente, degli utili risultanti dalle locazioni dei locali in oggetto, oltre che dalla totale assenza di rapporti con noi (anche quando vengono sollecitati in forma scritta) e altre cose che sarebbe troppo lungo spiegare in questa sede e a cui avevo fatto riferimento nel precedente quesito. La soluzione prospettata da voi per risolvere lo stallo gestionale è stata identificata nel ricorso agli art. 1723 – 1725 c.c. oltre che al 1710 c.c. per ottenere la revoca del mandato del mandatario. Ovviamente, la vostra risposta è impeccabile dal punto di vista giuridico, ma, purtroppo, si scontra con il fatto che, assieme a mia madre, possiedo la minoranza delle quote delle comunioni suddette. Pertanto, ammesso di riuscire a convincere i giudici a revocare il mandato dell’attuale mandatario, dopo poco tempo ci ritroveremmo nella stessa situazione di prima, a causa della nomina da parte dell’assemblea di un nuovo amministratore dotato delle stesse caratteristiche di quello precedente: disonestà assoluta, prepotenza, cialtroneria, infantilismo e altre “delizie” dello stesso tipo di cui ho ampiamente parlato nel quesito dello scorso anno. Successivamente alla vostra risposta dell’anno scorso, la questione si sbloccò con una diffida del mio avvocato, che portò alla liquidazione di parte degli utili dell’anno precedente, decurtati di spese mai giustificate e, certamente inventate ad arte per sottrarre buona parte degli utili.
Quest’anno non è bastata neanche la diffida. Alla luce di quanto esposto, si è deciso di non perseguire la strada da voi consigliata nella risposta al precedente quesito, e, invece, di provare con la nomina dell’amministratore giudiziario del complesso delle comunioni, in base a quanto previsto dall’art. 1105 c.c., limitatamente alle operazioni non svolte dal soggetto che formalmente svolge il ruolo di amministratore. Tuttavia, l’attuale situazione appare ancora più complessa di quella dell’anno precedente, poiché chi amministra nella maniera indicata, ha complicato ulteriormente la situazione rispetto allo scorso anno, inviando con un ritardo di circa dieci mesi il rendiconto di gestione (siamo così arrivati ad Ottobre 2022), giustificandosi con non meglio precisati “problemi di salute”, dei quali non mi risulta l’esistenza, peraltro, come sempre, inventando di sana pianta le cifre in esso riportate e, quindi, privo di qualsiasi collegamento con i dati riscontrati all’Agenzia delle Entrate, e nello stesso tempo, ha convocato l’assemblea dei comproprietari per farsi rinnovare l’incarico e approvare il bilancio di gestione per l’anno precedente. A queste assemblee farsa partecipa solo lui e qualche suo familiare che lo appoggia a spada tratta. Tutto questo, inoltre, senza liquidare gli utili relativi all’anno 2021, che, come detto nel quesito dello scorso anno, in base al regolamento di gestione, devono essere liquidati entro il 31 Gennaio dell’anno successivo, quindi nel caso specifico, entro il 31 Gennaio 2022 (così come, entro la stessa data, deve essere inviato il rendiconto). Fermo restando che il complesso di comunioni è attualmente in fase di scioglimento presso il Tribunale competente e che, purtroppo, questa operazione richiederà probabilmente ancora molto tempo, la situazione di stallo gestionale nella quale ci si trova quest’anno è ulteriormente aggravata dal fatto che, dopo la convocazione dell’assemblea, ormai, a distanza di un mese, non è stato inviato il verbale contenente il deliberato della stessa. Il mancato invio del verbale comporta anche l’impossibilità di impugnarlo. Quindi, in caso di richiesta al Tribunale di nomina dell’amministratore giudiziario, verrebbe senz’altro opposto dalla difesa di chi amministra, qualche certificato medico fittizio e, naturalmente, il verbale di assemblea mai inviato ai comunisti e indicante sicuramente il rinnovo dell’incarico all’attuale “amministratore”. E’ facile immaginare che di fronte a questo verbale il Tribunale non provvederebbe alla nomina dell’amministratore giudiziario e, per di più, la difesa di controparte, potrebbe obiettare che il verbale stesso non sia stato mai impugnato (a quel punto probabilmente, poco importerebbe al giudice che non sia stato mai spedito, o spedito con enorme ritardo e solo a causa già avviata). Tutto questo imporrebbe una riflessione su quanto sia disastrosa la normativa italiana relativa alla gestione delle comunioni dei beni, che ammette questo tipo di amministrazioni catastrofiche. Basti solo dire che in questi casi la nomina dell’amministratore è attribuita sempre all’assemblea e che non esiste un tempo limite entro il quale chi amministra debba inviare i verbali contenenti i deliberati della stessa. Quindi, tenendo conto che, a questo punto, il verbale dell’assemblea di Ottobre 2022 e gli utili da liquidare a me e mia madre per l’anno 2021 (e, in seguito, per tutti gli anni successivi fino a definitiva divisione delle proprietà) non arriveranno mai, con questo nuovo quesito vi chiedo qualche informazione per tentare di sbloccare nuovamente la grave situazione in cui ci troviamo e che sembrerebbe destinata a risolversi solo con lo scioglimento delle comunioni non in tempi brevi. E’ ipotizzabile da parte vostra la richiesta di nomina di un amministratore giudiziario per le operazioni non svolte dall’amministratore nominato in sede di assemblea, nonostante tutti i problemi indicati (in particolare il rinnovo della nomina con verbale di assemblea mai inviato ai comunisti)? E qualora fosse possibile, sarebbe ipotizzabile a vostro avviso una richiesta di nomina dello stesso anche per le operazioni ricorrenti nel corso degli anni (in particolare corretta rendicontazione e liquidazione degli utili) o è da escludersi una nomina di un amministratore esterno per più anni? Infine, secondo voi, sussistono i presupposti per una denuncia per truffa e appropriazione indebita e per un’eventuale richiesta di custodia giudiziaria dei beni immobili?
Come la volta scorsa mi scuso per la lunghezza, vi ringrazio anticipatamente per la risposta e resto a disposizione per qualsiasi chiarimento.
Cordialmente”
Consulenza legale i 21/11/2022

La questione sottoposta nel quesito riguarda una asserita mala gestione da parte dell’amministratore della comunione, che pare essere anche un compartecipe della comunione ereditaria unitamente ai fratelli.
È già stata intrapresa un’azione giudiziaria per sciogliere la comunione ma ci si interroga su quali altri strumenti giuridici si possano utilizzare per indurre o ordinare all’amministratore di eseguire il suo ruolo correttamente garantendo a tutti i compartecipi di godere, allo stesso modo, dei frutti dei beni in comunione.

L’art. 1105 c.c. comma 4 c.c. prevede che in caso di inerzia nella gestione dei beni comuni da parte dell’assemblea, dell’amministratore o di mancata esecuzione della delibera, ciascun partecipante possa adire l’autorità giudiziaria eventualmente anche chiedendo la nomina di un amministratore.
I decreti emessi dal Tribunale in camera di consiglio hanno natura di volontaria giurisdizione e possono essere revocati o modificati in ogni tempo o reclamati davanti alla Corte d’Appello.

L’amministratore giudiziario assume il ruolo di mandatario a cui vengono assegnati i poteri e i compiti da parte del giudice di amministrare i beni oggetto di comunione.

In caso di assoluta mancanza di un amministratore, questo può essere nominato ad interim finché l’assemblea non deliberi scegliendo un proprio amministratore.
Qualora invece un amministratore ci sia ma non abbia adottato i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune, verrà nominato un amministratore giudiziario con mandato speciale limitato al compito da svolgere.

Si rammenta che i provvedimenti giudiziari vengono adottati sulla base di esigenze specifiche concrete e provate, non essendo sufficiente al fine di ritenere soddisfatto l’onere della prova, la semplice asserzione di aver eseguito un determinato compito o dovere derivante dal proprio ruolo o dalla delibera dell’assemblea dei compartecipi.

Nel caso di specie, quindi, il mancato rispetto delle disposizioni del regolamento di gestione (mancata liquidazione degli utili della comunione) costituisce un’inerzia dell’amministratore e può a parere dello scrivente essere proposto come motivo per la nomina di un amministratore giudiziario ai sensi dell’art. 1105 comma 4 c.c.

È chiaro che non è possibile sapere a priori se, al momento della ricezione del ricorso, l’amministratore e compartecipe attuale non esegua correttamente il proprio compito vanificando il deposito dell’atto.
È pur sempre vero che se l’obiettivo è avere la liquidazione degli utili e un maggior rispetto dei diritti della minoranza, adire l’autorità giudiziaria come extrema ratio diventa strumento utile per difendere i propri interessi.

Rimane sempre possibile, per il compartecipe, impugnare la delibera dell’assemblea ai sensi dell’art. 1109 del c.c. con un procedimento contenzioso davanti al Tribunale competente.

Fermo restando le considerazioni di ordine civilistico esposte, passiamo al fronte penale.

Prima, però, occorre fare una premessa.

Agire sul fronte penale può di certo essere utile (spesso, infatti, il timore dell’azione induce la controparte a osservare un comportamento corretto pur di non incorrere in un processo e nell’ipotetica condanna) ma è altrettanto certo che l’azione medesima non produrrà alcun effetto sul fronte strettamente giuridico e funzionale a rimediare alle scorrettezze gestionali emarginate nella richiesta di parere.
Come noto, infatti, il procedimento penale si occupa solo della sussistenza del reato e della punibilità del reo e i casi in cui a ciò si aggiungono altri rimedi sono rarissimi.

Ciò detto, di certo nella questione all’attenzione non ricorre il reato di truffa.
L’ art. 640 del c.p. è un reato estremamente particolare nell’ambito del quale il danno patrimoniale in capo alla persona offesa dal reato deve essere susseguente ad un atto di disposizione compiuto dalla persona offesa medesima, soggiogata dagli artifizi e/o dai raggiri.
Tale scenario non è quello che si prospetta nel caso di specie.

Stando a quanto narrato, invero, l’amministratore ha osservato – e continua a osservare – una condotta sostanzialmente omissiva tramite la quale è possibile che questi si sia appropriato degli utili che avrebbe dovuto liquidare entro il gennaio 2022.
Tale condotta sembra essere sussumibile nell’alveo del reato di appropriazione indebita, previsto e punito dall’ art. 646 del c.p..
In effetti, nella fattispecie in questione incorre qualsiasi soggetto il quale, essendo in possesso (con ciò intendendosi una disponibilità liberà ed esclusa dalla sfera di sorveglianza immediata del proprietario) del denaro o del bene altrui, se ne appropri, comportandosi come fosse il reale titolare del bene o del denaro predetto.
Tutte le circostanze sopra emarginate potrebbero ricorrere nel caso di specie.
L’amministratore, infatti, di certo può vantare una sfera di possesso autonoma degli utili non ancora convogliati ai legittimi proprietari sensibile per l’appropriazione indebita; a ciò va aggiunto che l’inerzia dallo stesso tenuta soprattutto sul fronte della spartizione degli utili in questione potrebbe essere indice dell’impossessamento di cui si è detto.

Il problema è di ordine probatorio.

Vero è che, almeno in astratto, i presupposti dell’appropriazione indebita potrebbero ricorrere, ma è anche vero che, in un caso del genere, i confini tra il penale e una condotta scorretta sotto il fronte strettamente civilistico sono labili.
Questo per dire che, prima di ricorrere allo strumento penale, bisogna essere certi che la condotta dell’amministratore abbia raggiunto dei profili di patologia non altrimenti spiegabili e difficilmente inquadrabili in una condotta infedele dal punto di vista civilistico.
Occorrerebbe, in altre parole, che l’inerzia dell’amministratore, assieme ad altri elementi e circostanze, possa lasciare supporre che questi abbia agito col dolo (diritto penale) tipico dell’appropriazione indebita.

Conseguentemente, pur essendo in astratto corretta la strada dell’appropriazione indebita, si sconsiglia di procedere in autonomia essendo piuttosto necessario rivolgersi a un buon professionista che, analizzata la complessiva dinamica dei fatti nel dettaglio, sia in grado di calare adeguatamente il fatto nell’archetipo previsto dall’articolo 646 del codice penale.
Ciò anche per escludere la sussistenza di eventuali casi di non punibilità dovuti alla parentela espressamente previsti dall’ art. 649 del c.p..


C. D. B. chiede
mercoledì 14/09/2022 - Veneto
“Spett. studio Brocardi
posseggo in comproprietà con mia sorella un appartamento di cui la mia quota è del 25% e mia sorella possiede il 75%.
Il contratto di locazione in essere è in scadenza ma io non voglio rinnovarlo all'attuale inquilino perchè sempre in ritardo con gli affitti e le spese, anche di anni.
Se io non sono d'accordo di affittarlo anche se sono in minoranza come percentuale di proprietà può mia sorella affittarlo lo stesso?
Saluti”
Consulenza legale i 21/09/2022
La soluzione al presente quesito va ricercata nelle norme in materia di comunione, e precisamente nell’art. 1105 c.c., commi 1 e 2, che rispettivamente stabiliscono quanto segue:
  1. tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell'amministrazione della cosa comune;
  2. per gli atti di ordinaria amministrazione le deliberazioni della maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote, sono obbligatorie per la minoranza dissenziente.
Sulla questione, la giurisprudenza (si veda ad esempio Cass. Civ., Sez. III, 11/05/2005, n. 9879) ha, da un lato, ribadito il principio della concorrenza di pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari, il quale comporta che il contratto di locazione può essere stipulato, in linea di massima, da un singolo condomino; ciò vale, però, “in difetto di prova contraria”. Dunque, spiega la Cassazione, “la legittimazione del singolo condomino, comproprietario del bene locato, viene meno nel caso in cui risulti l'espressa e non superabile volontà contraria degli altri comproprietari, poiché in tal caso viene a cadere il presunto consenso della maggioranza”.
Ancora, secondo Cass. Civ., Sez. III, 04/06/2008, n. 14759, “per vincolare i comunisti agli atti non stipulati dalla maggioranza, occorre, in ogni caso, che gli stessi vi prestino consenso. Infatti, per gli atti di ordinaria amministrazione, tra cui quelli indicati dall'art. 374 del c.c., poiché l'esercizio da parte del singolo della facoltà di amministrare la cosa comune può collidere con quello analogo degli altri, ai sensi del secondo comma della norma citata, la potestà di disporre spetta alla maggioranza delle quote, la cui volontà vincola la minoranza”.
Concludendo, se - come nel caso in esame - il comproprietario dell'immobile, titolare della quota di maggioranza, manifesta la propria opposizione rispetto alla conclusione di un contratto (come la locazione), l’altro comproprietario non potrà efficacemente stipularlo.
Si consiglia naturalmente, a scanso di equivoci, di comunicare per iscritto, a mezzo raccomndata A.R. o PEC, all'altra comproprietaria la volontà di non locare l’immobile.

F. C. chiede
domenica 05/12/2021 - Estero
“Salve. Un immobile commerciale adibito ad hotel ed uno a negozio (accorpato nel contratto all’hotel), contratto a scadere il 1/5/2025 (fine del secondo novennio, quindi fine contratto). I proprietari sono 8, con quote differenti.

Chi può dare la disdetta? Un singolo proprietario, la maggioranza o solo tutti quanti all’unanimità?

Grazie”
Consulenza legale i 15/12/2021
In materia di contratto di locazione avente ad oggetto un immobile in comunione, già risalente giurisprudenza (Cass. Civ., 11/11/1985, n. 5518) aveva affermato che “ai fini di impedire il rinnovo del contratto di locazione è efficace la disdetta intimata da uno solo dei locatori, tanto più se dichiari di agire anche in nome e per conto degli altri”.
La giurisprudenza più recente ha precisato che "nelle vicende del rapporto di locazione, l'eventuale pluralità di locatori integra una parte unica, al cui interno i diversi interessi vengono regolati secondo i criteri che presiedono alla disciplina della comunione; sugli immobili oggetto di comunione concorrono, quindi, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri o quanto meno della maggioranza dei partecipanti alla comunione. Ne consegue che il singolo condomino può stipulare il contratto di locazione avente ad oggetto l'immobile in comunione e che ciascun condomino è legittimato ad agire per il rilascio del detto immobile, trattandosi di atto di ordinaria amministrazione per il quale deve presumersi sussistente il consenso già indicato, senza che sia necessaria la partecipazione degli altri” (Cass. Civ., Sez. III, 18/07/2008, n. 19929).
Sullo specifico tema della disdetta, oggetto del quesito, Cass. Civ., Sez. III, 19/09/2001, n. 11806 ha chiarito: “in tema di recesso dal contratto di locazione concernente un immobile oggetto di comunione, il principio della concorrenza di pari poteri gestori in tutti i comproprietari comporta che ciascuno di essi sia legittimato a dare disdetta del contratto e ad agire conseguentemente, nei confronti del conduttore, per il rilascio dell'immobile in recesso contro il conduttore, senza che sia configurabile una ipotesi di litisconsorzio necessario con gli altri comproprietari”.
Occorre tuttavia menzionare la possibilità che, in un eventuale giudizio, la controparte eccepisca e dimostri il dissenso della maggioranza dei partecipanti stessi (così Cass. Civ., Sez. III, 31/01/2008, n. 2399; Cass. Civ., Sez. III, 02/08/2004, n. 14772). Ciò potrebbe essere fatto, ad esempio, esibendo una dichiarazione firmata dalla maggioranza dei proprietari-locatori dove si dice che il contratto deve intendersi rinnovato.

C.L. chiede
martedì 21/09/2021 - Campania
“Edificio tornato da due piani: al pian terreno un locale commerciale, al primo piano l'unità abitativa. Due distinti proprietari quindi presumo un condominio minimo.
Il proprietario dell'unità abitativa segnala da anni la necessità di fare lavori di manutenzione dato che la trave portante del tetto è marcia causando infiltrazioni e dato che vi sono cadute di calcinacci dal tetto.
il proprietario del locale commerciale non ha mai voluto risolvere le questioni.
Il proprietario dell'unità abitativa ha provveduto a chiamare i vigili del fuoco per eliminare i pericoli di caduta di calcinacci e i vigli hanno prodotto un documento, notificato anche al comune, in cui affermavano che si rendevano necessari lavori strutturali e non di mera riparazione saltuaria.
Il legale del proprietario dell'unità abitativa si è rivolto al giudice il quale, nominando un perito, ha prodotto una perizia tecnica in cui oltre ai lavori da farsi ha anche stabilito i millesimi (mai stabiliti prima).

Dopodiché in via extragiudiziale il legale del proprietario del locale commerciale ha fissato un incontro per discutere sul da farsi.
il legale dell'abitante ha deciso di partecipare all'incontro nonostante vi siano urgenze constatate pur di non sembrare litigioso agli occhi di un ipotetico altro giudice qualora si rendesse necessario.

Venendo al punto: siccome il proprietario dell'unità abitativa ha intenzione di eliminare quanto prima i pericoli e allo stesso tempo vuole usufruire del bonus 110% per i lavori necessari e pure per altri lavori che non ricadono nel bene comune, quale sarebbe la strada maestra?

Come bisognerebbe rivolgersi al giudice (dato che nel condominio minimo non si raggiunge unanimità dato che si continua a rinviare) per poter eliminare subito i pericoli e non perdere il beneficio economico del 110%?

Ringrazio in anticipo”
Consulenza legale i 11/10/2021
Il condominio minimo è spesso fonte di litigi di questo tipo, in quanto o i due proprietari trovano un accordo circa l’amministrazione dello stabile oppure si giunge, come in questo caso, alla piena paralisi con conseguenze sicuramente dannose per le proprietà coinvolte.
Pertanto, la strada principale e più idonea a tutelare gli interessi in gioco, è quella di partecipare all’incontro a cui si è invitati dalla controparte non “così tanto per fare”, ma animato da un serio spirito costruttivo e transattivo, coltivando diligentemente questo tentativo fino al raggiungimento di un accordo. Tra l’altro, il fatto che un provvedimento giudiziario abbia certificato l’urgenza dei lavori, e quindi indirettamente si sia accertato un torto della controparte la quale (guarda il caso) per prima ha avuto l’iniziativa conciliativa, deve essere uno sprone a coltivare tale possibilità fino al raggiungimento di un accordo. Questa è la strada maestra per non farsi scappare neppure il bonus 110%, opportunità che si è convinti non durerà all’infinito.

Se tale tentativo dovesse fallire, rimangono due strade.
La prima è quella di ricorrere all’art. 1134 del c.c. Tale articolo in caso di spesa urgente relativa alla manutenzione delle parti comuni dell’edificio, riconosce al singolo proprietario il diritto di compiere tali interventi a sue spese, salvo poi richiedere il rimborso di quanto sostenuto agli altri condomini.
Tale soluzione ha sicuramente il vantaggio di permettere la realizzazione dei lavori, salvo poi dover sostenere un molto probabile contenzioso con l’altro proprietario per il riconoscimento del rimborso. Tale ultimo problema potrebbe, tra l’altro, essere in parte superato se si potesse accedere ai noti bonus fiscali, ma il quesito non offre sufficienti spunti per poter approfondire tale ultima ipotesi.

Se non si vuole intraprendere questo percorso, l’unica alternativa, dando per presupposto che ogni tentativo di conciliazione è andato deserto, è quello di ricorrere al giudice ai sensi del 4° co. dell’art. 1105 del c.c. Tale norma dispone che se i comproprietari non adottano i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune, ciascun partecipante alla comunione può ricorrere alla autorità giudiziaria, la quale, sostituendosi ai proprietari litigiosi, prenderà lei le decisioni più idonee e all’ uopo nominerà un amministratore che li esegua.
Seppur il procedimento descritto sia svolto in camera di consiglio e quindi caratterizzato da una certa speditezza, si consiglia di intraprendere tale strada solo come ultima spiaggia, in quanto porterà sicuramente un allungamento delle tempistiche e seppur si otterrà un provvedimento che indicherà i lavori che si dovranno svolgere, non sempre si ha la certezza su come esso verrà poi concretamente realizzato.

Tra l’altro, l’amministratore nominato dal giudice si troverà anche lui nella esigenza di convocare i proprietari in assemblea e richiedere e quindi riscuotere le somme necessarie per realizzare i lavori. Ma se i due condomini continueranno a litigare e a non essere collaborativi, difficilmente l’amministratore porterà agevolmente a termine il compito che gli è stato affidato.


S.B. chiede
mercoledì 14/07/2021 - Toscana
“I miei genitori erano proprietari, in comunione dei beni, di un’abitazione unifamiliare indipendente (villino).
Mia madre è morta nel 1997. Gli eredi risultavano essere il marito e i due figli.
E’ caduta in successione il 50% dell’abitazione, in pari percentuale tra i coeredi (1/3 a testa, quindi 1/6 a testa della proprietà totale).
Le quote di proprietà sono quindi risultate essere:
• mio padre : 4/6 (3/6 per comunione dei beni e 1/6 per quota erede);
• io : 1/6 per quota erede;
• mio fratello: 1/6 per quota erede.
Nel 2000 mio padre mi ha venduto la quota di sua proprietà (3/6), in corso di causa di divisione ereditaria.
In tal modo le quote risultavano così modificate:
• mio padre : 1/6 per quota erede);
• io : 4/6 (3/6 per acquisto da mio padre e 1/6 per quota erede);
• mio fratello: 1/6 per quota erede.
Mio padre è morto nel 2004, nominandomi erede dei sui beni.
La situazione aggiornata (come risulta anche da visura catastale) è quindi:
• io : 5/6 (3/6 per acquisto da mio padre, 1/6 per quota erede da mia madre, 1/6 per quota erede da mio padre);
• mio fratello: 1/6 per quota erede.
Con sentenza di primo grado (anno 2003), confermata in appello (anno 2019) ma ancora pendente in cassazione, il giudice assegnava a me la proprietà completa del bene dietro corrispettivo da versare agli altri eredi.
Nel 2013, mio fratello vendeva la sua quota di 1/6 alla figliastra (figlia di sua moglie).
In definitiva, in attesa della sentenza di cassazione, la situazione è la seguente:
Sergio (io) : proprietario per 5/6;
Francesca (figliastra di mio fratello) : proprietaria per 1/6.
L’abitazione risulta abbandonata dalla morte di mio padre (2004) e necessità di importanti lavori di manutenzione straordinaria (tetto, solai, ecc.).

Domanda:
In quanto detentore della maggioranza delle quote di immobile ereditario indiviso e in presenza di un erede che ha venduto le sue quote (mio fratello), sono autorizzato a presentare la SCIA in Comune, per procedere con i lavori di ristrutturazione, e, in caso affermativo, che procedura devo seguire per la comunicazione ai comproprietari?

Devo convocare in assemblea i comproprietari (mio fratello, che risulta erede per 1/3, o la figliastra, che ha acquistato il suo terzo, o entrambi?) o è sufficiente che comunichi la mia intenzione a entrambi, detenendo la maggioranza delle quote?
La decisione presa a maggioranza delle quote (in pratica decido io) è titolo sufficiente per presentare la SCIA in Comune?
Mi dice un geometra, interpellato in merito, che per presentare la SCIA occorre il consenso di tutti i comproprietari. Ma questo andrebbe contro l’obbligo, sancito dall’art. 1104 c.c., della conservazione della cosa comune.
Ringrazio e rimango in attesa di Vs. risposta.”
Consulenza legale i 26/07/2021
Da un punto di vista del diritto civile, per procedere ai lavori è necessario ai sensi dell’art.1105 del c.c. convocare l’assemblea dei proprietari, inviando una raccomandata all’altro partecipante (la figliastra con la quota minoritaria di 1/6), con la quale lo si informa: della volontà di procedere alla realizzazione dei lavori, del giorno, luogo e ora in cui avrà luogo la assemblea. Con ogni probabilità l’altro proprietario non risponderà alla convocazione, o anche se si presenterà esprimerà il suo voto contrario alla realizzazione delle opere: ciò, inevitabilmente causerà una paralisi nella gestione della cosa comune.

E’ necessario puntualizzare, infatti, che anche se si detiene la maggioranza delle quote ciò non è sufficiente per procedere alla realizzazione dei lavori.
L’art. 1108 del c.c. richiede per approvare lavori di straordinaria amministrazione innanzitutto la maggioranza per teste dei partecipanti, la quale poi deve essere espressione di almeno 2/3 del valore dell’edificio. Nel caso in cui però la comunione sia composta da solo due partecipanti (come in questo caso), non è mai possibile raggiungere una maggioranza: infatti, o i due proprietari si trovano d’accordo nei lavori da eseguire, oppure uno dei due facendo mancare il proprio consenso lascia l’altro con il “cerino in mano” impedendo di fatto che si formi una maggioranza.

Questo tipo di stallo è molto frequente nelle comunioni con soli due partecipanti ma con un alto tasso di litigiosità e può essere superato solo ricorrendo alla autorità giudiziaria.
L’ ultimo comma dell’art.1105 del c.c. dispone che se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria, la quale provvede in camera di consiglio e può se del caso nominare un amministratore.

La paralisi nelle decisioni amministrative rende sicuramente difficoltosa e lenta la gestione del bene, tuttavia se l’unità immobiliare versa in condizioni di degrado tale per cui sia messa a repentaglio la stessa consistenza del bene o comunque vi sia pericolo anche per la sicurezza dei terzi (rischio crolli e similari), la normativa sulla gestione di affari altrui interpretata assieme all’art.1110 del c.c. autorizza uno dei partecipanti a prendere autonomamente tutte le iniziative necessarie per mettere in sicurezza il bene. Rimane salvo il diritto di richiedere ai sensi dell’art.1110 del c.c. il rimborso di quanto speso agli altri proprietari. Una volta messo in sicurezza il bene, rimane comunque fermo l’obbligo di convocare l’assemblea affinché la stessa possa prendere le decisioni conseguenti.

Dal punto di vista, invece, dei rapporti con il Comune, si nota che in via generale il titolo edilizio può essere richiesto dal proprietario o da chi abbia titolo per richiederlo (art. 11 T.U. Edilizia).
Pertanto, la legittimazione non è fondata soltanto sul diritto di proprietà, ma può anche derivare da altri rapporti giuridici di natura reale o obbligatoria che attribuiscano al titolare la facoltà di realizzare interventi sull’immobile (ex multis, T.A.R. Salerno, sez. II, 08 ottobre 2018, n. 1388).
Per quanto riguarda i controlli demandati alla P.A. circa la concreta sussistenza di tale requisito, la giurisprudenza ritiene che il Comune abbia sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando se egli sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o se, comunque, abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria, fermo restando che la pubblica amministrazione non è tenuta a svolgere una preliminare istruttoria che si estenda fino alla ricerca d'ufficio di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente (Consiglio di Stato sez. II, 12 febbraio 2021, n. 1294; T.A.R. Catanzaro, sez. I, 12 ottobre 2020, n. 1594).
L’indagine, dunque, non è rivolta in via principale a risolvere i conflitti di interesse di natura privatistica, ma risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare la legittimazione del richiedente.

Il caso della comproprietà è quello che –per chiare ragioni- ha dato luogo negli anni a molteplici contenziosi, rispetto ai quali la giurisprudenza non sempre è univoca.
Concentrandosi sui casi simili a quello oggetto del quesito e tralasciando le fattispecie di comunione che qui non rilevano, come ad esempio la comunione dei beni tra coniugi o il condominio, si rileva che le decisioni in materia tendono ad affermare che il singolo comproprietario sia legittimato solo laddove la situazione di fatto consenta di supporre l'esistenza di un "pactum fiduciae" intercorrente con gli altri comproprietari (Consiglio di Stato, sez. IV, 7 settembre 2016 n. 3823, Consiglio di Stato, sez. V, 05 giugno 1991, n. 883).

In mancanza, specialmente nel caso di opere che possano incidere sui diritti degli altri comproprietari, la P.A. può dunque legittimamente chiedere il consenso degli stessi, che può essere manifestato anche per fatti concludenti (T.A.R. Napoli, sez. IV, 13 dicembre 2018, n. 7167; T.A.R. Napoli, sez. II, 07 giungo 2013, n. 3019).
La stessa conclusione vale anche per l’ipotesi in cui vi sia un dissenso tra i vari soggetti interessati (Consiglio di Stato sez. VI, 24 luglio 2020, n. 4745; Consiglio di Stato sez. VI, 04 settembre 2012, n. 4676).

In conclusione, visto quanto sopra in merito ai profili di tipo civilistico, nonché soprattutto la pendenza della causa contro gli altri coeredi, pare necessario anche sotto l’aspetto edilizio che la presentazione della SCIA avvenga con l’assenso della comproprietaria.


MARCO G. L. chiede
lunedì 26/04/2021 - Lazio
“IL quesito riguarda un vecchio contratto di locazione commerciale in atto dal 1994 e che prosegue fino al10 maggio 2024, regolarmente registrato in agenzia delle entrate e regolarmente rinnovato di sei anni in sei anni, con pagamenti annuali di imposta regolari.
Il conduttore è una persona fisica che usa il locale accatastato come C3 ad uso negozio di rivendita al dettaglio di generi di abbigliamento. I proprietari che sono anche coloro che lo hanno affittato sono tre fratelli. Il contratto di affitto è registrato a nome di tutti e tre anche se per i rinnovi annuali tramite F24 predeterminato, si usano le generalità di uno dei tre. La domanda è questa: può, uno solo dei tre fratelli, in evidente disaccordo con almeno uno degli altri due, da solo, entro il 10 maggio 2023, come prescrive la legge ed usando i mezzi di legge, rendere noto al conduttore che dall'11 maggio 2024 dovrà uscire dal negozio e restituire le chiavi? In alternativa, possono due dei tre fratelli fare l'azione sopra esposta, oppure non si può perché serve l'unanimità tre su tre?”
Consulenza legale i 03/05/2021
Secondo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza della Corte di Cassazione, nel caso in cui l’immobile locato appartenga a più proprietari, ciascun comproprietario può agire in giudizio per ottenere il rilascio dell'immobile per finita locazione, trattandosi di un atto di ordinaria amministrazione della cosa comune per il quale si deve presumere che sussista il consenso degli altri comproprietari o quanto meno della maggioranza dei partecipanti alla comunione: così ad esempio si è espressa Cass. Civ., Sez. III, 13/07/1999, n. 7416.
Anche la più recente Cass. Civ., Sez. III, n. 19929/2008 ha ribadito che “nelle vicende del rapporto di locazione, l'eventuale pluralità di locatori integra una parte unica, al cui interno i diversi interessi vengono regolati secondo i criteri che presiedono alla disciplina della comunione; sugli immobili oggetto di comunione concorrono, quindi, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri o quanto meno della maggioranza dei partecipanti alla comunione. Ne consegue che il singolo condomino può stipulare il contratto di locazione avente ad oggetto l'immobile in comunione e che ciascun condomino é legittimato ad agire per il rilascio del detto immobile, trattandosi di atto di ordinaria amministrazione per il quale deve presumersi sussistente il consenso già indicato, senza che sia necessaria la partecipazione degli altri”.
Il principio della parità di poteri gestori dei comproprietari si ritrova anche in Cass. Civ., Sez. III, n. 14772/2004: “in tema di cessazione, recesso o risoluzione di contratti aventi ad oggetto l'utilizzazione economica dell'immobile oggetto di comunione [...], vige il principio della concorrenza dei pari poteri gestori in tutti i comproprietari, in forza del quale ciascuno di essi è legittimato ad agire, anche in giudizio - e senza che sia all'uopo necessaria una autorizzazione degli altri compartecipi, contro chi pretenda di avere un diritto di godimento sul bene, sulla base della comunanza di interessi tra tutti i partecipanti alla comunione e della conseguente presunzione di un loro consenso all'iniziativa volta alla tutela di detti interessi, salvo che si deduca e si dimostri, a superamento di tale presunzione, il dissenso della maggioranza dei partecipanti stessi".
Quanto sin qui affermato vale, però, nei rapporti “esterni”, tra comproprietari dell’immobile locato, da una parte, e conduttore (o conduttori) dall’altra.
Invece nei rapporti interni tra comproprietari è inevitabile fare riferimento alla disciplina propria della comunione, in particolare al disposto dell’art. 1105 c.c., comma 2, secondo cui per gli atti di ordinaria amministrazione le deliberazioni della maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote, sono obbligatorie per la minoranza dissenziente. Dunque per la stipula di contratti di locazione, così come per la gestione delle vicende relative al rapporto che ne consegue (ivi compresa la disdetta), occorre il consenso della maggioranza dei partecipanti alla comunione. Invece, per le locazioni di durata superiore a nove anni è necessaria addirittura l’unanimità, ai sensi dell’art. 1108, comma 3 c.c.
Tali principi sono stati chiaramente enunciati dalla giurisprudenza; si veda, sul punto, Cass. Civ., Sez. III, n. 8085/1995: “il potere di ogni condomino di agire per la gestione ordinaria della cosa comune, traendo origine dal diritto di concorrere all'amministrazione di tale bene (art. 1105 c.c.), incontra il suo limite nell'obbligo di rispettare la volontà della maggioranza. Pertanto, allorché un immobile locato appartenga ad una molteplicità di condomini e dagli stessi sia congiuntamente stipulato il relativo contratto, è la maggioranza dei condomini a stabilire circa l'amministrazione ed il godimento della cosa comune e, quindi, della possibilità e volontà di disdire e far cessare, alla scadenza contrattuale, il contratto di locazione, anche in contrasto con la minoranza dissenziente”.
Ancora più esplicita in materia Cass. Civ., Sez. III, n. 14759/2008: “il potere di concorrere nell'amministrazione della cosa comune statuito dal primo comma dell'art. 1105 cod. civ. può, nei confronti dei terzi, indurre a ritenere che chi agisce per la comunione la rappresenti ma, per vincolare i comunisti agli atti non stipulati dalla maggioranza, occorre, in ogni caso, che gli stessi vi prestino consenso. Infatti, per gli atti di ordinaria amministrazione, tra cui quelli indicati dall'art. 374 cod. civ., poiché l'esercizio da parte del singolo della facoltà di amministrare la cosa comune può collidere con quello analogo degli altri, ai sensi del secondo comma della norma citata, la potestà di disporre spetta alla maggioranza delle quote, la cui volontà vincola la minoranza e, comunque, ciascun comunista, se ritiene di esserne pregiudicato, può ricorrere all'autorità giudiziaria, ai sensi del quarto comma del richiamato art. 1105 cod. civ., come nel caso in cui non si formi la volontà della maggioranza o non si deliberi sull'amministrazione della cosa comune”.
Nel nostro caso, pertanto, per stabilire se uno solo dei tre fratelli, in disaccordo con gli altri (o, viceversa, due dei comproprietari, in disaccordo col terzo) possano intimare la disdetta al conduttore, occorre aver riguardo al valore delle rispettive quote, come appunto previsto dal cit. art. 1105 c.c.
Se le quote sono uguali, è chiaro che un comproprietario non potrà decidere da solo di porre fine al contratto di locazione stipulato da tutti e tre, mentre due dei tre fratelli potranno, anche contro la volontà del terzo fratello, inviare la disdetta.
Se le quote non sono di pari valore, invece, occorrerà procedere al relativo calcolo per stabilire se vi sia o meno la maggioranza richiesta dall’art. 1105 c.c.

Fabrizio Z. chiede
sabato 23/05/2020 - Veneto
“Un edificio è costituito da due piani fuori terra, senza interrato.
Al piano terra sono presenti due abitazioni di categoria catastale A/7 ed una autorimessa C/6.
Tutto il primo piano è occupato da una abitazione A/7. Il primo piano ha superficie di poco superiore al piano terra.
La proprietà è di due fratelli, A e B, in disaccordo fra loro:
- A è proprietario dei due appartamenti e dell’autorimessa posti al piano terra,
- B è proprietario dell’appartamento posto al primo piano,
- sull’area di pertinenza del fabbricato è presente una tettoia adibita a rimessa di 4 posti auto (2 di A e 2 di B).

La proprietà è pervenuta ad A con donazione dal padre della nuda proprietà in data 19/12/1991 e, a seguito della morte del padre usufruttuario avvenuta il 17/3/2010, per riunione di usufrutto.
La piena proprietà è pervenuta a B con assegnazione a stralcio in data 19/12/1991.
L’edificio è stato costruito dal padre ed ultimato nel 1975, anno in cui la famiglia (padre, madre e due figli) vi si è trasferita.
Nel 1982 il figlio A si è sposato e, con la moglie (e in seguito con un figlio), si è trasferito in uno dei due appartamenti del piano terra e vi ha abitato fino al 1992, quando si è trasferito altrove.
Il 7/10/1991 è deceduta la madre.
Nel 1993 si è sposato il figlio B e, con la moglie e il padre (e in seguito con due figli), ha continuato a vivere nella casa di famiglia, divenuta di sua proprietà. Anche se legalmente l’abitazione era di B, “moralmente” era del padre che continuava a pagare per intero tutte le utenze, le spese di casa e spesso la spesa anche per la famiglia di B.
Negli ultimi mesi di vita del padre, affetto da leggera demenza senile, B lo ha fatto trasferire in uno degli appartamenti di A al piano terra assieme ad una badante, senza il consenso di A che però non vi si è opposto. Questo ha provocato, probabilmente, l’aggravarsi della malattia del padre, fino al decesso avvenuto il 17/3/2010.

Per la concezione unitaria dell’edificio (al primo piano l’abitazione di famiglia, al piano inferiore due appartamenti con finiture più scadenti destinati a produrre un reddito d’affitto, ed un’autorimessa in parte destinata a centrale termica di entrambi i piani) oggi non sono ben divise le varie utenze:
- nell’autorimessa del piano terra si trovano tutti i contati Enel, l’unico (per tutta la casa) contatore acquedotto prima intestato al padre e, alla sua morte, a B (tre sottocontatori privati consentono di ripartire le spese) ed un decalcificatore dell’acqua potabile a servizio di tutto l’edificio;
- parte dell’autorimessa è adibita a centrale termica (non a norma) ove si trova la caldaia a servizio di B (si tratta della caldaia inizialmente a servizio di tutta la casa) ed una delle due caldaie degli appartamenti del piano terra; l’altra è nell’attiguo garage;
- sulla recinzione è posto il contatore del gas e quando, occasionalmente, uno degli appartamenti del piano terra (generalmente sfitti) viene per qualche mese affittato, B determina “a stima” il consumo di quell’appartamento e si fa rimborsare dall'inquilino.

Ora B sostiene che l’edificio sia un condominio e vorrebbe che venisse nominato un amministratore e che questi predisponga le tabelle millesimali ed il regolamento condominiale, gestisca le spese e le ripartisca tra A e B.
Nel calcolo dei millesimi, se si tiene conto delle superfici, B avrebbe la maggioranza; se si tiene conto delle rendite catastali o del numero delle unità immobiliari A/7 la maggioranza l’avrebbe A.

Inoltre B sostiene di aver acquisito per usucapione la proprietà (o almeno il 50% di questa) dello stanzino al piano terra ove è posta la sua caldaia, oltre ad altra caldaia a servizio di uno degli appartamenti di A.

Sono quindi cortesemente a chiedere:
1) allo stato attuale l’edificio (composto da 3 abitazioni e pertinenze) è un condominio?
2) attualmente quali leggi regolano la gestione delle parti comuni dell’immobile?
3) uno dei proprietari può pretendere che si costituisca un condominio “effettivo”, con regolamento condominiale, tabelle millesimali ed amministratore (persona terza)?
4) il fratello B può pretendere che A concorra alle spese di manutenzione straordinaria?
5) è possibile stabilire a priori quali criteri eventualmente seguire nella definizione dei millesimi o comunque vale la regola della “doppia maggioranza” e in questo caso A (con due A/7, contro una di B) avrebbe sempre la maggioranza?
6) il fratello B può vantare dei diritti (di proprietà, d’uso, …) sullo stanzino ove si trova la sua caldaia (ma non solo quella) o addirittura sull'intero garage ave si trovano anche il suo contatore Enel ed il contatore acquedotto di tutti?
7) B può pretendere di mantenere questi diritti se esistono soluzioni semplici (con costi eventualmente a carico di A) per liberare autorimessa e attiguo stanzino dalle varie servitù?
8) i contatori/allacciamenti alle utenze comuni, inizialmente realizzati dal padre e tuttora a servizio di tutto l’edificio, ora intestati a B, sono di sua esclusiva proprietà o di entrambi? Questo per definire a chi spettino gli eventuali costi per il loro spostamento all’esterno
9) il fratello A ha ancora qualche diritto sui mobili (di design) e gli arredi (in particolare i quadri) dei genitori, rimasti nell'appartamento ora di B?

Resto a disposizione qualora abbiate necessità di atti o documenti a chiarimento.
Ringrazio e porgo cordiali saluti.”
Consulenza legale i 30/05/2020
Premessa (domanda 1 e 2)

La giurisprudenza in maniera assolutamente costante e uniforme, ha più volte ribadito come il condominio, e la conseguente applicabilità della relativa disciplina, si ha nel momento in cui nel medesimo edificio vi è la compresenza di parti in proprietà esclusiva e parti in proprietà comune tra tutti i condomini, aventi con le prime un rapporto di accessorietà. In altre parole, per aversi il condominio non è necessario alcun “atto costitutivo” da parte dei proprietari in quanto gli stessi hanno l’obbligo di riunirsi in assemblea per il semplice fatto che nel palazzo vi è questa compresenza tra parti in comune e parti in proprietà esclusiva.

A questo principio fondamentale del diritto condominiale non sfugge neppure il condominio minimo, ovvero il condominio composto da due proprietari, anche se la presenza di soli due componenti rispetto a condomini con un numero maggiore di partecipanti, comporta alcune differenze in merito alla normativa applicabile.
Venendo a trattare il caso di specie, il fatto che A sia unico ed esclusivo proprietario dei due appartamenti e dell’autorimessa posti al piano terra, e che B sia unico ed esclusivo proprietario dell’appartamento posto al primo piano comporta che l’edificio nel suo complesso deve considerarsi un condominio, quindi deve trovare sicuramente applicazione la relativa normativa del codice prevista agli artt. 1117 e ss. del c.c., però con i distinguo che si andranno di seguito ad illustrare.

Il funzionamento della assemblea condominiale nel condominio minimo (domanda n.5)

Ciò che ha creato maggiore contenzioso a proposito del condominio composto da soli due proprietari è proprio le modalità di funzionamento dell’organo assembleare. Il contenzioso è stato talmente acceso che ha comportato l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali con la nota sentenza n. 2046 del 31.01.06 hanno chiarito che l’art. 1136, norma che regola il funzionamento della assemblea di condominio, è operante anche in condomini composti da soli due proprietari. Spiegano le Sezioni Unite che, a differenza di altre disposizioni di cui si parlerà in seguito, l’applicazione dell’art. 1136 del c.c. non è stata limitata dal legislatore a condomini composti da un certo numero di proprietari, potendo quindi operare anche in condomini composti da solo due partecipanti.
Le Sezioni Unite chiariscono che se all’interno dell’assise i due proprietari non raggiungono un accordo unanime, trova applicazione la normativa della comunione ordinaria, ed in particolare l’art. 1105 del c.c. resa applicabile nel condominio dal rinvio operato dall’art.1139 del c.c.

Per la verità, la soluzione adottata dalle Sezioni Unite, se sicuramente corretta da un punto di vista teorico, pecca di uno scarso senso pratico. Come è noto, infatti, i quorum deliberativi previsti dall’art. 1136 del c.c. sono sempre composti da una doppia maggioranza per teste e millesimi. A titolo puramente esemplificativo, analizziamo il 2° co. dell’art. 1136 del c.c., esso dispone: "Sono valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti (maggioranza per teste n.d.r.) e almeno la metà del valore dell'edificio" (maggioranza per millesimi). Nel condominio composto da soli due condomini è impossibile raggiungere una maggioranza per teste in quanto, o i proprietari sono entrambi concordi sulle decisioni da prendere, ma allora in questo caso non si può parlare neppure di una delibera assembleare, trovandosi in costanza di un normalissimo accordo tra due comproprietari riguardanti il loro bene comune e disciplinato tuttalpiù dalle norme sul contratto, oppure i proprietari non trovano alcun accordo sull’amministrazione del bene comune. In questo secondo caso, la maggioranza non può formarsi: l’unica strada che rimane, pertanto, è quello di ricorrere alla Autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 1105 del c.c. Il comma 4° di tale ultimo articolo dispone: "Se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero, se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore".

Quindi, nel caso in cui i due proprietari non trovino un accordo unanime sull’amministrazione della cosa comune, il giudice può sostituirsi ai due litiganti, ovviamente sollecitato da uno dei proprietari, e può anche nominare un amministratore.
Per una corretta gestione delle parti comuni nel condominio minimo è quindi assolutamente consigliato trovare un accordo unanime tra i proprietari, poiché diversamente si rischia di avere una paralisi nella gestione dei beni comuni, dovendo poi ricorrere al giudice.

L’amministratore, il regolamento e le tabelle millesimali nel condominio minimo (domanda n.3)

L’art. 1105 del c.c., offre la possibilità di affrontare un altro aspetto importante del condominio minimo: la nomina di un amministratore terzo. L’ultima parte del comma 4° della norma in commento specifica che il giudice può anche nominare un amministratore; bisogna, però, stare attenti a non confondersi, in quanto l’amministratore della comunione a cui fa riferimento l’art. 1105 del c.c. è una figura differente rispetto all’amministratore del condominio. L’amministratore della comunione ha dei poteri molto più limitati, che gli derivano dal decreto di nomina dell’autorità giudiziaria: egli rimane in carica per un periodo limitato per compiere quelle attività amministrative che vengono indicate dal provvedimento del giudice.
I compiti dell’amministratore di condominio, invece, sono molto più ampi e sono puntualmente elencati dagli artt. 1129 e 1130 del c.c. Come è noto l’incarico dell’amministratore di condominio, ai sensi del co. 10 dell’art.1129 del c.c., ha una durata di un anno, tacitamente rinnovato di un ulteriore anno, ma, a seguito di apposite delibere da parte della assemblea, esso può essere rinnovato anche per periodi più lungi.

Se, come si è visto poco sopra, l’assemblea condominiale è un organo che, in linea teorica, dovrebbe essere presente secondo il codice civile anche nel condominio minimo, il medesimo discorso non può farsi per l’amministratore. Il co. 1° dell’art. 1129 del c.c. ci dice che la figura dell’amministratore di condominio deve essere obbligatoriamente presente in condomini composti da un numero maggiore di otto partecipanti, rimanendo la nomina del tutto facoltativa nel caso di piccoli condomini e quindi anche nel caso del condominio minimo. Nulla vieta, quindi, che i due proprietari del condominio minimo con decisione unanime nominino un amministratore con i poteri più ampi previsti dagli artt. 1129 e 1130 del c.c., ma se non c’è accordo tra i due l’unica strada è quella di compiere autonomamente l’amministrazione delle parti comuni, e se vi è disaccordo sul punto rivolgersi alla autorità giudiziaria, che come si è visto, può nominare ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1105 del c.c. un amministratore con compiti più specifici e limitati.

Un discorso in parte analogo può essere fatto anche a proposito del regolamento condominiale. L’art.1138 del c.c. ci dice che tale documento deve essere redatto obbligatoriamente in condomini con un numero superiore di dieci partecipanti. Anche in questo caso, però, non vi è alcun divieto che impedisca ai due proprietari del condominio minimo di dare incarico ad un professionista, nominato di comune accordo, per predisporre un regolamento, che ai sensi del 1° co. dell’art.1138 del c.c., contenga le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione. Assieme al regolamento potranno essere predisposte delle tabelle millesimali, utili per stabilire i criteri di riparto delle spese riguardanti parti comuni dell’edificio: anche se scarsamente utilizzate, non vi è alcuna norma che vieta di redigere le tabelle anche nel condominio di soli due componenti. Regolamento e tabelle così predisposte dovranno essere approvate da entrambi i proprietari, meglio se con accordo scritto.

La partecipazione alle spese (domanda n. 4)

Le Sezioni Unite della corte di Cassazione nella sentenza di cui si è già ampiamente parlato hanno chiarito una volta per tutte che il condominio minimo è un condominio a tutti gli effetti, e come tale non vi è motivo per non applicare le disposizioni del codice civile in materia di spese comuni. In particolare il 3° co. dell’art. 1118 del c.c. ci dice che: "Il condomino non può sottrarsi all'obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d'uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali.”
Applicando tale norma al caso prospettato, è chiaro che il fratello B può pretendere che A concorra alle spese di manutenzione siano esse ordinarie o straordinarie, ma, si faccia attenzione, attinenti solo alle parti comuni dell’edificio. Le spese che riguardano le singole unità immobiliari in proprietà esclusiva rimangono a carico del singolo condomino.
È giusto anche sottolineare come le Sezioni Unite abbiano chiarito che nel condominio minimo trovi applicazione l’art. 1134 del c.c. in forza del quale: "Il condomino che ha assunto la gestione delle parti comuni senza autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente". È quindi importante che ogni spesa sulle parti comuni sia preventivamente concordata tra i due. In forza dell’art. 1134 del c.c. se uno dei proprietari assume di propria iniziativa una spesa non preventivamente concordata sulle parti comuni, non avrà diritto ad alcun rimborso, a meno che tale spesa non abbia carattere di urgenza.

Per fare un esempio, si pensi al caso in cui l’edificio per vetustà necessiti di interventi urgenti nelle fondamenta, e i due proprietari non riescano a trovare un accordo su come effettuare l’intervento e su quale ditta incaricare. In questo caso l’art. 1134 del c.c. acconsente che uno dei due condomini si faccia carico dell’intervento, almeno per mettere in sicurezza l’edificio, e, visto l’urgenza, possa pretendere dall’altro il rimborso di quanto pagato, ovviamente limitatamente alla quota di competenza del proprietario rimasto inerte. L’art. 1134 del c.c. non può però trovare applicazione se la spesa assunta dal singolo condomino non rivesta il carattere dell’urgenza.

Le servitù e i contatori delle utenze comuni nel condominio minimo. (domande 6, 7, e 8).

Spesso le dinamiche del condominio minimo si svolgono in contesti familiari in cui l’edificio era in origine una unica casa appartenente ai genitori, che in un secondo momento hanno ceduto a ciascun figlio in proprietà esclusiva un piano della costruzione.
Ciò comporta che, a differenza di realtà condominiali più complesse, parti comuni e parti in proprietà esclusive siano molto spesso intrecciate l’una con le altre. Il condominio descritto nel quesito non sfugge a questa regola, anzi, ne costituisce un classico esempio in quanto si può dire che nella autorimessa di proprietà del fratello A sono presenti macchinari che hanno una chiara funzione condominiale: contatori, decalcificatori e due caldaie di cui una al servizio dell’appartamento del fratello B. Gli atti di cessione delle singole unità immobiliari ai due fratelli, non hanno avuto il solo effetto di far sorgere un condominio nell’edificio prima tutto di proprietà del padre, ma hanno anche automaticamente costituito dei diritti di servitù ai sensi degli art. 1027 e ss. del c.c. a carico della autorimessa di proprietà di A (fondo servente) e a favore degli appartamenti di proprietà di B (fondo dominante).

Tale servitù si è costituita per destinazione del padre di famiglia ai sensi dell’art. 1062 del c.c. La costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia si realizza quando vi sono due fondi, in questo caso l’autorimessa di A e gli appartamenti di B, oggi divisi ma un tempo appartenuti ad un unico proprietario, il padre dei due fratelli, il quale ha posto o lasciato le cose nello stato del quale risulta la servitù. Visto che nel momento in cui le singole unità immobiliari sono state cedute, nessuna specifica disposizione è stata inserita nei rogiti in merito alla servitù questa si intende stabilita attivamente a favore delle unità di B e passivamente carico della autorimessa di A.
Nella situazione descritta, a parere di chi scrive, sarebbe piuttosto semplice in un ipotetico giudizio dimostrare la costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia, la quale può essere provata con qualsiasi mezzo, dalla prova scritta a quella testimoniale. Sarà quindi sufficiente produrre in giudizio i progetti originali del fabbricato, dimostrare, attraverso una indagine ipotecaria in conservatoria, che esso è appartenuto ad un unico proprietario che poi ha diviso l’immobile lasciando le cose come attualmente si trovano.

Chiarito che siamo di fronte ad una servitù, è ovvio che il proprietario del fondo servente, al fine di garantire il pacifico esercizio del diritto da parte del proprietario del fondo dominante, dovrà acconsentire che quest’ultimo possa liberamente accedere al garage per controllare i contatori, curare la manutenzione dei macchinari ecc. ecc. Un altro aspetto estremamente rilevante in merito alla esecuzione del diritto di servitù è l’applicazione dell’art. 1068 del c.c. Tale norma al suo primo comma introduce il principio secondo il quale il proprietario del fondo servente (fratello A), non può trasferire l'esercizio della servitù in luogo diverso da quello nel quale è stata stabilita originariamente. Tale principio generale, viene però derogato dal successivo secondo comma in due casi: se l'originario esercizio è divenuto più gravoso per il fondo servente o se impedisce di fare lavori, riparazioni o miglioramenti. In questo caso il proprietario del fondo servente può offrire al proprietario dell'altro fondo un luogo egualmente comodo per l'esercizio dei suoi diritti, e questi non può rifiutarlo.

È importante sottolineare come la giurisprudenza abbia chiarito come il diritto per il proprietario del fondo servente di offrire al proprietario del dominante un altro luogo per l’esercizio della servitù, sorga nel caso cui vi siano dei fatti nuovi, estranei e sopraggiunti rispetto alla situazione presente nel momento in cui la servitù è sorta (in questo senso Cass. Civ. n.1345 del 09.02.1987)
Esemplificando, quindi, le servitù in essere nel condominio minimo potranno essere modificate di comune accordo tra entrambi i proprietari. Solo nel caso in cui sopraggiungessero situazioni nuove ed estranee, da provare puntualmente in un ipotetico giudizio, come ad esempio la necessità di effettuare lavori di manutenzione sulla proprietà di A, si potrà pretendere lo spostamento di tutti i macchinari condominiali in un altro luogo che comunque garantisca la piena efficienza dei macchinari stessi.

Al di là di questo, i contatori e gli allacciamenti esistenti, avendo una funzione prettamente condominiale, devono considerarsi di proprietà comune. È gusto anche dire che il contratto di fornitura dell’energia elettrica seppur formalmente intestato a B, svolge una funzione prettamente condominiale e gli oneri e le spese relativi devono essere divisi tra i due proprietari. Su questo aspetto è estremamente consigliabile trovare un accordo bonario, diversamente l’unica strada sarebbe ricorrere al giudice ai sensi del già citato 4° co. dell’art. 1105 del c.c.

Risposta n. 9 - Quesito di diritto ereditario.

Veniamo ora a trattare l’ultimo quesito che esula un po’ dai precedenti in quanto di diritto ereditario.
Per rispondere a questo quesito si dà per presupposto che il padre dei due fratelli non abbia mai fatto testamento, e che quindi si sia aperta alla sua morte la successione legittima regolata dalle norme del codice civile. Visto che il padre non ha lasciato altri soggetti ai quali la legge attribuisce diritti ereditari all’infuori dei due figli, trova applicazione l’art. 566 del c.c. Tale norma dispone: “al padre e alla madre succedono i figli in parti uguali”. Da ciò discende che ogni bene caduto in successione deve considerarsi in comproprietà in parti uguali di una metà ciascuno tra i due fratelli. A questa regola non sfuggono neppure i beni mobili di cui A potrebbe rivendicare la comproprietà per la quota di ½ nei confronti del fratello B, a patto che in giudizio, oltre alla sua qualità di erede, riesca a dimostrare che i vari arredi e suppellettili erano di proprietà del padre al giorno della morte, e pertanto facenti parte dell’asse ereditario.

Chiara D. B. chiede
mercoledì 27/11/2019 - Veneto
“Spett. Brocardi,
posseggo una quota del 25% di nuda proprietà di una palazzina con 6 appartamenti di proprietà di famiglia, non è un condominio ma una comunione.
i miei famigliari hanno fatto lavori straordinari a mia insaputa senza interpellarmi e senza convocare alcuna assemblea per decidere in merito.
Di questi lavori straordinari una parte sono lavori straordinari di ristrutturazione (cambio caldaia, rifacimento di un bagno), altri sono straordinari di manutenzione, cioè intervento sulla caldaia per manutenzione straordinaria dovuti all'utilizzo.
In quanto possessore di una quota di nuda proprietà mia hanno chiesto di pagare la mia quota di pertinenza.
Mi posso opporre in quanto non sono stata ne informata ne interpellata ?
Faccio presente che la quota del 75% è di proprietà al 50% piena a mia madre , il 25% piena a mia sorella , la mia quota di usufrutto del 25% è in possesso a mia madre,quindi in caso mi potessi opporre al pagamento la mia quota spetterebbe a mia madre in quanto possessore dell'usufrutto o ripartita tra mia sorella e mia madre pro quota proprietà, quindi 1/3 a mia sorella e 2/3 a mia madre ?
grazie

Consulenza legale i 04/12/2019
Occorre distinguere la questione relativa alla decisione di effettuare i lavori ed alle relative spese da quella inerente la ripartizione delle spese stesse.

Vengono qui in considerazione diverse norme.
Innanzitutto l’art. 1102 c.c., secondo il quale le modificazioni al bene comune apportate dal singolo comunista per il miglior godimento della stessa sono a suo carico: posto, infatti, che è consentita ogni modifica al bene comune che non ne alteri la destinazione intrinseca e che non abbia come conseguenza quella di impedire agli altri comunisti di farne parimenti uso, quando uno o più partecipanti alla comunione decidano di apportare modifiche per un “miglior godimento” della cosa essi dovranno sopportarne integralmente la spesa e ciò, attenzione, anche se delle modifiche beneficeranno tutti gli altri.

Più importante l’art. 1104 c.c. per il quale “Ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune e nelle spese deliberate dalla maggioranza a norma delle disposizioni seguenti (…)”.
Ebbene, la legge obbliga alla contribuzione alle spese i partecipanti alla comunione solo nel caso in cui queste siano “necessarie” al godimento (inteso come ordinaria utilizzazione del bene) ed alla conservazione della cosa (ovvero quanto è necessario perché questa non vada distrutta o deteriorata); se si tratta di spese utili o voluttuarie, ovvero quelle che comportano innovazioni o sono determinate da esigenze semplicemente di miglior godimento della cosa comune, esse non sono obbligatorie, a meno che non si sia pronunciata la maggioranza o l’unanimità (a seconda dei casi) dei partecipanti.
Attenzione, però, che le decisioni della maggioranza vincolano la minoranza dissenziente solo se relative all’ordinaria amministrazione: perciò, trattandosi nel caso di specie di straordinaria amministrazione, comunque la nuda proprietaria al 25% non ne sarebbe necessariamente vincolata.

E a tale ultimo proposito veniamo, ancora, all’art. 1105 c.c. secondo il quale per la validità delle deliberazioni della maggioranza (come è avvenuto nel caso di specie in cui madre e sorella hanno deciso, forti della propria maggioranza percentuale) si richiede che tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati dell’oggetto della deliberazione.
Anche se la norma, a rigore, non parla di convocazione, la preventiva convocazione di tutti i partecipanti è ritenuta necessaria, anche se non occorrono forme speciali per la stessa: è sufficiente che essi siano stati avvisati in qualche modo, anche verbalmente, dell’assemblea e del suo oggetto.
Tale necessità si deduce, tra le altre, dall’impossibilità di formare in altro modo una volontà collettiva cui rimanda il termine “deliberazione”.

Nel caso di specie è mancata totalmente la “convocazione”.
La mancanza di quest'ultima determina la nullità della delibera, indipendentemente dal peso che il voto del partecipante non avvisato avrebbe avuto nella deliberazione e nel calcolo della maggioranza. Ma nullità si ha altresì quando manchi del tutto l’assemblea, come pare di capire sia avvenuto nel caso di specie.

Ora, i rimedi che le legge fornisce in un caso del genere sono diversi, a seconda che la delibera sia formalmente intervenuta o meno.
Vale a dire che tutto dipende, nel caso di specie, se all’insaputa della nuda proprietaria di minoranza gli altri compartecipi abbiano comunque formalmente deliberato oppure no (nel quesito non è specificato cosa sia accaduto nello specifico).

Nel primo caso, l’art. 1109 c.c. dice espressamente che la violazione dell’obbligo di comunicazione della convocazione consente di rivolgersi al Giudice ma solo entro il termine, di decadenza, di 30 giorni dalla data in cui si è venuti a conoscenza della deliberazione.
Se, però, come pare di capire, non c’è stata neppure una formale deliberazione, allora si dovrà e potrà procedere con un’azione di nullità, che è consentita a chiunque abbia interesse e soprattutto non è soggetta ad alcun termine né di decadenza né di prescrizione.

Tornando al quesito ci si potrà rifiutare, dunque, di corrispondere il rimborso di quota parte delle spese sostenute per i lavori. Quand’anche, poi, le altre parti dovessero rivolgersi al Giudice per ottenerne il pagamento, si potrà allora eccepire la mancata delibera in ordine ai lavori ed alla spesa, oltre che la mancata convocazione qualora un’assemblea si sia svolta.
In ordine, infine, all’ultima questione, ovvero come si ripartisce la spesa tra nudo proprietario ed usufruttuario, va detto che generalmente l’usufruttuario deve sostenere le spese relative alla custodia, amministrazione e manutenzione ordinaria della cosa, mentre le spese straordinarie sono a carico del nudo proprietario,
Spese straordinarie sono quelle che non discendono dal normale uso e godimento della cosa e riguardano parti essenziali della struttura del bene: per esempio riparazione totale del tetto, sostituzione delle travi e dei muri di sostegno ecc.

Tuttavia, non sempre le spese di straordinaria manutenzione spettano al nudo proprietario.
La Cassazione, infatti, con sentenza del 30 settembre – 6 novembre 2015, n.22703 ha stabilito che all’usufruttuario possono competere, ad esempio, anche le riparazioni straordinarie se queste ultime sono state causate dal suo inadempimento: in sostanza, tutte le volte in cui il bene si sia deteriorato per omessa manutenzione ordinaria, l’usufruttuario – in quanto negligente – sarà tenuto anche alle spese straordinarie.

Nel caso in esame, ad avviso di chi scrive, le spese per il rifacimento del bagno e per la sostituzione della caldaia possono qualificarsi come straordinarie e/o voluttuarie, e come tali spettano alla proprietà (sorella, e madre nella veste di nuda proprietaria); relativamente, tuttavia, a quelle di manutenzione straordinaria della caldaia sarebbe forse il caso di verificare se l’intervento sia stato determinato o meno dalla condotta della madre usufruttuaria, perché – in caso affermativo – la spesa ricadrebbe sicuramente su quest’ultima.


Rosalba P. chiede
lunedì 19/08/2019 - Toscana
“Salve, dal 1987 sono proprietaria per la quota di 1/20 di un terreno con parco e piscina. Questa proprietà in "comunione" serve sei abitazioni di vacanza di cui una è mia (per semplificare dico che é la mia ma inizialmente eravamo 4) Abito lontano e per non suscitare conflitti ho sempre pagato senza fare storie (fino al 2007) quanto esigevano fino a quando ho visto le spese lievitare, decisioni prese senza consultarmi ecc. Negli ultimi anni si sono quindi accesi i conflitti e i miei vicini mi hanno portato in tribunale (2011) per costringermi a pagare 1/6 delle spese che loro decidevano non solo sul terreno e piscina in comunione ma anche sulle loro proprietà private. Dicono che il giardiniere lavora anche sul mio terreno privato ma la mia proprietà è molto piccola (1/18 del totale dei terreni privati). Si tratta di romani piuttosto prepotenti e prevaricatori e di tre inglesi. Hanno invocato nella causa la "Facta concludentia". Ebbene il 22 marzo scorso ho vinto la causa in quanto pagavo più di 1/6 e il giudice ha deciso che d'ora in avanti contribuirò per la mia quota di proprietà pari a 1/20. Sarebbe buona cosa se io potessi inviare la sentenza che chiarisce forse meglio di quanto riesco a fare.
La contabilità è fatiscente, da sempre mostrano dei fogli di rendicontazione (sbagliando pure i riporti) e caricano spese fatte sulle loro proprietà. Gli operai (giardiniere e moglie che cura la piscina ) lavorano a nero e complici dei “padroni” scrivono nelle ricevute quello che vien loro richiesto. Quest'estate sono stata più presente in quando in pensione, mi hanno dato in mano una comunicazione chiedendomi di firmarla: dovevo dichiarare di usare la piscina per la mia quota di proprietà (?). L'anno scorso hanno inviato per mail il verbale (senza firma) dell'assemblea che hanno tenuto in agosto dove decidevano che io avrei dovuto pagare 600 euro in più per la cura della piscina in quanto affitto la casa. Ho ignorato la mail …
Da due anni non vedo nemmeno il foglio di rendicontazione perché l’inglese che lo faceva non è più disposta e durante l’assemblea dell’anno scorso (ero assente) hanno approvato i conti a maggioranza, ma non so nemmeno di cosa si tratta.
Ho consultato un avvocato che mi consiglia di colpire questo sistema alla base e di chiedere ai lavoratori i certificati fiscali per il lavoro svolto. Mi dispiace mettere in difficoltà della gente che lavora anche se non approvo il loro modo subdolo di comportarsi. Ho anche paura che con una mossa simile attiro le ire della gente locale che finora è sempre stata gentile e disponibile.
Come posso uscire da questa situazione ?
Posso chiedere all’autorità giudiziale un amministratore onesto? Come fare?
Grazie e in attesa di un riscontro cordiali saluti,

Consulenza legale i 25/08/2019
La situazione descritta è purtroppo, piuttosto frequente nei casi di piccoli condomini o comunioni ordinarie, ove l’assenza dell’obbligo di nominare un amministratore esterno può portare a gestioni piuttosto” allegre” (per non usare altri termini) che determinano inevitabilmente litigi anche piuttosto accesi.
L’analisi del verbale dell’11.08.2018 è in questo senso piuttosto evidente in quanto: si ammette candidamente che uno dei comproprietari non è più disposto ad eseguire la rendicontazione delle spese sostenute per la manutenzione del bene comune; si decide, inoltre, del tutto arbitrariamente che coloro che affittano debbano sostenere una spesa di € 600,00, non essendoci, tra l’altro, dato sapere su quali giustificativi contabili viene richiesto il pagamento di una tale somma.
Inoltre, si ritiene assolutamente improbabile che le singole riunioni assembleari siano precedute dall’invio di una sorta di ordine del giorno, documento prodromico alla validità di quanto deciso nella riunione secondo il disposto del comma 3 dell’art. 1105 del c.c.

Posto lo sfacelo amministrativo in cui versa la gestione della cosa comune, di cui il verbale analizzato costituisce una prova evidente, a parere di chi scrive si dovrebbe procedere ad una sua immediata impugnazione.
Vero è che l’art.1109 del c.c. impone che le delibere assunte dai partecipanti alla comunione siano impugnate innanzi alla autorità giudiziaria entro 30 giorni che decorrono per gli assenti dal giorno della comunicazione del verbale della riunione. È anche vero, però, che per provare l’avvenuto decorso di detto termine, i soggetti convenuti dovrebbero produrre in giudizio la cartolina di ritorno della raccomandata con avviso di ricevimento per mezzo della quale hanno spedito il verbale, ma (secondo quanto riferito) tale verbale è stato spedito per mezzo di una semplice mail ordinaria che non può fare fede, per costante giurisprudenza, della avvenuta ricezione.

Inoltre, il verbale della riunione dell’11.08.2018 presenta a parere di chi scrive un evidente vizio di nullità, che come tale può essere fatto valere in giudizio oltre il termine indicato dall’art.1109 del c.c., nel momento in cui attribuisce il pagamento di una certa somma ad una determinata tipologia di partecipanti alla comunione (chi affitta), senza curarsi minimamente di raccogliere il loro consenso e senza dirci su quali basi contabili tale somma risulti giustificata.
L’impugnazione della delibera dovrà essere preceduta da un tentativo obbligatorio di conciliazione ex. D.Lgs. n.28/10.

Il problema della nomina di un amministratore esterno presenta, però, alcune difficoltà a causa di una lacuna legislativa. Trovandoci in presenza di una comunione ordinaria (ma anche se considerassimo il complesso descritto un piccolo condominio il problema si presenterebbe ugualmente), non è possibile applicare la normativa condominiale, ed in particolare la possibilità di far nominare dalla autorità giudiziaria ex art 1129 del c.c. un amministratore che si accolli su di sé la completa e quotidiana gestione ordinaria e straordinaria del bene comune.
La normativa sulla comunione ordinaria ed in particolare il comma 4 dell’art 1105 del c.c., prevede la possibilità di richiedere al giudice la nomina di un amministratore, ma esso avrà il potere di compiere solo specifici atti, come l’esecuzione di una specifica delibera dei partecipanti oppure l’esecuzione di lavori straordinari sul bene. Il problema sorge da una evidente dimenticanza del legislatore, irrisolta anche dopo la riforma del condominio del 2012, in quanto non è presente nell’ ordinamento una norma che permetta al singolo partecipante alla comunione (o anche al singolo condomino di un condominio con meno di otto proprietari), in caso di evidenti lacune amministrative o di continuato disinteresse dei proprietari, di ricorrere al giudice al fine di far nominare un professionista che in rappresentanza della massa dei comproprietari si sostituisca in toto a loro nella gestione del bene comune.

Posto questo, però, stante l’evidente inesistenza di qualsiasi attività di rendicontazione delle spese sostenute durante l’anno per la gestione ordinaria del bene, ben documentata dal verbale dell' 11.08.2018, varrebbe comunque la pena di provare a richiedere al giudice, secondo il comma 4 dell’art. 1105 del c.c., la nomina di professionista che esegua quantomeno una minima attività di rendicontazione annuale e di suddivisione delle spese sulla base delle singole quote di comproprietà.

Corrado M. chiede
giovedì 21/03/2019 - Lombardia
“In un cosiddetto "condominio minimo" (formato da due soli condomini, con quote millesimali del 70% e del 30%) sono necessari lavori di manutenzione. L'assemblea condominiale può essere convocata da uno solo dei due condòmini (che ha la maggioranza delle quote millesimali), può deliberare validamente anche se l'altro condòmino non si presenta? (e nominare un amministratore, che al momento non c'è e che il condòmino minoritario non vuole perché "non necessario"?). Grazie.”
Consulenza legale i 26/03/2019
La giurisprudenza costante della corte di cassazione, ritiene che quando si presenta la necessità di lavori di manutenzione in un condominio minimo (ovvero nel condominio composto da soli due proprietari), essi devono essere oggetto di delibera assembleare, previa regolare convocazione del consesso. Non costituisce valida sostituzione alla delibera assembleare, l’avviso dato da un condomino ad un altro circa la necessità di procedere alla esecuzione di lavori indefettibili ed urgenti.
Vi è però da dire che stante la particolarità rappresentata dalla fattispecie in esame, non può trovare applicazione l’art. 1136 del c.c., norma che disciplina il funzionamento dell’ assemblea condominiale, in quanto non è possibile nel condominio minimo la formazione di maggioranze con riferimento al numero dei condomini.
È appena il caso di ricordare, infatti, che i quorum costitutivi e deliberativi richiesti dall’art. 1136 del c.c., e anche in altre norme del diritto condominiale, prevedono sempre una maggioranza per teste e millesimi. Si pensi, ad esempio, al 2°comma dell’art. 1136 del c.c. il quale prevede che:” Sono valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti (maggioranza per teste n.d.r.) e almeno la metà del valore dell'edificio (maggioranza per millesimi n.d.r.)”

A fronte della impossibilità di applicare l’art. 1136 del c.c. la giurisprudenza, in virtù al rinvio sulle norme disciplinanti la comunione in generale operato dall’art. 1139 del c.c., ritiene applicabile al condominio minimo l’art. 1105 del c.c.
L’art. 1105 del c.c. innanzitutto impone al comma 3°, per le deliberazioni da assumersi a maggioranza, che tutti i partecipanti alla comunione siano preventivamente informati su quanto si andrà a deliberare.
Il successivo comma 4° dispone che se il giorno fissato per la riunione non si prendono decisioni in merito alla amministrazione della cosa comune, oppure non si forma una maggioranza, ciascun partecipante alla comunione può ricorrere alla autorità giudiziaria, la quale provvede in camera di consiglio e può nominare anche un amministratore.
Alla luce di quanto si è detto, si consiglia all’autore del quesito di procedere in questo modo:
1) convocare l’altro condomino ad un incontro, indicando la necessità di procedere alla realizzazione di determinati lavori sull’immobile: è’ assolutamente necessario inviare la convocazione a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno;
2) il giorno fissato per l’incontro, se nessuno si presenterà o non si troverà un accordo tra i due condomini, non rimarrà altra scelta che ricorrere all'autorità giudiziaria rivolgendosi preventivamente ad un legale. Nel ricorso si dovranno indicare le tipologie di lavori che si rendono necessari per la conservazione dell’edificio, e si potrà segnalare anche la opportunità di nominare un amministratore.
Si tenga conto che i procedimenti in camera di consiglio sono estremamente rapidi e scevri da particolari formalismi.

Fabrizio P. chiede
mercoledì 07/02/2018 - Sardegna
“Buonasera, abito in palazzina con 4 appartamenti, quindi senza amministratore di condominio. Vorrei sapere se nonostante non sia obbligatorio, si può richiedere, ed eventualmente a chi chiedere, la nomina di un amministratore, anche se 3 su 4 sono contrari.
Distinti saluti”
Consulenza legale i 09/02/2018
L’art. 1129 c.c. impone la nomina dell’amministratore in quei condominii dove il numero dei partecipanti è superiore ad otto.

Se non vi provvede l’assemblea, ciascun condomino può fare ricorso all’autorità giudiziaria per ottenere la detta nomina.

Per i condominii che hanno meno di nove condomini, la nomina dell’amministratore è facoltativa.

Nulla vieta comunque che, anche nei piccoli condominii, possa essere nominato un amministratore.

La nomina spetta all’assemblea dei soci ed è necessaria la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell’edificio.

Per costituire una valida assemblea in prima convocazione è necessaria la presenza della maggioranza dei condomini ed almeno 2/3 del valore dell’edificio.

In caso di disaccordo, essendo i condomini meno di nove, non sarà possibile richiedere al Giudice la nomina di un amministratore.

Tuttavia, in caso di ingestibilità assoluta, il condomino potrà tentare comunque di adire l’autorità giudiziaria chiedendo la nomina di un amministratore dando, appunto, la prova dell’ingestibilità assoluta del condominio, oppure ci si dovrà rivolgere al giudice ogni volta che si presenta un problema che l’assemblea non riesce a risolvere.

Trova applicazione, in tal caso, l’art 1105 c.c. alla lettura del quale si rimanda.
In particolare si consideri questa parte: "Se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore”.

Venendo, dunque, al caso in esame, la nomina dell’amministratore è facoltativa essendoci solo 4 condomini.

Un amministratore potrebbe comunque essere nominato.

La nomina spetta all’assemblea con le maggioranze di cui si è detto sopra.

In caso di disaccordo non si potrà fare ricorso all’autorità giudiziaria; quest’ultima potrà essere adita solo in caso di ingestibilità assoluta del condominio ai sensi dell’art. 1105 c.c. che attribuisce al giudice un potere discrezionale in merito alla nomina di un amministratore anche nei condominii con meno di 9 condomini.


Anonimo chiede
sabato 05/08/2017 - Abruzzo
“Buongiorno, mia mamma e mia zia possiedono da anni al 50% una casa in montagna.
Mia mamma paga imu e bolletta della luce mentre mia zia imu e bolletta del gas.
Per 30 anni abbiamo sempre diviso tutto e goduto del bene in misura equa. Mia mamma ha solo me come figlia, mentre mia zia ha 3 figli, dei quali solo uno ha goduto negli ultimi anni della casa.
Qualche anno fa ci ha chiesto la possibilità di buttare via 2 mobili buffet di marmo perché voleva costruire un camino a sue spese , (convincendoci con la motivazione che la casa acquistava valore) la realtà è che in inverno lui va a sciare con la sua famiglia ( per me non indispensabile e necessario in quanto non sono mai andata in quella casa in inverno e non scio ) .... io e mia mamma con grande dispiacere per il valore affettivo ( e anche economico) abbiamo dato l'autorizzazione e poi ci ha detto che faceva dei lavori in bagno, rimuovendo il boiler per l' acqua calda e mettendo un vetro per chiudere la doccia e in questa occasione abbiamo preso atto.
Non ci ha mai chiesto le spese per le modifiche che ha voluto effettuare ne per il camino, ne per il bagno.
Ultimamente manifesto a mia zia la volontà di andare in montagna e vengo a sapere casualmente che da un anno è stata modificata la serratura in quanto affermano che si era rotta... stupita del fatto che non ne sono stata informata prima e di non aver ricevuto subito le nuove chiavi a prescindere dal manifestare la mia volontà di andare o meno.,.mi insospettisco e dopo 10 anni ( in cui ho avuto altre priorità ed emergenze) decido di recarmi in questa casa. Dopo aver notato la tinteggiatura esterna della facciata di un altro colore di cui non ero al corrente, scopro dopo il disordine evidente degli spazi comuni, la presenza in casa di mobili di legno di dubbio gusto che non mi appartengono al posto dei nostri mobiletti di marmo di valore economico e affettivo, la tinteggiatura della sala di un diverso colore, la presenza di poter giganti di cartone e quadretti e fotografie al posto di quadri di valore (affettivo ed economico) Presenza di applique di cartone al posto di applique bagnate in oro. E inoltre assenza di lavatrice e lavastoviglie che prima c'erano e di cui ero al corrente che solo la lavastoviglie era stata eliminata perché non funzionante.
Alla mie rimostranze mi è stato risposto che non è stato buttato nulla e che quegli oggetti sono nel caos del disordine all' ingresso ( non ho ancora verificato) e quando ho chiesto di accordarci per i turni per andare in quella casa mi è stato risposto che dovevo prima pagare la metà di tutti i lavori sostenuti per circa 10.000 tot tra camino e bagno, oltre a €1.000 di condominio e 1200 € per una caldaia di seconda mano comprata di cui non mi è stato chiesto il permesso e che sapevo era costata 400€ E il relativo montaggio.
È giusto questo comportamento e sono corrette le sue richieste?
Devo riconoscergli queste spese di cui non mi è stata fornita nessuna fattura e che sapevo non dover pagare altrimenti non le avrei mai autorizzate e di cui solo lui ha usufruito in tutti questi anni ?”
Consulenza legale i 11/08/2017
L’istituto che viene in considerazione nel caso di specie è la comunione, disciplinata dagli articoli 1100 e seguenti del codice civile.
In particolare, l’art. 1102 stabilisce che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché (…) non impedisca agli altri di farne parimenti uso secondo il loro diritto.”: ciò significa che, nel caso in esame, i due comproprietari (e quindi i loro figli: diamo ragionevolmente per scontato, nel rispondere, che i rispettivi genitori non pongano alcun divieto di utilizzo ai propri figli sull’uso della casa) hanno uguale diritto di goderne.

L’impedimento all’uso della cosa comune da parte di uno dei comproprietari non è legittimo neppure quando – per ipotesi, come nella fattispecie in esame – quest’ultimo sia creditore nei confronti dell’altro per spese o altre ragioni di credito: il godimento dell’immobile prescinde dai rapporti di credito/debito tra i comunisti.

Una prima risposta al quesito, dunque, è che la zia (nel caso di specie si tratta del figlio di quest’ultima) non può vietare alla sorella comproprietaria (ed ai suoi figli) di utilizzare la casa fino a che non gli vengano rimborsate determinate spese.
E’ bene, forse, ribadire che si sta ragionando dando per scontato che ai figli dei comproprietari vengano concessi i medesimi diritti dei genitori: tuttavia, è importante tenere presente che quanto si scrive vale formalmente solo per i titolari effettivi del diritto di comproprietà, ovvero le due sorelle.

Per quanto riguarda le spese, in ordine alle modificazioni apportate alla cosa comune, la norma (1102 c.c.) così prosegue: “A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”.
Secondo l’opinione prevalente, le modificazioni di cui parla l’articolo sono quelle che servono – nel rispetto della destinazione della cosa (ma nel caso di specie ciò non è in discussione) – per il miglior godimento di essa da parte del comunista che le ha autonomamente apportate. La realizzazione di un caminetto per generare calore nel periodo invernale potrebbe tranquillamente rientrare in quest'ordine di modificazioni.
 
Le modificazioni introdotte dal compartecipe nell’interesse proprio sono a suo esclusivo carico, così come le eventuali maggiori spese di manutenzione e di gestione della cosa comune che dovessero derivare dalla sua attività. 
 
L’art. 1104 c.c., ancora, stabilisce che “Ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune e nelle spese deliberate dalla maggioranza a norma delle disposizioni seguenti, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto”.
Le spese cui si riferisce la norma sono solo quelle necessarie alla conservazione ed al godimento del bene comune e non quelle utili o voluttuarie.
Normalmente tutte le spese che non rientrano in quelle di cui al citato articolo 1102 c.c. richiedono l’approvazione della maggioranza.

Infine, l’art. 1110 c.c. impone il rimborso delle spese che uno dei partecipanti abbia dovuto sostenere per la conservazione della cosa comune a fronte della trascuratezza degli altri comunisti. Si presti attenzione al fatto che il partecipante non può agire di propria iniziativa (salvo, secondo alcuni, in caso di urgenza) sia pure quando si tratti di spese necessarie, eludendo la norma di cui all’art. 1105 c.c. secondo la quale “tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell'amministrazione della cosa comune.
Per gli atti di ordinaria amministrazione le deliberazioni della maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote, sono obbligatorie per la minoranza dissenziente.
Per la validità delle deliberazioni della maggioranza si richiede che tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati dell'oggetto della deliberazione. (…)”:
Il diritto al rimborso matura quindi a condizione che chi ha affrontato la spesa abbia precedentemente interpellato gli altri partecipanti. Una volta avvisati questi ultimi, solo se essi rimangano inattivi si potrà procedere agli esborsi e pretenderne il rimborso: incomberà, però, su chi ha affrontato le spese l’onere di provare sia la trascuratezza degli altri che la necessità dei lavori.
 
Tutto ciò chiarito, per tornare al caso di specie - tenendo presente che non potrà mai esistere, evidentemente, una maggioranza nell’eventualità di due soli comproprietari ma solamente l’unanimità (ed in caso di dissenso si può/deve far intervenire il Giudice, ai sensi dell’art. 1105 ultimo comma)–  gli interventi come l’eliminazione dei due mobili buffet per far posto al camino e quelli eseguiti nel bagno, ad avviso di chi scrive rientrano nelle modifiche di cui all’art. 1102 c.c., ovvero sono servite al miglior godimento della cosa comune di uno solo o comunque di pochi tra coloro che sfruttano la casa (i vantaggi sono evidentemente per il figlio che gode della casa in inverno) e quindi le relative spese – come dice la norma – non possono essere addebitate anche agli altri.
 
Sulle spese di natura condominiale, invece, il quesito non chiarisce di che tipo si esborsi si stia parlando: è evidente, però, che se si tratta – ad esempio – dell’illuminazione esterna piuttosto che di spese per la manutenzione del giardino esse andranno equamente suddivise a metà, salvo naturalmente il fatto che ogni spesa deve essere – oltre che necessaria - giustificata nel suo ammontare.
Se invece l'immobile di cui si tratta è inserito in un contesto condominiale allora le spese deliberate regolarmente dall'assemblea (condominiale) dovranno certamente essere pagate a metà.
 
Per tutti gli esborsi, invece, che sono stati eseguiti in assenza di preventivo interpello ed autorizzazione (come la sostituzione della caldaia o le tinte) occorre, ad avviso di chi scrive, distinguere tra manutenzione ordinaria o meno: se, infatti, si trattava di un intervento necessario perché altrimenti non sarebbe stato possibile il funzionamento del sistema di riscaldamento dell’immobile, è ragionevole affermare che la relativa spese vada ripartita.
Se invece si è trattato di una sostituzione non necessaria e solamente utile a chi l’ha eseguita, allora non sarà dovuto alcun rimborso, tanto più che nessuno è stato preventivamente interpellato in ordine a tale intervento.
A tale ultimo proposito, si sottolinea, peraltro, come la giurisprudenza ritenga che sia indifferente l’urgenza o meno dei lavori (1110 c.c.): in buona sostanza, che l’intervento sia urgente o meno, gli altri compartecipi della comunione andranno sempre interpellati prima di procedere: “In tema di spese di conservazione della cosa comune, l'art. 1110 c.c., escludendo ogni rilievo dell'urgenza o meno dei lavori, stabilisce che il partecipante alla comunione, il quale, in caso di trascuranza degli altri compartecipi o dell'amministratore, abbia sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso, a condizione di aver precedentemente interpellato o, quantomeno, preventivamente avvertito gli altri partecipanti o l'amministratore, sicché solo in caso di inattività di questi ultimi egli può procedere agli esborsi e pretenderne il rimborso, pur in mancanza della prestazione del consenso da parte degli interpellati, incombendo comunque su di lui l'onere della prova sia della suddetta inerzia che della necessità dei lavori.” (Cassazione civile, sez. II, 09/09/2013, n. 20652).
Alcuni studiosi, invece, ritengono che l’urgenza, ovvero l’impossibilità di attendere, giustifichi i lavori senza previa autorizzazione e quindi anche la richiesta di rimborso, anche per analogia a quanto previsto in materia di condominio (art. 1134 c.c.).
 
Ancora, sulla sostituzione della serratura, indipendentemente dal fatto che l'intervento in questione fosse o meno improrogabile (il cugino potrebbe sostenere che non si poteva lasciare l’immobile aperto, esponendolo al rischio di intrusioni indebite), vale quanto già osservato sopra in ordine all’urgenza dei lavori: la giurisprudenza richiede comunque il previo interpello (o almeno avviso) degli altri compartecipi della comunione prima di procedere, per cui nel caso il cugino insistesse nel richiedere il rimborso anche di tale ultima spesa si potrà eccepire la mancata previa comunicazione. 
Non c’è dubbio, in ogni caso, come già detto all’inizio, che le nuove chiavi andassero immediatamente consegnate anche all’altra comproprietaria.
 
Infine tutte le altre modifiche (quelle di natura estetica, come il colore alle pareti, o la rimozione di alcuni oggetti come la lavatrice) andavano previamente concordate con l’altra comproprietaria (in forza delle regole stabilite dall’art. 1105 c.c. sopra richiamato), per cui il contributo spese – se mai dovesse essere richiesto – non andrà accordato.
Naturalmente, per tutte le spese da rimborsare il cugino dovrà esibire le pezze giustificative, come fatture o scontrini.
 
Da ultimo ma non meno importante, va considerata la prescrizione: nessuna richiesta di pagamento può essere avanzata dal cugino se siano trascorsi oltre 10 anni da quando egli abbia maturato l’eventuale diritto al rimborso della spesa (quindi da quando ha speso i soldi per i vari interventi).

Colombo V. chiede
giovedì 20/10/2016 - Lazio
“Spett. Brocardi,
sono comproprietaria maggioritaria di un appartamento (55%) insieme a mia figlia e mia sorella (22% ciascuna).

Come posso impedire che mia sorella affitti l’appartamento a mia insaputa? Con una diffida?
Al contrario, una sua analoga diffida nei miei/nostri confronti avrebbe validità legale?

Ringrazio anticipatamente per l’attenzione e la risposta.

Cordiali saluti,

Consulenza legale i 26/10/2016
Gli articoli di riferimento per individuare la risposta al quesito sono due: 1102 cod civ. e 1105 cod civ..

Il primo ricorda quali sono i limiti che il compartecipe alla comunione incontra nell’uso e nel godimento della cosa comune: “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (…)”.

Il secondo stabilisce che “Tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell'amministrazione della cosa comune. Per gli atti di ordinaria amministrazione le deliberazioni della maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote, sono obbligatorie per la minoranza dissenziente. Per la validità delle deliberazioni della maggioranza si richiede che tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati dell'oggetto della deliberazione”.

Ebbene, è orientamento consolidato in giurisprudenza che, in forza del secondo dei due articoli citati, la concessione in locazione dell’immobile comune costituisca un atto di ordinaria amministrazione e che sussista la legittimazione del compartecipe sia a locare l’immobile che ad agire da solo per la risoluzione del rapporto obbligatorio, nella presunzione tuttavia – si noti bene - del consenso degli altri condomini.
Qualora, però, la maggioranza dei comunisti, appresa l’intenzione della minoranza di locare l’immobile, si opponga ed esprima il suo dissenso (proprio in virtù del 1102 c.c.), la stipula del contratto di locazione sarà preclusa; e se il contratto fosse già stato concluso nella consapevolezza del dissenso degli altri comunisti, esso sarà invalido per carenza di potere (addirittura se del dissenso sia consapevole anche il terzo affittuario, quest’ultimo sarà corresponsabile in solido per fatto illecito dannoso).

Si riporta, di seguito, qualche pronuncia significativa in materia:
-“In tema di comproprietà, mentre la concessione del bene (nella specie, un fondo rustico) in locazione o in affitto può avvenire su iniziativa disgiunta di ciascun condomino (trovando applicazione la presunzione che il singolo contitolare abbia agito anche con il consenso degli altri), l'autorizzazione al compimento di opere di straordinaria amministrazione postula il rispetto di particolari maggioranze qualificate (art. 1108, comma 2, c.c.)” (Cassazione civile, sez. III, 27/01/2005, n. 1662);

- “Quando non sia possibile l'uso diretto della cosa comune per tutti i partecipanti al condominio, proporzionalmente alla loro quota, promiscuamente ovvero con sistema di turni temporali o frazionamento degli spazi, i condomini possono deliberare l'uso indiretto della cosa comune, a maggioranza se è un atto di ordinaria amministrazione, come nel caso della locazione.” (Cassazione civile, sez. II, 22/03/2001, n. 4131);

-Sugli immobili oggetto di comunione concorrono, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari, in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri. Ne consegue che il singolo condomino può stipulare il contratto di locazione avente ad oggetto l'immobile in comunione e che un condomino diverso da quello che ha assunto la veste di locatore è legittimato ad agire per il rilascio del bene stesso (senza che sia necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini), purché non risulti l'espressa ed insuperabile volontà contraria degli altri comproprietari, la quale fa venire meno il presunto consenso della maggioranza.” (Cassazione civile, sez. III, 29/08/1995, n. 9113).

Concludendo, senza il consenso della maggioranza dei condomini la locazione non si potrà fare: il dissenso potrà essere espresso in qualsiasi forma, anche se ovviamente è consigliabile la forma scritta, per una questione evidentemente di facilità della prova, qualora si dovesse dimostrare la circostanza. Una diffida scritta mediante raccomandata sarà utile e sufficiente allo scopo.

Giuliano T. chiede
giovedì 15/09/2016 - Lazio
“buongiorno

tramite successione ereditaria, e dopo divisione dell'asse ereditario e successivo frazionamento)sono proprietario di un alloggio in Piemonte (provincia di Cuneo)
A seguito del frazionamento mi è stato assegnato il piano terra dell'alloggio, ad un altro erede il piano primo del medesimo.
Una camera da letto del piano primo si affaccia su un terrazzo a livello/lastrico solare che è anche copertura sia del mio bagno, sia della mia cucina.
Il terrazzo a livello/lastrico solare è di proprietà esclusiva dell'altro proprietario, e di suo uso esclusivo, come sancito dall'atto di divisione.

Siccome l'alloggio aveva bisogno di lavori di rifacimento delle superfici coprenti, anche per eliminare infiltrazioni di acqua piovana e di disgelo, abbiamo intrapreso la ricostruzione del tetto e del lastrico solare.
Il quesito riguarda la ripartizione delle spese di rifacimento del lastrico. So che la norma di riferimento è l'art.1126 del Codice Civile, ma come si applica nel caso di un condominio minimo come il nostro (2 proprietari)?
Mi sembra aberrante che io debba accollarmi 2/3 delle spese di rifacimento.

Gradirei che la risposta contenesse anche riferimenti espliciti alla specifica giurisprudenza di merito e di legittimità, affinché il mio dialogo con l'altro proprietario sia convincente

Grazie.
Distinti saluti

Consulenza legale i 21/09/2016
Va in primo luogo premesso che, anche se la proprietà del lastrico solare/terrazzo è in via esclusiva del vicino, resta comunque chiaro che il manufatto funge da copertura/tetto dell’appartamento sottostante. E’ corretto, pertanto, porsi il problema della suddivisione delle spese per la sua manutenzione quale parte “comune”.

Ciò detto, la norma applicabile al caso in esame non è però l’art. 1126 del cod. civ..

E’ certamente vero che in base alla nuova disciplina del condominio (riforma del 2012) – che ha recepito i più recenti orientamenti giurisprudenziali in materia – le norme sul condominio negli edifici si applicano ad ogni caso in cui più unità immobiliari abbiano parti in comune.
Pertanto, anche il condominio “minimo” (ovvero composto da due soli partecipanti) è soggetto alla disciplina del condominio, in quanto compatibile e di conseguenza per la ripartizione delle spese di manutenzione delle parti comuni si dovrà applicare la regola relativa ai millesimi di proprietà.
Va detto però che non sempre – nelle realtà condominiali così piccole – esistono delle tabelle che consentono di procedere con questo calcolo.

Nel quesito di cui ci occupiamo non viene espressamente chiarito questo aspetto, ma si parla di “divisione” e “frazionamento”: se quindi la divisione è stata fatta giudizialmente, è possibile che siano state altresì determinate le quote di comproprietà.
Pertanto, qualora vi siano tabelle o comunque sia stato convenzionalmente determinato il valore della proprietà, le spese per il rifacimento della terrazza/lastrico saranno suddivise di conseguenza.
Nel caso contrario, invece, la soluzione migliore è che i comproprietari si mettano d’accordo (normalmente in questi casi si utilizza la semplice divisione a metà).

Attenzione, però, che se non si riesce a trovare un accordo, quando i partecipanti sono due, non si potrà fare altrimenti che rivolgersi al Giudice ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1105 cod. civ.: “(…) Se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere alla autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore”.

Tale tipo di azione non ha natura “contenziosa”, ovvero non si tratta di dirimere una lite tra condomini, ma “volontaria”, ovvero rientra tra le ipotesi in cui i privati hanno necessità che l’Autorità Giudiziaria intervenga con un provvedimento che li aiuti, per così dire, a risolvere/disciplinare delle situazioni complesse o delicate (come ad esempio nei casi delle amministrazioni di sostegno).

La giurisprudenza conferma: “In tema di condominio negli edifici, la comunicazione, da parte di un condominio, del riparto delle spese non può sostituire l'atto presupposto, ossia la delibera di approvazione, che è necessaria anche in presenza di un condominio composto di due soli condomini (…). Resta, peraltro, possibile, ove non si raggiunga l'unanimità e non si decida, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto, il ricorso all'autorità giudiziaria, ai sensi del combinato disposto degli art. 1105 e 1139 c.c.” (Cassazione civile, sez. VI, 03/04/2012, n. 5288).

Concludendo, in sintesi: non si applica (automaticamente e/o necessariamente) la regola del 1126 cod. civ. nel caso di condominio minimo; i partecipanti dovranno/potranno mettersi d’accordo sulla ripartizione delle spese; in difetto di accordo, ciascuna delle parti potrà, o meglio dovrà, ricorrere al Giudice affinché vengano elaborate le tabelle millesimali oppure affinché venga presa una decisione in ordine alle spese.

Anonimo chiede
giovedì 25/08/2016 - Veneto
“Ho acquistato nel 1997 come casa di residenza un appartamento che occupa tutto il piano superiore di una casetta bifamiliare, compresa la soffitta sottotetto di mia proprietà esclusiva, mentre al piano inferiore c'è un altro appartamento analogo di altri proprietari, anch'essi residenti. La casa si completa con due giardinetti esclusivi di pari superficie, uno per ogni appartamento, e le parti comuni (verde attorno a casa, ingresso, scale, locale caldaia, corridoio garage, rampe accesso garage, ovviamente muri esterni, tetto e quanto consueto).
In pratica un "condominio minimo" in orizzontale di due abitazioni, entrambi proprietari e residenti. Non esiste un regolamento condominiale né delle tabelle millesimali, e nel contratto di compravendita non si fa riferimento a regolamenti alcuni né criteri di ripartizione spese.
Per quanto riguarda il regolamento condominiale ritengo che se ognuno si attiene alle norme del codice civile integrate dal regolamento di Polizia Urbana, che qui a (omissis) è molto dettagliato anche per quanto riguarda orari, rumori, lavori ecc. (vedi in particolare il titolo IV del regolamento di Polizia Urbana sul sito del Comune di (omissis)), ciò possa essere sufficiente, anche perché ho fatto a suo tempo un investimento e una scelta e non vorrei ingabbiarmi ora con norme più restrittive del necessario, altrimenti avrei fatto scelte diverse.
Per quanto riguarda la suddivisione delle spese, fino a oggi per i piccoli interventi (spurghi, piccole manutenzioni ecc.) abbiamo sempre diviso a metà. Per esempio abbiamo sempre fatto a metà degli spurghi anche se io vivo solo e sotto vivono in 3.
Ora che si tratta di affrontare il rifacimento del tetto e dell'esterno della casa - quindi di spendere dei soldi veri - i proprietari di sotto pretendono di redigere delle tabelle millesimali per suddividere le spese. Ovviamente la parte predominante sarebbe la mia, visto che ho la soffitta (che nel frattempo ho reso accessibile con una scala interna togliendo parte del soffitto del salotto, tutti lavori regolari che hanno comportato anche la conseguente variazione catastale ma NON una diversa categoria dell'immobile).

DOMANDA: sono obbligato ad acconsentire al calcolo delle tabelle millesimali e sobbarcarmi quindi la maggior parte della spesa di tutti i lavori futuri, considerando che il beneficio è di fatto per ognuno al 50%, o posso pretendere che venga mantenuto il criterio attuale della divisione a metà?
E in conseguenza, se dovessi accettare le tabelle millesimali e (certamente) ritrovarmi ad essere il proprietario di maggioranza, questo almeno mi consentirebbe un maggiore potere decisionale (tipo maggioranza assembleare) o si deciderebbe sempre "uno a testa" ritrovandomi io solo a sopportare maggiori oneri?
Questo mi sembrerebbe palesemente iniquo!
Ultima questione: fin da prima del mio arrivo i proprietari di sotto si erano accordati coi precedenti proprietari del mio appartamento per suddividere gli allacci delle luci comuni senza attivare un terzo contatore (intelligentemente direi: sono più onerosi i costi fissi che i consumi delle luci scale). In pratica al mio contatore sono allacciate le luci scale dell'ingresso, della rampa che scende ai garage e della rampa che sale da me, oltre a campanelli e apertura portoncino e cancelletto esterno, mentre ai signori di sotto sono allacciati luce corridoio garage, luce vano caldaia e i due punti luce esterni.
Senza star li a tagliare il capello in 4 più o meno direi che c'è equilibrio.
Ora il signore di sotto vuole attivare il terzo contatore, che sarebbe un onere assurdo. Ho proposto di far modificare l'impianto mettendo dei temporizzatori e delle lampadine a led, così per entrambi i consumi sarebbero davvero irrisori, ma pur condividendo di voler fare queste modifiche insiste anche col contatore separato. Lo può pretendere o posso pretendere che venga mantenuto lo stato di fatto? Che poi è quello con cui ho acquistato e che era frutto di loro precedenti accordi?


Consulenza legale i 03/10/2016
E’ opportuna una premessa in ordine alla disciplina applicabile al condominio cosiddetto “minimo”, in modo da individuare le risposte più corrette ai quesiti posti.

Dopo anni di contrasti giurisprudenziali sul punto, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha statuito che anche al condominio “minimo”(ovvero costituito da due soli partecipanti) si applicano le norme sul condominio (art. 1117 cod. civ. e seguenti) e non solo quelle sulla comunione (art. 1100 e seguenti cod. civ.), poiché – ad avviso dei Giudici – non vi sarebbe alcuna difficoltà nell’applicazione del principio maggioritario anche a questa fattispecie: “La disciplina dettata dal codice civile per il condominio di edifici trova applicazione anche in caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, tanto con riguardo alle disposizioni che regolamentano la sua organizzazione interna, non rappresentando un ostacolo l'impossibilità di applicare, in tema di funzionamento dell'assemblea, il principio maggioritario, atteso che nessuna norma vieta che le decisioni vengano assunte con un criterio diverso, nella specie all'unanimità, quanto a fortiori, con riferimento alle norme che regolamentano le situazioni soggettive dei partecipanti, tra cui quella che disciplina il diritto al rimborso delle spese fatte per la conservazione delle cose comuni.” (Cassazione civile, sez. un., 31/01/2006, n. 2046).

Ciò premesso, le tabelle millesimali costituiscono semplicemente ed esclusivamente un modo di determinazione dei criteri di riparto delle spese condominiali, per cui la loro adozione non è obbligatoria: “La preesistenza di tabelle millesimali non è necessaria per il funzionamento e la gestione del condominio, non solo ai fini della ripartizione delle spese ma neppure per la costituzione delle assemblee e la validità delle deliberazioni” (Cassazione civile, sez. II, 19/07/2012, n. 12471).
Di conseguenza, le parti hanno sinora correttamente operato, dividendo al 50% le spese di comune accordo.

E’ pur vero, tuttavia, che – se la volontà attuale di uno dei condomini è mutata – ciò comporterà l’impossibilità di mantenere lo status quo ante.
Infatti, in base a quanto sopra premesso, l’applicazione delle norme sul condominio anche al caso di specie, determina l’operatività – come accennato – del principio maggioritario. Di conseguenza, se non si riesce a formare una maggioranza sulla decisione relativa all’adozione delle tabelle millesimali (che poi, di fatto, nel caso in esame equivale ad unanimità dei consensi), ciascuno dei condomini avrà diritto di rivolgersi al Giudice affinché venga adottata una decisione definitiva.

Recita Cassazione civile, sez. II, 13/05/2013, n. 11387: “In relazione alla formazione, modificazione e revisione delle tabelle millesimali, non occorre il consenso unanime dei condomini, essendo sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, c.c. Tale principio deve ritenersi tuttora valido, anche alla luce della novella che ha interessato l'art. 69 disp. att. c.c.” ed ancora “(…) Resta, peraltro, possibile, ove non si raggiunga l'unanimità e non si decida, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto, il ricorso all'autorità giudiziaria, ai sensi del combinato disposto degli art. 1105 e 1139 c.c.” (Cassazione civile, sez. VI, 03/04/2012, n. 5288).

A proposito delle norme citate da quest’ultima sentenza, l’ultimo comma dell’art. 1105 cod. civ., in particolare, recita: “Se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere alla autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore.”.

Per rispondere, quindi, alla prima domanda, nel caso permanga il disaccordo tra le parti, il vicino avrà il diritto di rivolgersi all’Autorità Giudiziaria per la decisione in ordine alla predisposizione delle tabelle millesimali, con possibile rischio di soccombenza per il condomino dissenziente.

Vi è senz’altro, però, il “rovescio della medaglia”, ovvero il diritto di maggioranza che quest’ultimo acquisirebbe con la determinazione delle tabelle, come correttamente ipotizzato nel quesito.
Infatti “La disposizione dell'art. 1105 c.c., relativa all'amministratore della comunione in generale, è sì applicabile al condominio di edifici, in forza della norma di rinvio di cui all'art. 1139 c.c., ma solo nel caso di condominio cosiddetto minimo, costituito da due soli condomini, per il quale non è obiettivamente applicabile l'apposita disciplina dell'art. 1136 c.c., che richiede maggioranze qualificate anche con riferimento al numero dei condomini.” (Cassazione civile, sez. II, 19/07/2007, n. 16075).

Per rispondere dunque anche alla seconda domanda, essendo applicabile al caso del condominio minimo (solamente) l’art. 1105 cod. civ., nella parte in cui stabilisce (secondo comma) “Per gli atti di ordinaria amministrazione le deliberazioni della maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote, sono obbligatorie per la minoranza dissenziente”, qualora dalla tabelle millesimali risultasse che uno dei due condomini detiene una quota di maggioranza della proprietà, egli avrebbe automaticamente la maggioranza necessaria per imporre le sue decisioni all’altra parte (salvo casi in cui si richieda l’unanimità dei consensi: atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune e locazioni di durata superiore a nove anni).

Per quanto riguarda, infine, l’installazione di un nuovo contatore, la questione andrà risolta sulla base degli stessi criteri normativi: la situazione attuale, infatti, deriva da un accordo – raggiunto tra i precedenti proprietari – in ordine alla ripartizione di determinate spese (le luci comuni).
Tale accordo (perché l’altro condominio ha cambiato opinione) non sussiste più e non è possibile, pertanto – non sussistendo (ancora) delle tabelle millesimali - raggiungere una maggioranza sulla questione.

La regola, allora, in difetto di accordo, rimane sempre la stessa: “In materia di comproprietà di immobili, ai fini delle decisioni sull'utilizzo di questi, in caso di mancato raggiungimento della maggioranza, dovrà essere sentita l'autorità giudiziaria, come previsto dall'art. 1105, ultimo comma, c.c.” (Cassazione civile, sez. II, 28/06/2016, n. 13353).

Raffaele D. chiede
mercoledì 17/06/2015 - Estero
“Sono proprietario insieme a miei fratelli di un locale ereditato dai miei genitori.
Il locale è sito in una zona centrale di B. ed è al piano terra di un edificio d’epoca con un solo altro piano (il primo) adibito ad abitazione.
La casa necessita della riparazione del tetto. La copertura, inoltre, è costituita da eternit.
Da tre anni i miei fratelli ne discutono senza trovare un punto d'incontro, poiché la proprietaria del primo piano pretende la rimozione completa del sottotetto, cioè di tutte le strutture portanti e relativo assito in legno (capriate). Secondo il parere di esperti interpellati dai miei fratelli, la ricostruzione completa del tetto, invece, non è necessaria: basterebbe ripararlo, sostituendo, al limite, qualche trave danneggiata.
Si suppone che la controparte intenda fare la rimozione completa col presupposto di sopra elevare così da utilizzare il sottotetto. Preciso che in passato (circa due anni fa) sono state fatte delle riparazioni alla copertura per piccole infiltrazioni, alle quali tutti abbiamo aderito. Le vecchie infiltrazioni all'interno dell'appartamento non sono state mai riparate e con il trascorrere del tempo si sono aggravate. Attualmente la proprietaria del primo piano, avvalendosi di una sua perizia, pretende la riparazione e ripristino della sua abitazione, con rifacimento di controsoffitti, pareti , tinteggiatura, oltre al rifacimento completo del tetto, per un ammontare complessivo di euro 117.000, escluse spese di progettazione e relativi oneri.
Ritenendo buona la struttura, è stato richiesto un nostro preventivo, ammontate a euro 57.000, che prevede la rimozione e smaltimento dell’eternit e il rifacimento della copertura, anche se basterebbero solo delle riparazioni.
Stando così le cose desidero sapere:
In quale misura devo aderire alla riparazione o rifacimento del tetto, presupposto che:
- Nel rogito non sono espressi i millesimi
- Non abbiamo alcun accesso al sottotetto e tetto, in quanto l’ampio portone ed ingresso
è di solo uso esclusivo del proprietario del primo piano. L’ingresso al nostro locale, infatti, è attiguo e con un suo portone.
- La superficie del sottano (piano terra) è di mq 345 e il primo piano con portone ingresso, scale, atri e giardino é quasi il doppio.

Alle spese di rifacimento dei controsoffitti e tinteggiature, inoltre, devo aderire?

In attesa di Vostre precisazioni, porgo i miei più cordiali saluti.”
Consulenza legale i 23/06/2015
La situazione descritta nel quesito fa ritenere che ci si trovi in presenza di un c.d. "condominio minimo", cioè composto da due sole unità immobiliari. Al condominio minimo si applicano generalmente le norme relative al condominio negli edifici, cioè gli artt. 1117-1139 del codice civile, con gli opportuni adattamenti.

Poiché il tetto fa parte dei beni comuni, ai sensi dell'art. 1117, alla sua riparazione o rifacimento devono partecipare certamente entrambi i proprietari.

Secondo la giurisprudenza, anche in ipotesi di condominio composto di due soli partecipanti, le spese necessarie alla conservazione o riparazione della cosa comune (come il rifacimento del tetto e dei solai) devono essere oggetto di regolare delibera, adottata previa rituale convocazione dell'assemblea dei condomini, i quali devono essere stati posti in grado di conoscere l'argomento con una preventiva convocazione. Non sono necessarie particolari formalità.

Quindi, per certo, può dirsi che nessuno dei due proprietari può arbitrariamente deliberare dei lavori senza sentire anche l'altro, salvo invocare una presunta urgenza degli interventi, che però possono essere solo di mera conservazione del bene comune (art. 1110 del c.c.).

Nel caso di specie, la proprietaria del primo piano sta proponendo di procedere con una totale innovazione del tetto, mentre i proprietari del piano terra vorrebbero solo rifare il tetto per esigenze di manutenzione.

La decisione relativa ad atti di ordinaria amministrazione richiedono la maggioranza semplice (art. 1105 del c.c.), mentre le innovazioni ("dirette al miglioramento della cosa o a renderne più comodo o redditizio il godimento, purché esse non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa eccessivamente gravosa", art. 1108) vanno deliberate dalla maggioranza dei partecipanti che rappresenti almeno due terzi del valore complessivo della cosa comune.
Le maggioranze vanno calcolate in base alle quote di comproprietà.
Tuttavia, capita spesso che, come nel caso in esame, non esista un documento che stabilisca quali siano le quote (es. una tabella millesimale).
In queste ipotesi, poiché le quote di partecipazione si presumono uguali ex art. 1101, è praticamente impossibile che uno dei due abbia la maggioranza necessaria a prendere una decisione in autonomia. L'art. 1105 prevede, pertanto, che se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria, la quale può anche nominare un amministratore. Nel corso del giudizio si può chiedere che un consulente tecnico stabilisca le quote millesimali, in maniera che anche in futuro non sia più necessario ricorrere al tribunale.

Naturalmente, è sempre facoltà delle parti trovare un accordo stragiudiziale rispetto alla ripartizione delle spese, ad esempio nominando di comune accordo un tecnico che rediga la tabella (soluzione certamente meno onerosa).

Discorso a parte quello riguardante il sottotetto: se esso costituisce una pertinenza esclusiva dell'appartamento del primo piano, ogni onere ad esso relativo deve essere sostenuto dal proprietario di quell'unità abitativa. Per essere certi della proprietà del sottotetto, sarà bene esaminare gli atti di acquisto delle unità immobiliari, dove dovrebbe essere specificato a chi spetti l'esclusiva titolarità.

Infine, si precisa che se la ditta a cui sono state affidate le piccole opere di riparazione qualche tempo fa ha commesso degli errori di esecuzione, dando origine a danni nell'appartamento del primo piano, è ad essa che la proprietaria dell'abitazione deve rivolgersi per ottenere il risarcimento del danno, posto che quegli interventi furono decisi di comune accordo e che quindi non si può imputare una colpa ai titolari del locale al piano terra. Si vedano sotto questo profilo, in materia di appalto, gli artt. 1667-1669 del codice civile.

Arnone chiede
giovedì 24/03/2011 - Abruzzo

“E' possibile far amministrare un palazzo con parti comuni (scala A,scala B,garage sottostante) da tre amministratori diversi?”

Consulenza legale i 25/03/2011

Le norme del codice civile sulla nomina, revoca e attività dell'amministratore di condominio negli edifici (art. 1129 del c.c., artt. 64 e 65 disp. att. c.c.) non escludono la possibilità che l'amministrazione del condominio sia affidata ad una pluralità di amministratori (v. Cass. civ., Sez. II, 24 dicembre 1994 n. 11155).


Maurizio C. chiede
sabato 02/10/2010
“su richiesta di un condominio il tribunale di Venezia mi ha nominato amministratore ex art. 1105 cc 3° comma, con incarico di redigere computo metrico delle opere urgenti da eseguirsi alle prati comuni, acquisire tre preventivi, scegliere quello più adatto al caso di specie e dirigere l'esecuzione dei lavori (oltre che all'aspetto della sicurezza). Chi mi deve liquidare le spese? Il tribunale oppure, come avviene per la nomina classica di amministratore condominiale in caso di disaccordo tra condomini, previo preventivo di spesa . Nel mio caso (sono architetto libero professionista) ho proposto l'applicazione delle tariffe professionali. Ho bisogno di un Vs autorevole giudizio. Grazie”
Consulenza legale i 08/10/2010

Sembra che la nomina di cui si parla sia più pertinentemente da inquadrarsi nel comma 4 dell'articolo 1105 c.c. Appare come il tipico caso di un antico edificio che si trova in stato di degrado, di proprietà comune a più soggetti che non sono stati capaci di trovare una volontà comune per stabilire di fare le opere necessarie alla sua ristrutturazione. Questo ha soddisfatto il requisito richiesto dalla norma citata per poter procedere alla nomina dell'amministratore: "non si prendono i provvedimenti necessari per per l'amministrazione della cosa comune o non si formi una maggioranza".

Normalmente, l'autorità giudiziaria richiesta per la nomina, si pronuncia precisamente sui poteri dell'amministratore, come in effetti sembra avere fatto nel caso proposto. Riguardo le spese relative all'incarico affidato, queste sono da intendersi tutte a carico dei comproprietari. Non solo il rimborso spese/compenso dell'amministratore ma anche i crediti che dovessero eventualmente maturare in campo a terze parti chiamate dall'amministratore stesso a svolgere prestazioni di vario genere (in questo specifico caso potrebbe essere il caso dell'impresa edile che curerà lo svolgimento delle opere di ristrutturazione).

Indichiamo, a corredo, qualche pronunciato giurisprudenziale relativo al comma 4 dell'art. 1105 c.c.:

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale degli arte. 1105, comma quarto, 1129, comma primo, c.c. 737 e ss. c.p.c. nelle parti in cui non prevedono che il ricorso introduttivo del procedimento per la nomina dell'amministratore del condominio da parte dell'autorità giudiziaria debba essere notificato agli altri condomini, questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione. * Corte cost., 27 novembre 1974, n. 267, in Arch. civ. 1975, 175.

L'amministratore della cosa comune nominato dall'autorità giudiziaria a norma dell'art. 1105, quarto comma, c.c., al pari dell'amministratore nominato dall'assemblea dei comproprietari, ha il mero compito di amministrare, non già quello di deliberare o di risolvere conflitti di diritti soggettivi tra i vari cointeressati; la risoluzione dei conflitti di diritti soggettivi tra i comproprietari costituisce, infatti, compito esclusivo dell'autorità giudiziaria in sede contenziosa, ovvero dell'autonoma condotta contrattuale degli interessati. * Cass. civ., sez. II, 9 febbraio 1977, n. 571.

Il ricorso all'autorità giudiziaria in sede di volontaria giurisdizione previsto dall'art. 1105 (quarto comma) c.c., per l'ipotesi in cui non vengano adottati i provvedimenti necessari all'amministrazione della cosa comune, è improponibile quando tra i partecipanti alla comunione si controverta sull'esistenza e sull'estensione di diritti soggettivi. * Cass. civ., sez. II, 17 giugno 1974, n. 1765.

Il provvedimento di nomina dell'amministratore adottato dal presidente del tribunale, a norma dell'art. 1129, comma 1, c.c., sul presupposto che il condominio ne sia sprovvisto, costituisce attività di carattere non giurisdizionale ma amministrativo, non essendo diretta a risolvere un conflitto di interessi ma solo ad assicurare al condominio l'esistenza dell'organo necessario per l'espletamento delle incombenze ad esso demandate dalla legge. Esso non è soggetto a reclamo innanzi alla corte d'appello, mancando una previsione normativa in tal senso (a differenza del provvedimento di revoca dell'amministratore adottato ai sensi del comma 3 del citato art. 1129 nonché dell'ultimo comma dell'art. 1131, per il quale il reclamo è previsto dall'art. 64 att. c.c.) con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., avverso il provvedimento della corte d'appello che abbia dichiarato inammissibile il reclamo contro lo stesso proposto. * Cass. civ., sez. II, 13 novembre 1996, n. 9942, Minelli c. Siani ed altri, in Arch. loc. e cond. 1997, 439.

L'amministratore di un compendio immobiliare nominato ex art. 1105, ultimo comma, c.c., non può, in virtù della fonte giudiziaria dei propri poteri, sottrarsi all'adempimento delle obbligazioni derivanti dalla precedente gestione. Egli, infatti, è effettivamente estraneo al bene gestito soltanto quale persona fisica, con la conseguenza che non risponde con il proprio patrimonio delle obbligazioni già contratte nell'interesse comune. * Trib. civ. Brescia, ord. 24 novembre 1999, Bonfiglio c. Soc. A.S.M., in Arch. loc. e cond. 2000, 98.

E' improponibile il ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. presentato da un condomino nel caso in cui non si adottino i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si formi una maggioranza ovvero se la deliberazione adottata non venga eseguita: in tali ipotesi deve essere prima promosso il procedimento di volontaria giurisdizione, in camera di consiglio, previsto dall'art. 1105, quarto comma, cod. civ. * Pret. civ. Taranto, 12 aprile 1988, Paduano Picciolo c. Condominio Via Di Palma n. 41, Taranto, in Arch. loc. e cond. 1988, 460.

Allorquando il provvedimento di nomina dell'amministratore di un condominio di edificio da parte dell'autorità giudiziaria, a norma dell'art. 1129 cod. civ., è impugnato perché affetto da nullità sotto il profilo dell'inesistenza del condominio, assumendosi che si verta, invece, in tema di comunione di cose, legittimi contraddittori sono soltanto i comproprietari di queste e non l'amministratore nominato, di cui implicitamente si contesta in radice lo stesso potere di gestione e rappresentanza. (Nella specie, la C.S., rilevato che era stato citato in giudizio il solo amministratore anche come comproprietario delle cose comuni, ha disposto l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri compartecipi ai sensi dell'art. 102 cod. proc. civ.). * Cass. civ., sez. II, 4 aprile 1985, n. 2309, Dalla Bona c. Lauwero.

L'amministratore giudiziario di un condominio è un mandatario dei condomini partecipanti alla comunione e pertanto il compenso allo stesso spettante, ove non concordato tra le parti, deve essere determinato in sede contenziosa e non può, quindi, essere liquidato dal giudice che ha provveduto alla nomina a norma dell'art. 1129, primo comma, c.c. * Corte app. civ. Lecce, sez. dist. Taranto, 3 maggio 1995, Marturano c. Condominio villaggio ‹‹Fatamorgana›› di Marina di Pulsano, in Arch. loc. e cond. 1996, 73. La domanda diretta ad ottenere dal giudice la risoluzione del contrasto insorto tra i comunisti in ordine alle sole modalità di realizzazione di interventi di riparazione della cosa comune, va proposta nelle forme camerali previste dall'art. 1105, quarto comma cod. civ., a nulla rilevando che, nel corso del giudizio contenzioso a tal fine promosso, siano sollevate questioni di conflitto su diritti soggettivi influenti sulla scelta della soluzione pratica da adottare. * Trib. civ. Monza, 24 febbraio 1987, Mufanò c. Sala e altri, in Arch. loc. e cond. 1987, 529.

Riguardo il compenso il professionista incaricato redigerà regolare parcella per le prestazioni svolte, secondo le tariffe stabilite dal tariffario professionale. I comunisti saranno tenuti a pagarla pro quota. In caso di mancato pagamento potrà essere utilizzato lo strumento del decreto ingiuntivo. La prova dell'incarico affidato sarà rappresentata dall'istanza del comunista che ha richiesto la nomina dell'amministratore e dal decreto di nomina dell'autorità giudiziaria che ha accolto la domanda, definendo le aree d'intervento.


RITA chiede
venerdì 17/09/2010

“mi può chiarire un dubbio? per un fabbricato indiviso fra due proprietari al 50% il giudice su richiesta di uno dei due nomina un amministratore giudiziario rifacendosi all'art 1105 c.c. questi deve amministrare anche i fitti degli inquilini o solo le quote condominiali'”

Consulenza legale i 21/09/2010
Anche i fitti: rientra comunque in un'attività di normale amministrazione. Sarà ad ogni modo il giudice a definire esattamente i poteri dell'amministratore nell'atto di nomina.

V. S. chiede
mercoledì 15/11/2023
“Salve, vorrei aggiornarvi sulla situazione già prospettata nel quesito n. Q 202333935 e chiedervi come comportarmi: ho rinviato diffida al conduttore ancora moroso, invocando anche la clausola risolutiva dell'art. 6 del contratto di locazione che vi avevo inviato, in quanto ha sublocato il locale (il realtà io so che è stato non sublocato ma ceduto il ramo di azienda senza nemmeno avvertirmi, e senza che l'attività fosse mai stata avviata da parte sua ed anche qui bisogna vedere se è simulata o meno) ed invocando di nuovo la sua mala fede nella scrittura da noi sottoscritta con richiesta canoni insoluti fino dall'inizio del contratto.
Lui mi ha risposto dicendo di non aver mai sublocato l'immobile quindi negando (faccio presente di aver preso scontrini dove risulta altra società che ha lavorato e fatto foto) e dicendo che i canoni non erano dovuti perche ha svolto i lavori del quadro fessurativo quindi ha adempiuto alle sue obbligazioni (lavorava invece mentre faceva i lavori che sono durati solo due mesi).
Inoltre riferisce che da poco con gli altri comproprietari che sono la maggioranza, hanno firmato un altro foglio da allegare al contratto con cui si conferma quanto precedenetemente firmato da tutti, ovvero nuova decorrenza termine del contratto e defalco somme da lui già versate a noi locatori ed anticipate per i lavori.
Ora, stante le bugie sulla sublocazione, io vorrei agire con rito locatizio chiedendo la risoluzione del contratto in virtù dell'art 6 del contratto e pagamento dei canoni. Lui sicuramente si difenderà producendo la scrittura ultima firmata solo dalla maggioranza (ma a me mai comunicata, ne avvertito!) e sostenendo la mia carenza di legittimazione. In virtù della sentenza delle sez unite n. 11135 del 2012 non ho qualche margine per agire da solo?
Inoltre per quanto riguarda la sublocazione lui o riferirà della cessione del ramo di azienda (ma ne dubito perchè non l ha fatto ora), oppure dirà soltanto che la maggioranza ha firmato (si ma la maggioranza non lo ha autorizzato a sublocare!).
o terza opzione impugnare quella "delibera" ma non penso che lo sia, ovvero quel foglio firmato dagli altri ultimamente con cui si conferma quanto già stabilito da tutti nella precedente scrittura (nuova decorrenza termine contratto etc..), perchè ai sensi dell'art 1109 comma 1 e 2 non sono stato avvertito e perchè reca un pregiudizio (ma reca però un pregiudizio solo soggettivo credo e non anche alla cosa) ma dovrei citare anche tutti gli altri comproprietari, preferisco evitare.
faccio presente inoltre che avevo mandato prima anche una lettera agli altri proprietari dicendo che non ero d'accordo a rifirmare nulla con il conduttore finchè non ci avrebbe corrisposto tutti i canoni e pagato il condominio e prospettando si agire nei loro confronti se avessero preso iniziative contrarie ai nostri interessi.
Non mi si solo filati evidentemente. grazie
p.s.: i documenti li avevo già inviati tutti tranne l'ultima scrittura che non ho”
Consulenza legale i 06/12/2023
Il presente parere si occuperà di trattare la questione della cessione del ramo d’azienda da parte dell’azienda conduttrice e la legittimazione attiva del singolo comproprietario/locatore.

Per quanto riguarda le contestazioni relative alla transazione tra gli altri locatori/comproprietari e il conduttore si rimanda al parere Q20233935 che ha già trattato in maniera esaustiva la questione.
Si sottolinea soltanto come una nuova scrittura privata che vada a confermare quanto contenuto nella precedente transazione, non faccia altro che confermare la volontà della maggioranza di rinunciare ai canoni della locazione per tutta la durata dei lavori indipendentemente dal fatto che la società conduttrice abbia nel frattempo svolto attività lavorativa.

L’art. 6 del contratto di locazione stabilisce che non è possibile la sublocazione o la cessione del contratto. Tale clausola contrattuale però non supera la prescrizione contenuta nell’art. 36 L. 392/1978 che garantisce il diritto del conduttore di sublocare l’immobile o cedere il contratto purché unitamente alla cessione dell’azienda, con obbligo di comunicazione con raccomandata al locatore che può opporsi entro 30 giorni per gravi motivi.
La ratio legis di questa norma è quella di garantire la prosecuzione dell’attività commerciale agevolando il trasferimento delle aziende (Cass. civ. n. 6402/1990).
Infatti la Cassazione ha affermato che sia possibile la cessione o la sublocazione del contratto di locazione, qualora sia insieme ceduta l’azienda, anche in presenza di un patto che escluda tale facoltà (Cass. civ. n. 1966/2000).

Ciò significa che, se la conduttrice ha comunicato anche solo ad un locatore nei modi stabiliti dall’art. 36 L. Equo Canone, l’intenzione di cedere il contratto unitamente al ramo d’azienda e il locatore non abbia gravi motivi per impedirlo, non è possibile chiedere la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento ai sensi dell’art. 6 del contratto di locazione.
Se invece non l’avesse comunicato, lo scrivente ritiene che si possa intraprendere un’azione di risoluzione per inadempimento.

Per quanto riguarda la legittimazione attiva del singolo comproprietario, si osserva quanto segue.
La giurisprudenza di legittimità ha espresso il principio secondo cui la presunzione del consenso degli altri comunisti contenuta nell’art. 1105 del c.c. è superata, in caso di domande di risoluzione del contratto di locazione e pagamento dei canoni insoluti, quando risulti l’espressa volontà contraria degli altri comproprietari (Cass. civ. n. 9556/2017).

Nel caso di specie non si ha notizia della espressa contrarietà degli altri comproprietari / locatori all’eventuale domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento dell’art. 6 del contratto di locazione.
Dal comportamento generale tenuto dalle parti finora sembra però che non ci sia un’intenzione da parte della maggioranza di risolvere il contratto.
Si consiglia, quindi, di verificare in primo luogo se ci sia stata una cessione del contratto con il ramo d’azienda e se i locatori siano stati avvertiti.
In secondo luogo, qualora ciò non sia avvenuto, contattare gli altri comproprietari facendo presente la questione e chiedendo espressamente la volontà di risolvere il contratto per i motivi suddetti.

In ultima istanza si ritiene che il comproprietario di minoranza possa impugnare ex art. 1109 del c.c. le eventuali deliberazioni di cui non è stato preventivamente informato ai sensi dell’art. 1105 comma 3 del Codice civile tenendo presente che il termine di decadenza è di 30 giorni dalla deliberazione.


C. R. chiede
martedì 14/11/2023
“Buongiorno.
Sono usufruttuario di un appartamento presso uno stabile che presenta riscaldamento con caldaia centralizzata.
Siamo in procinto di effettuare la sostituzione integrale della caldaia per vetustà della centrale termica.
Tale sostituzione è da considerarsi manutenzione ordinaria o straordinaria e gli oneri di tale intervento devono essere a carico dell'usufruttuario o del nudo proprietario?
Qualora fosse a carico del nudo proprietario, leggevo che l'usufruttuario deve corrispondere al nudo proprietario per la durata dell'usufrutto gli interessi per le somme spese per le manutenzioni straordinarie.
A quanto ammonterebbero tali interessi, come verrebbero calcolati?
Grazie”
Consulenza legale i 17/11/2023
A parere di chi scrive tale tipo di manutenzione deve considerarsi assolutamente di natura straordinaria e pertanto deve essere accollata al nudo proprietario.
Tale affermazione trova conforto negli artt. 1104 e 1105 del c.c. In sostanza la normativa citata pone a carico dell’usufruttuario le spese inerenti la manutenzione ordinaria del bene oggetto di usufrutto e a carico del nudo proprietario le spese attinenti alla manutenzione straordinaria del cespite, specificando che rientrano nella manutenzione straordinaria quelle necessarie ad assicurare la stabilità dei muri maestri e delle volte, la sostituzione delle travi, il rinnovamento, per intero o per una parte notevole, dei tetti, solai, scale, argini, acquedotti, muri di sostegno o di cinta.

Gli interventi appena indicati sono elencati al 2° co. dell’art. 1105 del c.c.: come ha ben chiarito a giurisprudenza, tale elenco non ha un carattere tassativo, ben potendo essere attribuite al nudo proprietario altre tipologie di interventi straordinari non espressamente indicati in tale norma. Per stabilire infatti se una riparazione non suscettibile di essere ricompresa nell’elenco di cui all’art. 1105 del c.c. debba essere considerata straordinaria oppure ordinaria occorre considerare le caratteristiche dell’intervento e dei suoi costi: la riparazione è straordinaria tutte le volte in cui si tratti di sostituzione o ripristino di parti essenziali della cosa e, in generale, di opere che incidono sulla sua struttura, sostanza e destinazione.

Come ben prevede l’ultimo comma dell’art. 1105 del c.c., l’usufruttuario, se non dispensato dal nudo proprietario, dovrà corrispondere a quest’ultimo gli interessi sulla somma spesa per la manutenzione straordinaria, in questo caso per la sostituzione della caldaia.
Su questa parte della norma in commento il contenzioso è piuttosto scarno e non si sono reperite pronunce di rilievo: ad ogni modo al fine della determinazione della somma e della sua corresponsione si dovrà applicare all’ammontare della spesa corrisposta dal nudo proprietario il saggio di interesse legale ultimo vigente ai sensi dell'art. 1284 del c.c., il quale al momento in cui si sta scrivendo è pari al 5% in ragione annua: la somma così risultante dovrà essere poi corrisposta dall’usufruttuario alla scadenza di ciascun anno solare.

Si presti attenzione.
Dando per scontato che il cespite oggetto di usufrutto sia un appartamento in condominio, la somma capitale su cui dovrà essere applicato il saggio di interesse non è ovviamente l’ammontare complessivamente speso dall'intera compagine condominiale per installare la nuova caldaia centralizzata, ma quella parte di spesa direttamente attribuita al nudo proprietario sulla base dei millesimi di proprietà nel bilancio consuntivo condominiale.


Anonimo chiede
giovedì 09/11/2023
“Salve, sono nuda proprietaria di un appartamento di cui è usufruttuaria l'ex-moglie di mio padre (deceduto) la quale è in carico ai servizi sociali e con AdS. L’immobile avrebbe bisogno di manutenzioni: una camera da letto con pareti ammuffite; persiane e infissi da restaurare; giardino da manutenere; garage con finestra rotta quindi esposto alle intemperie; tetto del garage, già fatto riparare a spese mie, che perdeva calcinacci in una piccola porzione frontale; essendo la casa vecchia anche gli impianti sono a rischio rottura. Quali sono, tra tutte queste, le manutenzioni che spettano all'usufruttuario e quali a me nudo proprietario? Per quanto riguarda le manutenzioni che spettano al nudo proprietario ho letto sul vostro sito che la legge consente di non pagare immediatamente e di rimandare il conteggio al momento del rientro in possesso del bene, è corretto?
Vista la giovane età (65 anni) dell'usufruttuario è possibile pensare che se ci fosse la necessità di un intervento straordinario (per esempio cambio caldaia) questo sia imputabile all'usufruttuario che magari per altri 20 anni userà l'impianto riconsegnandolo comunque vetusto?
Infine, ci sono parti d'intonaco distaccate sul soffitto del balcone verandato (sopra l'appartamento c'è il tetto) questo potrebbe spettare al condominio?
In attesa di una vostra cortese risposta porgo i miei migliori saluti.”
Consulenza legale i 16/11/2023
Il quesito trova la sua risposta negli artt. 1004 e 1005 del c.c. In sostanza la normativa citata pone a carico dell’usufruttuario le spese inerenti la manutenzione ordinaria del bene oggetto di usufrutto e a carico del nudo proprietario le spese attinenti alla manutenzione straordinaria del cespite, specificando che rientrano nella manutenzione straordinaria quelle necessarie ad assicurare la stabilità dei muri maestri e delle volte, la sostituzione delle travi, il rinnovamento, per intero o per una parte notevole, dei tetti, solai, scale, argini, acquedotti, muri di sostegno o di cinta.

Gli interventi appena indicati sono elencati al 2° co. dell’art. 1105 del c.c.: come ha ben chiarito a giurisprudenza, tale elenco non ha un carattere tassativo, ben potendo essere attribuite al nudo proprietario altre tipologie di interventi straordinari non espressamente indicati in tale norma. Per stabilire infatti se una riparazione non suscettibile di essere ricompresa nell’elenco di cui all’art. 1105 del c.c. debba essere considerata straordinaria oppure ordinaria occorre considerare le caratteristiche dell’intervento e dei suoi costi: la riparazione è straordinaria tutte le volte in cui si tratti di sostituzione o ripristino di parti essenziali della cosa e, in generale, di opere che incidono sulla sua struttura, sostanza e destinazione.
Per tutti questi motivi, stante l’importanza degli interventi che richiede l’immobile si ritiene che la gran parte delle opere indicate nel quesito debbano essere sopportate dal nudo proprietario.

Anche la giurisprudenza purtroppo sotto questo aspetto è molto favorevole alle ragioni dell’usufruttuario: per esempio Cass.Civ., Sez.II, n.4426 del 24.02.2009 ha precisato come quest’ultimo sia tenuto solo a provvedere agli interventi di manutenzione ordinaria e non a quelli più profondi di restauro sul bene; l’usufruttuario secondo tale pronuncia non sarebbe neppure tenuto ad avvisare il nudo proprietario della necessità di eseguire i lavori.

A dire la verità l’art. 1004 del c.c., indica un modo per imputare tutti o parte dei lavori straordinari necessari all’usufruttuario: la norma in commento ci dice infatti che sono imputati all’usufruttario tutti quei lavori straordinari resi necessari dall’inadempimento degli obblighi di ordinaria manutenzione. Strettamente collegata a tale norma è inoltre il successivo art. 1015 del c.c., il quale prevede che il giudice possa disporre la cessazione dell’usufrutto qualora il suo titolare ne faccia abuso lasciando andare in perimento il bene per mancata esecuzione delle manutenzioni ordinarie.
Il percorso indicato dalla normativa citata non è però facile da percorrere in quanto sarebbe innanzitutto necessario dare incarico ad un perito affinché predisponga un elaborato ove si attesti come la situazione di manutenzione in cui versa l’immobile non sia dovuta al naturale scorrere del tempo, ma al contrario sia imputabile alla negligenza dell’usufruttuario il quale non ha eseguito puntualmente la manutenzione ordinaria da lui dovuta. Se si ottenesse una perizia di tale tenore, rivolgendosi poi ad un legale si potrebbe adire il giudice affinché accolli sull’usufruttuario l’esecuzione dei lavori straordinari normalmente attribuiti in capo al nudo proprietario, o addirittura si potrebbe arrivare a richiedere la cessazione dell’usufrutto ai sensi dell’art. 1015 del c.c..
Purtroppo in assenza di tutto ciò il nudo proprietario è tenuto a provvedere puntualmente alle riparazioni straordinarie a lui accollate dalla normativa che si è esaminata: il codice civile non offre infatti ulteriori scappatoie.

F. C. chiede
giovedì 21/09/2023
“Siamo 3 sorelle e 1 fratello abbiamo ereditato un appartamento al mare che abbiamo sempre gestito di comune accordo dividendoci tra luglio e agosto i 15 giorni di ferie per ciascuno e concordando anche i vari periodi (considerando che mio fratello può fare le ferie solo 15 giorni in agosto). Una sorella ha acquistato un suo appartamento e ci ha comunicato che per questo appartamento (quello che abbiamo ereditato); non vuole più pagare il 25% delle spese condominiali. Io sostengo e ritengo visto che lei ha un 25% di proprietà che le debba pagare, lei sostiene che non usufruendo dell’ appartamento per 15 giorni non le debba pagare, anzi vuole affittare i suoi 15 giorni a persone estranee. L’altra sorella e fratello si sono proposti a pagare loro il 25% delle sue spese condominiali per il quieto vivere e perché non affitti l’appartamento di famiglia con tutte le nostre cose all’interno a persone estranee. Non accetta neanche questo perché io non partecipo al pagamento delle spese .le mie domande sono: deve pagare le spese condominiali? Può affittare per 15 giorni l’appartamento (tengo a precisare che noi tre non siamo assolutamente d’accordo) lei sostiene che dei suoi 15 giorni fa quello che vuole anche se noi non siamo d’accordo.Come ci si deve comportare? Ma lei può decidere senza tener conto del parere degli altri tre? Può affittare senza il consenso della maggioranza ?Inoltre vuole decidere i periodi di ferie ad estrazione senza più considerare chi può fare le ferie e quando! Se riesce a darmi delle risposte chiare in modo comprensibile e come possiamo fare e come intervenire, la ringrazio fin d’ora”
Consulenza legale i 28/09/2023
Il pagamento delle spese condominiali.
L’art. 1104 del c.c. stabilisce il principio fondamentale secondo il quale ciascun partecipante alla comunione deve partecipare alle spese necessarie alla conservazione della cosa comune, salvo la possibilità di rinunciare alla sua quota di comproprietà. Nel caso di un appartamento in condominio in comproprietà tra più soggetti gli oneri condominiali rientrano tra le spese indicate dall’art. 1104 del c.c.: per tale motivo nel caso specifico ciascun comproprietario deve contribuire al pagamento degli oneri in proporzione della rispettiva quota.
Ovviamente se ciò non avvenisse gli altri partecipanti alla comunione avrebbero titolo per citare in giudizio l’altro proprietario inadempiente e pretendere il pagamento della sua parte di oneri, fatta salvo la prescrizione del diritto.

La possibilità di concedere in locazione l’appartamento comune.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la pronuncia n. 11135 del 04.07.2012 facendo applicazione dell’istituto della gestione di affari altrui ha stabilito che rimane valido il contratto di locazione della cosa comune stipulato da uno solo dei comproprietari in autonomia senza l’intervento o anche all’ insaputa degli altri partecipanti alla comunione. La pronuncia in esame fa salva comunque la facoltà per gli altri comproprietari di opporsi con comunicazione scritta ad un contratto di locazione di cui non erano stati debitamente preavvisati. Tale opposizione seppur non fa venir meno la validità del contratto stipulato nonostante il dissenso degli altri partecipanti alla comunione, apre a questi ultimi la possibilità di poter richiedere all’altro proprietario e all’inquilino la corresponsione di quella parte di canone commisurato alla quota di loro comproprietà, oltre alla possibilità di richiedere il risarcimento dei danni se patiti.
Al fine quindi di garantirsi la miglior tutela possibile, è essenziale che i comproprietari dissenzienti inviino alla sorella “ribelle” una raccomandata con ricevuta di ritorno con la quale chiaramente esprimere il loro dissenso circa la possibilità di cedere in locazione anche per un breve periodo il bene comune.

L’uso turnario della casa vacanze.
Anche sotto questo aspetto le pretese avanzate dalla controparte sono del tutto prive di fondamento giuridico. Sicuramente i comproprietari riuniti nella assemblea di cui all’art. 1105 del c.c. hanno pieno diritto di decidere le modalità di uso del bene comune, modalità d’uso che può anche consistere in un uso a turni del bene, così come è stato fatto fino ad ora. Il 2° comma dell’art. 1105 del c.c. dice chiaramente che in relazione agli atti di ordinaria amministrazione (in cui rientra sicuramente la decisione circa le modalità di utilizzo del bene), le decisioni prese dalla maggioranza dei comproprietari (calcolata in proporzione al valore delle quote) è vincolante per la minoranza dissenziente.
Se quindi, in linea teorica, sarebbe possibile modificare le modalità di utilizzo della casa vacanza comune decidendo anche di estrarre a sorte i vari periodi in cui ciascun comproprietario può fare le ferie è anche vero che ogni modifica in proposito deve essere approvata dalla maggioranza dei partecipanti. Per tale motivo se la sorella ribelle non convincerà almeno 2 dei quattro fratelli a modificare le modalità di utilizzo del bene non potrà imporre unilateralmente una estrazione a sorte dei periodi di vacanza.


F. C. chiede
martedì 03/01/2023 - Puglia
“Con riferimento alla richiesta di consulenza n. Q202232502, considerando che i bilanci indicati non saranno a disposizione in quanto l’amministratore non li ha presentati e quindi non potranno essere approvati e probabilmente si procederà alla nomina di nuovo amministratore come si dovrà procedere per “adire l’Autorità Giudiziaria perché emetta i provvedimenti di volontaria giurisdizione, necessari per la gestione e il godimento del bene comune”?”
Consulenza legale i 10/01/2023

I procedimenti di volontaria giurisdizione sono disciplinati dall’art. 737 c.p.c. e si introducono con il deposito di un ricorso da parte dell’interessato - o degli interessati - al Giudice competente.
Viene fissata l’udienza per la comparizione delle parti e il Tribunale emana poi il decreto motivato.
Saranno i giudici che compongono il Collegio a decidere se è necessaria attività istruttoria, se nominare un amministratore giudiziario o dare direttamente indicazioni sulle attività necessarie da compiere.

È dibattuto in dottrina e giurisprudenza se per i procedimenti di volontaria giurisdizione sia obbligatorio il patrocinio di un legale o se la parte possa presentare in autonomia il ricorso.
Ai fini della nomina di un amministratore giudiziario ai sensi dell’art. 1105 del c.c. e dei provvedimenti ivi indicati, si consiglia di rivolgersi in ogni caso ad un legale.

Si segnala, però, che in caso di nomina di un nuovo amministratore, possa occuparsi lui di redigere i bilanci degli anni precedenti senza che sia necessario rivolgersi all’Autorità Giudiziaria.



F. C. chiede
giovedì 15/12/2022 - Puglia
“PREMESSO CHE
in qualità di condomini, ai sensi dell’art 66 disp att cc, è stata chiesta all’amministratore di un condominio la convocazione di assemblea chiedendo altresì di inserire all’ordine del giorno i seguenti punti:
1. approvazione bilancio consuntivo 2019/preventivo 2020
2. approvazione bilancio consuntivo 2020/preventivo 2021
3. approvazione bilancio consuntivo 2021/preventivo 2022
4. revoca o riconferma dell’amministratore in carica / nomina del nuovo amministratore;
5. varie ed eventuali,
essendo passati i previsti 10 gg senza avere alcun riscontro si vorrebbe procedere alla convocazione in autonomia alla convocazione e allo svolgimento dell’assemblea.
Alla luce di quanto sopra si chiede se:
1. l’assemblea da convocarsi da parte dei condomini deve essere, formalmente, denominata ordinaria o straordinaria?
2. la convocazione deve essere notificata anche all’amministratore?
3. considerando che, probabilmente, i bilanci non verranno approvati, si può ugualmente procedere alla revoca del vecchio amministratore e nomina di nuovo?
4. nel caso si possa procedere a nomina di nuovo amministratore come ci si comporta con riguardo ai bilanci rimasti in sospeso?

Ringraziando con anticipo e porgo Distinti saluti

Consulenza legale i 23/12/2022
In caso di inerzia da parte dell’amministratore di Condominio nella convocazione dell’assemblea richiesta dai condomini, questi hanno la possibilità di provvedere direttamente, convocandola nel rispetto delle prescrizioni contenute nell’art. 66 disp. att. c.c. a pena di annullabilità ai sensi dell’art. 1137 del c.c..
Dovranno indicare nell’Ordine del Giorno tutti i punti che verranno sottoposti a votazione da parte dell’assemblea.

Per quanto riguarda il tipo di denominazione da dare alla assemblea, il riferimento è l’art. 66 disp. att. c.c. che stabilisce che l’assemblea convocata annualmente per le deliberazioni contenute nell’art. 1135 del c.c. è di tipo ordinario.
È lo stesso art. 66 disp. att. c.c. che riporta, al secondo comma, la possibilità per i condomini di convocare su propria iniziativa sia l’assemblea ordinaria che la straordinaria.

L’assemblea ordinaria delibera su atti che riguardano la normale gestione e la conservazione del bene comune.
Nello specifico, quindi, l’approvazione dei bilanci annuali e la revoca e nomina dell’amministratore, fanno parte delle ordinarie azioni di gestione di un Condominio come espressamente indicate nell’art. 1135 c.c.

La legge non prescrive nulla in relazione alla necessità di trasmettere la convocazione anche all’amministratore, che non ha alcun poter decisionale all’interno del Condominio poiché svolge solo un ruolo di rappresentanza.
Le deliberazioni approvate in sua mancanza, quindi, non saranno in alcun modo viziate.

Si rileva che fa parte dei poteri dell’assemblea ordinaria nominare e revocare l’amministratore ai sensi dell’art. 1135 c.c. con la maggioranza prevista dall’1136 comma 2 del c.c. .
Non ci sono quindi preclusioni alla possibilità di nominare un nuovo amministratore anche in mancanza dell’approvazione del bilancio, essendo due diversi argomenti all’ordine del giorno, autonomi tra loro.

Il Codice civile in materia di Condominio nulla indica in relazione alla situazione di stallo nella gestione del bene comune da parte dei condomini.
L’art. 1139 del c.c. rinvia alle norme generali sulla comunione, art. 1101 del c.c. e seguenti, per tutto quanto non espressamente disciplinato.
La norma di riferimento qui applicabile è, quindi, l’1105 comma 4 del c.c. che statuisce la possibilità per ciascun partecipante di adire l’Autorità Giudiziaria in caso di impossibilità da parte dell’assemblea di prendere i provvedimenti necessari, di formare una maggioranza o di eseguire una deliberazione.
Poiché l’oggetto del giudizio è la gestione del bene comune e non i diritti soggettivi del condomino, non è possibile rivolgersi al giudice in sede contenziosa bensì come volontaria giurisdizione (Cass. civ. n. 18038/2020).
I provvedimenti così emanati sono sempre suscettibili di essere revocati o modificati e sono reclamabili davanti alla Corte d’Appello.

In conclusione, nel caso di specie, i condomini possono convocare l’assemblea ordinaria senza doverlo preventivamente comunicare all’amministratore inerte, revocarlo e nominarne uno nuovo.
Possono approvare i bilanci consuntivi per gli anni precedenti e il preventivo della nuova gestione.
In caso di impossibilità ad approvare uno dei punti all’Ordine del Giorno, ciascun condomino può adire l’Autorità Giudiziaria perché emetta i provvedimenti di volontaria giurisdizione, necessari per la gestione e il godimento del bene comune.


A. B. chiede
venerdì 04/11/2022 - Campania
“Salve,
abito in un condominio di tre scale con un cancello esterno il cui citofono è rotto ormai da un anno e per tale motivo il cancello, su richiesta dei condomini, rimane sempre aperto.
L'amministratore, che è anche condomino, è in carica dal 2016.
I lavori per il citofono ad oggi non sono partiti nonostante due delibere assembleari (del 21 febbraio 2022 e del 15 ottobre 2022) dove l'amministratore ha avuto ampio mandato per eseguire i lavori, individuando anche l'impresa appaltatrice.
Il risultato è che nel frattempo i costi sono lievitati. Alle mie richieste telefoniche risponde che la ditta ha avuto problemi per altre chiamate urgenti, propone nuove date che vengono sempre disattese.
Le delibere per il citofono sono intrecciate con quelle per il superbonus per il quale mi sono espressa contro in assemblea, ma favorevole ai lavori per il citofono.
Vorrei allegare le due convocazioni e le due delibere relative ai lavori per il citofono.

Inoltre tale amministratore è inadempiente sotto diversi profili: non ha mai presentato un bilancio neanche preventivo da quando è in carica (!), non predispone i fondi speciali per lavori straordinari nemmeno per il superbonus.

Come posso fare per far sì che adempia ad aggiustare il citofono nel più breve tempo possibile?
Posso chiedere i danni? In caso di malattia di un parente convivente devo rimanere a casa a controllare che il cancello sia aperto per la visita fiscale.

grazie”
Consulenza legale i 10/11/2022
Le irregolarità compiute dall’amministratore nella gestione dello stabile sono sicuramente diverse e vanno dalla mancata esecuzione di ben due delibere assembleari fino a spingersi al grave inadempimento di non presentare un rendiconto condominiale.
Anche se l’amministratore è interno e non svolge tale attività professionalmente, non viene meno l’obbligo, nel momento in cui si assume l’ufficio, di far fronte a tutti gli adempimenti che la carica comporta.
Vi sono quindi tutti gli estremi per richiederne la revoca per giusta causa e ciò, ai sensi del co. 11° dell’art. 1129 del c.c,. può essere raggiunto attraverso due strade: o si convoca una apposita riunione assembleare in cui tra gli argomenti all’ordine del giorno viene inserito espressamente la revoca dell’attuale amministratore e la nomina di un sostituto, oppure ci si rivolge direttamente alla autorità giudiziaria.
Visto la gravità dei comportamenti tenuti dall’amministratore, è proprio il ricorso alla autorità giudiziaria la via che ci si sente di consigliare: sovente il richiedere la revoca direttamente alla assemblea non porta al risultato sperato, in quanto tutto si può impantanare tra tempistiche necessarie per convocare la riunione e indecisioni degli altri proprietari, magari alimentate proprio dall’amministratore uscente.

La revoca giudiziaria prevista dal co. 11° dell’art.1129 del c.c. può essere innanzitutto incardinata su iniziativa di ciascun condomino ed è un tipico procedimento di volontaria giurisdizione, caratterizzato quindi da tempistiche relativamente celeri ed un rapido contraddittorio con l’amministratore uscente. Nel ricorso introduttivo si dovrà rendere conto delle diverse inadempienze compiute, che nel caso specifico rasentano quasi l’assenza di gestione. Ai sensi dell’art. 64 disp.att. del c.c. il Tribunale adito si pronuncerà sul ricorso presentato con decreto motivato adottato in Camera di Consiglio, provvedimento che comunque rimane appellabile nel termine di 10 giorni alla Corte di Appello competente.
Con il provvedimento di revoca il Tribunale nominerà un amministratore professionista, il quale però potrà sempre essere sostituito dalla assemblea di condominio se non gradito agli altri proprietari: tuttavia, il comma 13 dell'art. 1129 del c.c. chiarisce che l'assemblea non può nominare nuovamente l'amministratore a suo tempo revocato dalla autorità giudiziaria.

Quanto descritto è sicuramente il primo passo poi per poter pensare ad una successiva richiesta risarcitoria nei confronti dell’amministratore per i danni causati dalle sue inadempienze, richiesta la quale potrà provenire sia dalla compagine condominiale nel suo complesso, se i danni colpiscono interessi dello stabile, ma anche da un singolo proprietario se si riterrà lui personalmente danneggiato dalle condotte tenute dall’amministratore.

Nel caso specifico non si è in grado di dire allo stato delle cose se è possibile procedere ad una richiesta risarcitoria per la mancata riparazione del citofono (che comunque rimane un comportamento inadempiente, valido, unitamente agli altri comportamenti descritti, per chiedere la revoca), in quanto il quesito sul punto non offre spunti sufficienti per un migliore approfondimento: si invita sotto questo aspetto ad avere un contatto diretto con un legale.

Al di là di tutto quanto detto finora, rimane comunque l’esigenza di rimettere in funzione l’impianto citofonico nel più breve tempo possibile. Sotto questo aspetto l’unica strada praticabile, stante l’inattività di chi dovrebbe provvedere, è quello di inviare all’amministratore una raccomandata in cui si fa presente la situazione del bene comune, metterlo quindi in mora, ed avvertirlo che se non si provvederà a dare immediata esecuzione alle delibere del febbraio ed ottobre del 2022 si provvederà a far eseguire le riparazioni necessarie a proprie spese, salvo poi richiederne al condominio il rimborso ex art. 1134 del c.c.
Tale norma ammette infatti che il singolo condominio possa assumere la gestione delle parti comuni dell’edificio senza autorizzazione dell’amministratore o della assemblea e chiedere il rimborso delle spese sostenute nel caso in cui si tratti di una spesa urgente.
È giusto dire che la giurisprudenza assolutamente costante adotta una interpretazione restrittiva del concetto di spesa urgente previsto dalla norma in esame: l’ordinamento non vuole favorire infatti l’ingerenza del singolo proprietario nella gestione del bene comune in sostituzione degli organi condominiali. Tuttavia, nel caso specifico si potrebbe far leva sulla circostanza che la spesa è necessaria per far riacquistare al citofono la sua piena ed effettiva funzionalità (Corte di Appello di Firenze n.114 del 16.01.2020), allo stato attuale del tutto inesistente, e che il funzionamento dell’impianto è essenziale per garantire la sicurezza degli abitanti dello stabile. Si ritiene che tale ultima argomentazione sia molto forte e possa avere una forte presa in un ipotetico contenzioso se il palazzo è abitato da persone avanti in età o da famiglie con minori o anche da persone con malattie varie e vari handicap.

Se non si desidera anticipare di tasca propria le spese di riparazione, che rimane sicuramente la via più rapida per ottenere il risultato sperato, l’unica strada alternativa è quella di affiancare al ricorso ex art. 1129 del c.c. già detto sopra, un ricorso ai sensi del comma 4 dell’art. 1105 del c.c.
Tale norma, prevista nella disciplina della comunione ordinaria ma applicabile anche al condominio, prevede che nel caso in cui l’amministratore non dia esecuzione alle delibere adottate dalla assemblea, il singolo condomino possa rivolgersi al giudice il quale con decreto motivato può adottare i provvedimenti che ritiene necessari e nominare anche un amministratore ad hoc (da non confondersi con la figura nominata a seguito del ricorso ex art. 1129 del c.c.). Tale amministratore, sostituendosi momentaneamente a quello in carica, avrà l’esclusivo compito di dare attuazione a quanto deliberato dalla assemblea in merito alla riparazione del citofono.


A. SANDRO chiede
mercoledì 25/08/2021 - Lazio
“Sono un multiproprietario di un residence di 90 appartamenti condivisi ciascuno da 9 multiproprietari, pertanto 810 multiproprietari. Due contabilità diverse, una per il condominio (reception, sala attesa, giardini, piscina, lavanderia..), altra contabilità per le singole multiproprietà. Gestite entrambe da un unico amministratore.
Può l'amministratore rappresentare e votare nella assemblea annuale del condominio di approvazione bilanci complessivi anche se distinti sia del condominio che delle singole proprietà, deleghe dei MP non presenti o che non abbiano data specifica delega a lui amministratore ? Preciso che nel regolamento delle comunioni (fatto dal costruttore più di 30 anni fa) gli sarebbe consentito. Ma è ammissibile che un amministratore si approvi da solo i bilanci ? Grazie della risposta.”
Consulenza legale i 02/09/2021
Il regolamento della multiproprietà inevitabilmente è antecedente alla riforma del condominio e le sue disposizioni in materia di delega in assemblea devono considerarsi superate, almeno in parte.

Prima della novella del 2012, infatti, era assolutamente lecito e prassi assolutamente diffusa dare delega all’amministratore affinché votasse in nome e per conto del proprietario delegante. Inoltre, era ben possibile che l’amministratore per mezzo della delega accentrasse su di sé la totalità dei millesimi dei componenti il condominio, di fatto auto approvandosi il bilancio. La normativa ante riforma, infatti, non prevedeva alcun limite di teste e millesimi alla raccolta delle deleghe e un unico soggetto poteva trovarsi portatore del consenso della totalità dei condomini; l’unico limite a ciò era rappresentato da specifiche disposizioni nei regolamenti di condominio che comunque non erano sempre presenti, come in questo caso.

Il nuovo art. 67 disp. att. del c.c. mantiene la possibilità che si possa intervenire alla assemblea di condominio per mezzo di delega scritta, ma qualora i proprietari siano più di venti il singolo delegato non può rappresentare più di un quinto dei condomini e del valore proporzionale, accentrando su di se non più di 200 millesimi. La riforma del 2012 introduce, inoltre, il divieto assoluto di conferire deleghe all’amministratore: il 5° co. dell’articolo in commento dispone che "all'amministratore non possono essere conferite deleghe per la partecipazione a qualunque assemblea". Per la validità della delega, inoltre, è necessario a pena di nullità la forma scritta.

Per espressa disposizione del successivo art. 73 disp. att. del c.c., quanto disposto in materia di delega non può essere derogato dai regolamenti di condominio o comunque da accordi presi dalla unanimità dei proprietari, e quindi le norme del regolamento vigenti nella multiproprietà descritta nel quesito devono considerarsi superate dalle disposizioni di legge sopravvenute e quindi non più in vigore.

Alla luce del nuovo art 67 disp. att. del c.c. è opportuno che ciascuna delle 90 multiproprietà elegga tra i suoi 9 partecipanti un rappresentante comune, il quale sarà chiamato a partecipare in nome e per conto degli altri 8 deleganti alle assemblee (si veda il 2°co. dell’art. 67 disp. att. del c.c.). I rappresentanti delle multiproprietà potranno a loro volta conferire delega o a soggetti estranei al complesso (ma mai all’amministratore!), o a determinati proprietari individuati volta per volta. I soggetti delegati dai rappresentanti potranno però essere portatori di tante deleghe che rappresentino non più di 18 teste (90/5= 18), le quali teste dovranno essere portatrici di non più di 200 millesimi.

E’ chiaro che alla luce di quanto descritto se l’amministratore continuerà ad auto approvarsi i bilanci la delibera assembleare potrà essere impugnata innanzi all'autorità giudiziaria da ciascun condomino. L’ impugnazione dovrà però essere proposta nei rigidi termini previsti dall’art. 1137 del c.c.: 30 giorni decorrenti dal giorno in cui il verbale di approvazione del bilancio è stato comunicato ai singoli multiproprietari.

Le considerazioni finora svolte, trovano applicazione solo per l’approvazione del bilancio condominiale, ma non per l’approvazione del bilancio delle singole multiproprietà.
Per quest'ultima esigenza, infatti, deve necessariamente trovare applicazione non la normativa sul condominio, ma quella sulla comunione ordinaria di cui agli artt. 1100 e ss. del c.c. Anche nella disciplina della comunione ordinaria l’art.1105 del c.c. prevede l’operatività di una assemblea dei partecipanti che deve essere convocata dall’amministratore per l’approvazione del bilancio, ma in assenza di una specifica disposizione di senso contrario in tale organo non opera l’art. 67 disp. att. del c.c. e i limiti alla delega in essa contenuti.
Pertanto l’amministratore può essere destinatario delle deleghe da parte degli altri partecipanti e senza alcun limite di teste e millesimi. Anche, però, per l’approvazione del bilancio della singola multiproprietà è necessario che una delega sia presente e rilasciata in forma scritta, anche a fini probatori in caso di eventuali contestazioni: ma per un miglior approfondimento di questo ultimo aspetto, sarebbe necessario esaminare le specifiche disposizioni che regolano la multiproprietà.


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