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Articolo 2115 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 07/03/2024]

Contribuzioni

Dispositivo dell'art. 2115 Codice Civile

Salvo diverse disposizioni della legge [o delle norme corporative](1), l'imprenditore e il prestatore di lavoro contribuiscono in parti eguali alle istituzioni di previdenza e di assistenza [2753, 2754](2).

L'imprenditore è responsabile del versamento del contributo, anche per la parte che è a carico del prestatore di lavoro, salvo il diritto di rivalsa secondo le leggi speciali [2116].

È nullo qualsiasi patto diretto ad eludere gli obblighi relativi alla previdenza o all'assistenza [1418, 1419].

Note

(1) Vedi nota 1 sub art. 2114.
(2) L'equa divisione dei contributi fra datore di lavoro e lavoratore è derogata dalle leggi speciali, che prevedono a carico dei datori percentuali molto più elevate di quelle a carico dei lavoratori.

Massime relative all'art. 2115 Codice Civile

Cass. civ. n. 15411/2020

La transazione è estranea al rapporto di lavoro ed agli obblighi contributivi, perché alla base del calcolo degli oneri previdenziali deve sempre essere posta la retribuzione prevista per legge o per contratto, individuale o collettivo; ne consegue che le somme pagate a titolo di transazione dipendono da quest'ultimo contratto e non dal diverso contratto di lavoro, sicché l'assoggettabilità a contribuzione delle poste contenute nell'accordo transattivo è conseguenza dell'accertata natura retributiva delle stesse. (Nella specie, è stato esclusa l'assoggettabilità a contribuzione dell'incentivo all'esodo previsto in una transazione novativa che definiva una lite concernente esclusivamente la risoluzione del rapporto di lavoro).

Cass. civ. n. 14853/2019

L'interesse del lavoratore al versamento dei contributi previdenziali di cui sia stato omesso il pagamento integra un diritto soggettivo alla posizione assicurativa, che non si identifica con il diritto spettante all'Istituto previdenziale di riscuotere il proprio credito, ma è tutelabile mediante la regolarizzazione della propria posizione. Ne consegue che il lavoratore ha la facoltà di chiedere in giudizio l'accertamento dell'obbligo contributivo del datore di lavoro e sentirlo condannare al versamento dei contributi (che sia ancora possibile giuridicamente versare) nei confronti dell'ente previdenziale, purché entrambi siano stati convenuti in giudizio, atteso il carattere eccezionale della condanna a favore di terzo, che postula una espressa previsione, restando altrimenti preclusa la possibilità della condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi previdenziali a favore dell'ente previdenziale che non sia stato chiamato in causa.

Cass. civ. n. 27933/2017

Ai fini dell'individuazione della retribuzione imponibile ai fini contributivi, posto che il rapporto assicurativo e gli obblighi di contribuzione ad esso connessi sorgono con l'instaurarsi del rapporto di lavoro, ma ne sono del tutto autonomi e distinti, sussistendo indipendentemente dal fatto che le obbligazioni retributive nei confronti del lavoratore siano state in tutto o in parte soddisfatte, ovvero che quest'ultimo abbia rinunciato ai suoi diritti, anche una transazione tra lavoratore e datore di lavoro va ritenuta estranea rispetto a tali obblighi, sicché, ai fini dell'assoggettamento a contribuzione, sarà necessario provare e distinguere quali siano nell'accordo transattivo le poste di sicura natura retributiva e collegate intrinsecamente al sottostante rapporto di lavoro.

Cass. civ. n. 23426/2016

Il lavoratore non può chiedere al datore di lavoro il pagamento in proprio favore dei contributi non versati, salvo che per la quota a suo carico, la quale, infatti, a titolo di sanzione, grava definitivamente sul datore di lavoro inadempiente quale componente della relativa obbligazione retributiva. Ne consegue che, in caso di fallimento del datore di lavoro, il lavoratore dev'essere ammesso al passivo, per le retribuzioni non corrisposte, con collocazione privilegiata a norma dell'art. 2751 bis, n. 1, c.c., al netto della quota contributiva gravante sul datore e al lordo di quella gravante sul lavoratore medesimo.

Cass. civ. n. 27644/2013

In tema di assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, la rendita erogata dall'I.N.A.I.L., ex art. 13 del d.l.vo 23 febbraio 2000, n. 38, va considerata di natura previdenziale e non risarcitoria, per la sua natura e per le finalità di interesse pubblico ad essa sottese, e, come tale, è sottratta alla disponibilità delle parti ai sensi dell'art. 2115, terzo comma, del codice civile. (Nella specie, la S.C. ha escluso la possibilità, per il lavoratore, di rinunciare all'indennizzo I.N.A.I.L. per danno biologico, in ipotesi di infortunio "in itinere", pur in presenza di un terzo responsabile).

Cass. civ. n. 7987/2012

Le somme spettanti a titolo di risarcimento danni per la violazione degli obblighi facenti carico al datore di lavoro hanno natura retributiva - e sono quindi da computare nella retribuzione imponibile ai fini contributivi - solo quando derivino da un inadempimento, il quale, pur non riguardando direttamente l'obbligazione retributiva, tuttavia immediatamente incida su di essa in quanto determini la mancata corresponsione di compensi dovuti al dipendente; viceversa, le attribuzioni patrimoniali che il lavoratore riceve a titolo di risarcimento del danno per la violazione degli altri obblighi del datore, sebbene siano anch'esse "dipendenti dal rapporto di lavoro", non hanno natura retributiva, così come tale natura non aveva l'obbligazione primaria rimasta inadempiuta, e quindi non sono computabili nella retribuzione imponibile ai fini contributivi, ex art. 12 legge 30 aprile 1969 n. 153 ed ex art. 6 del d.l.vo 2 settembre 1997 n. 314. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha incluso dal computo della retribuzione imponibile ai fini contributivi le somme spettanti al lavoratore a titolo di risarcimento danno da mancata corresponsione di maggiorazione per lavoro notturno).

Cass. civ. n. 6448/2009

In tema di contributi previdenziali, il datore di lavoro che non abbia provveduto ai versamenti dovuti nei termini di legge resta obbligato, ai sensi dell'art. 23 della legge 4 aprile 1952, n. 218, in via esclusiva per l'adempimento, con esclusione del diritto di rivalsa nei confronti del lavoratore per la quota a carico di quest'ultimo e ciò anche nell'ipotesi in cui l'inadempimento sia conseguenza della nullità del termine di durata apposto al contratto di lavoro, non potendosi ravvisare, in tale situazione, una impossibilità della prestazione derivante da causa oggettiva non imputabile allo stesso datore di lavoro.

Cass. civ. n. 3782/2009

La norma che consente al datore di lavoro di operare le ritenute contributive sulla retribuzione del lavoratore (art. 19 della legge 4 aprile 1952, n. 218) è di stretta interpretazione e, limitando il diritto di ritenuta del datore di lavoro sulla retribuzione soltanto nel caso di tempestivo pagamento della contribuzione relativa al medesimo periodo, non consente detta forma di recupero ove i contributi siano pagati parzialmente o in ritardo, dovendosi ricomprendere in tale ultima ipotesi il caso (ricorrente nella specie) del ritardato pagamento della retribuzione unitamente ai contributi ad essa riferibili.

Cass. civ. n. 26078/2007

In ragione dell'autonomia del rapporto previdenziale rispetto a quello lavorativo, l'obbligazione contributiva non è esclusa dall'inadempimento retributivo del datore di lavoro, neppure ove questo sia solo parziale e sebbene la originaria obbligazione sia trasformata in altra di natura risarcitoria. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, applicando l'enunciato principio alla contribuzione dovuta sulle differenze retributive spettanti ad un dipendente che si era visto illegittimamente revocare un incarico dirigenziale e ridurre conseguentemente la retribuzione).

Cass. civ. n. 15308/2004

Il disposto dell'art. 2115, terzo comma, c.c. — che stabilisce la nullità di qualsiasi patto diretto ad eludere gli obblighi relativi alla previdenza o all'assistenza — non è applicabile qualora le parti abbiano inteso transigere non già su eventuali obblighi del datore di lavoro di corrispondere all'Inps i contributi assicurativi, bensì sul danno subito dal lavoratore per l'irregolare versamento dei contributi stessi.

Cass. civ. n. 3675/2004

L'importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all'importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (cosiddetto «minimale contributivo»), secondo il riferimento ad essi fatto con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale dall'art. 1 D.L. 9 ottobre 1989 n. 338 (convertito in legge 7 dicembre 1989 n. 389), senza le limitazioni derivanti dall'applicazione dei criteri di cui all'art. 36 Costituzione(cosiddetto «minimo retributivo costituzionale»), che sono rilevanti solo quando a detti contratti si ricorre con incidenza sul distinto rapporto di lavoro ai fini della determinazione della giusta retribuzione. L'efficacia dell'autonomia collettiva nei confronti dei lavoratori non aderenti opera anche con riguardo ai contributi dovuti dalle imprese cooperative per il lavoro prestato dai soci, i quali, ai fini della tutela previdenziale, sono equiparati ai lavoratori subordinati.

Cass. civ. n. 6024/2000

In materia di determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi dell'assicurazione obbligatoria, la prescrizione dell'art. 1 D.L. 9 ottobre 1989, u. 338, convertito in legge 7 dicembre 1989, n. 389 deve essere interpretata nel senso che essa, con portata innovativa, ha aggiunto al previgente principio secondo cui l'imponibile si determina sul «dovuto» e non su quanto «di fatto erogato», il nuovo ed ulteriore criterio del «minimale» contributivo. Ne consegue che, secondo la suddetta normativa, gli accordi collettivi, diversi da quelli stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (ad es. gli accordi aziendali) ovvero gli accordi individuali hanno rilevanza ai fini contributivi soltanto quando determinino una retribuzione superiore alla misura minima stabilita dal contratto collettivo, in caso contrario restano irrilevanti e la contribuzione va parametrata al minimale suddetto.

Cass. civ. n. 5002/1999

In materia di determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi della assicurazione obbligatoria, la prescrizione dell'art. 1 D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito in legge 7 dicembre 1989, n. 389 (le cui disposizioni sono "confermate" espressamente dall'art. 6, comma ottavo del D.L.vo n. 314 del 1997) — che stabilisce che la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi ed individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo — va interpretata in armonia con quanto previsto dall'art. 12 della legge n. 153 del 1969, anche secondo il nuovo testo dettato dall'art. 6 del D.L.vo n. 314 del 1997, e non deroga al principio secondo cui la base imponibile dei contributi previdenziali non può riguardare somme maggiori da quelle che il datore di lavoro è obbligato a corrispondere al lavoratore, in base a legge (compreso l'art. 36 Cost.) o disposizioni di contratti collettivi o individuali, senza peraltro che spieghi efficacia riduttiva della base imponibile l'eventuale corresponsione di fatto di somme minori di quelle effettivamente dovute, anche in presenza di accettazione o rinuncia del lavoratore.

Cass. civ. n. 1432/1998

Le prestazioni previdenziali e pensionistiche di fonte negoziale non hanno carattere di indisponibilità ed irrinunciabilità, riferendosi l'ultimo comma dell'art. 2115 c.c. soltanto alle forme di previdenza obbligatoria, e per l'esercizio dei relativi diritti possono essere previsti termini di decadenza. (Fattispecie relativa al trattamento denominato «anzianità professionale edile» o «a.p.c. straordinaria», erogato dalla cassa edile di mutualità e assistenza e basato su contribuzione dei soli datori di lavoro, e specificamente al termine di decadenza di sei mesi per la relativa domanda, previsto dall'accordo 4 giugno 1987 e decorrente dal riconoscimento della pensione di anzianità, d'inabilità o ai superstiti, ovvero dalla data di presentazione della domanda di pensione di vecchiaia).

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Consulenze legali
relative all'articolo 2115 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Antonino M. chiede
lunedì 30/03/2020 - Sicilia
“Buongiorno, sono un ex pubblico dipendente iscritto ad INPDAP, oggi pensionato per inabilità assoluta e permanente a svolgere proficuo servizio dal settembre 2017. Ho 39 anni e 4 mesi di servizio pienamente contributivi e sono nato il 17.2.1059 (anni 61 compiuti). Posso chiedere, appena compiuti i 62 anni (cioè il prossimo 17.2.2021), la pensione quota cento. Potreste cortesemente darmi, in caso affermativo, notizie su procedura, tempi e se la diminuzione di pensione rispetto a quella di inabilità (in quanto calcolata su 40 anni di anzianità contributiva, rispetto ai miei 39 e 4 mesi effettivi) sarà limitata. In particolare, Vi chiedo se l’istanza di pensione quota 100 verrà accettata, l’INPS erogherà la pensione di inabilità sino a quando non venga accreditata la pensione quota 100, ovvero mi verrà sospesa la pensione di inabilità e dovrò aspettare la finestra di 6 mesi prevista per i dipendenti pubblici, per ricevere la pensione quota 100. Grazie”
Consulenza legale i 05/04/2020
Non è possibile fare richiesta per la pensione anticipata c.d. “quota 100” se già titolari di un trattamento pensionistico di inabilità. Infatti, in virtù del principio della indisponibilità del diritto a pensione (art. 2115 c.c.), una volta riconosciuta la pensione di inabilità assoluta e permanente a svolgere proficuo servizio, la posizione di diritto soggettivo resta consolidata ed il soggetto interessato non può rinunciare o dismettere, a sua scelta, il trattamento di pensione acquisito (cfr. con riferimento all'assegno di invalidità, Circolare INPS 289/91) . Pertanto, la domanda di pensione quota 100 presentata dal titolare di pensione di inabilità non può essere accolta.

Giovanna C. chiede
venerdì 28/02/2020 - Abruzzo
“Buongiorno,
In diversi periodi che vanno dal 22.11.1967 all'agosto del 1969, ho prestato dei servizi in qualità di Supplente Temporanea c.o. diverse ricevitorie del lotto della Provincia di Treviso (vedasi provvedimenti di nomina allegati).
Per la prestazione dei suddetti servizi sono stata regolarmente retribuita dell'Intendenza di Finanza di Venezia e i servizi stessi sono stati certificati dal MEF nella sua qualità di depositario degli atti delle ex Intendenze di Finanza soppresse (dichiarazione allegata).
Dopo tre cause (la prima c.o. la Corte dei Conti di Venezia, la seconda c.o. il Giudice del Lavoro di Venezia che hanno declinato la giurisdizione a favore del TAR del Veneto: quest'ultima è visibile online sapendo che l'udienza è del 16.10.2019 - Prima Sezione con Presidente Maddalena Filippi - rubricata 201701148), ho chiesto all'INPS la costituzione di rendita vitalizia ex art. 13 Legge 12.08.1962 n. 1338 in quanto l'ex Ministero delle Finanze (oggi MEF) non ha versato i contributi ed è intervenuta la prescrizione.
L'INPS risponde che "non ho provato l'obbligo contributivo" ed ha respinto la domanda.
Ho quindi presentato ricorso al Comitato Amministratore del F.P.L.D. dicendo, fra le altre cose, che la prova dell'obbligo contributivo scaturisce dal dettato dell'art. 2115 del CC. Il ricorso presentato online il 02.02.2020 non ha ancora avuto risposta.
Fatte queste premesse e facendo rinvio alla documentazione che allego (dichiarazioni personali, cert. MEF, provvedimenti di nomina e ricorso al F.P.L.D.) chiedo:
- nel caso specifico, esisteva obbligo contributivo previsto dall'art. 2115 CC da parte dell'ex Ministero delle Finanze? Se la risposta dovesse essere SI, come faccio a provarlo nei confronti dell'INPS senza affrontare una ulteriore causa?
Prego lo Studio destinatario della presente, di leggere le note personali inviate all'INPS e il ricorso presentato al F.P.L.D. per una visione complessiva della questione.
Certa di una risposta inconfutabile, porgo distinti saluti.”
Consulenza legale i 17/03/2020
L’art. 13, comma 1, Legge n. 1338 del 1962, relativo alOmesso versamento di contributi da parte del datore di lavoro”, prescrive che “Ferme restando le disposizioni penali, il datore di lavoro che abbia omesso di versare contributi per l'assicurazione obbligatoria invalidità, vecchiaia e superstiti e che non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione ai sensi dell'articolo 55 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, può chiedere all'Istituto nazionale della previdenza sociale di costituire, nei casi previsti dal successivo quarto comma, una rendita vitalizia riversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell'assicurazione obbligatoria, che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi”.
Il comma 4 e 5 della medesima disposizione richiedono una rigorosa prova scritta dell’obbligo contributivo: “Il datore di lavoro è ammesso ad esercitare la facoltà concessagli dal presente articolo su esibizione all'Istituto nazionale della previdenza sociale di documenti di data certa, dai quali possano evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro, nonché la misura della retribuzione corrisposta al lavoratore interessato. Il lavoratore, quando non possa ottenere dal datore di lavoro la costituzione della rendita a norma del presente articolo, può egli stesso sostituirsi al datore di lavoro, salvo il diritto al risarcimento del danno, a condizione che fornisca all'Istituto nazionale della previdenza sociale le prove del rapporto di lavoro e della retribuzione indicate nel comma precedente.”.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 568/1989, pur precisando in motivazione che il legislatore “ha voluto impedire che si accampassero posizioni assicurative fittizie”, ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell'art. 13, quarto e quinto comma, legge 12 agosto 1962, n. 1338 (Disposizioni per il miglioramento di pensioni dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, vecchiaia e superstiti), nella parte in cui, salva la necessita della prova scritta sull’esistenza del rapporto di lavoro da fornirsi dal lavoratore, non consente di provare altrimenti la durata del rapporto stesso e l'ammontare della retribuzione.”.
A seguito di tale sentenza, si deve quindi distinguere la prova dell’esistenza del rapporto, per cui è richiesta la forma scritta, dalla prova della durata, continuità e misura della retribuzione, per le quali si possono utilizzare altri mezzi di prova.

L’INPS con la Circolare n. 78 del 29 maggio 2019 ha fatto chiarezza circa i profili istruttori relativi a tale istituto.
Circa la prova dell’esistenza del rapporto, nel documento citato l’INPS ha ribadito che “ai fini della costituzione di rendita vitalizia è necessario che siano presentati documenti di data certa dai quali possa evincersi l’effettiva esistenza del rapporto di lavoro (articolo 13, comma 4, della legge n. 1338 del 1962). Il regime probatorio in questione riguarda anche la dimostrazione della natura del rapporto”.
L’Inps ha inoltre chiarito che le dichiarazioni ora per allora non sono idonee a provare l’esistenza del rapporto di lavoro. Le dichiarazioni delle Pubbliche Amministrazioni possono essere utilizzate per evincere la sussistenza del documento di data certa comprovante il rapporto di lavoro a condizione che siano sottoscritte dai funzionari responsabili e che non facciano un generico riferimento agli atti di ufficio, bensì contengano la precisa indicazione del tipo di atto, della data e dell’eventuale numero di protocollo del documento stesso al fine di consentire all’Istituto la verifica dei contenuti e la conformità di questi ai requisiti previsti in materia dall’art. 13 della legge n. 1338/1962.

Nel caso di specie, la prova dell’esistenza del rapporto sembrerebbe raggiunta tramite i provvedimenti di nomina del MEF risalenti all’epoca dei rapporti, mentre la certificazione del 29 luglio 2013 del MEF non rispetterebbe i requisiti di cui sopra.
Peraltro, i provvedimenti di nomina del MEF non offrono adeguata prova della tipologia del rapporto (anzi utilizzano l’ambiguo termine “coadiutore volontario”), né della sua effettiva continuità, nè tantomeno della misura della retribuzione.

Quanto invece alla prova della durata e della continuità della prestazione lavorativa l’INPS ha precisato che “raramente la prova documentale sull’esistenza del rapporto di lavoro è idonea anche a dimostrare l’effettivo svolgimento della concreta prestazione lavorativa nel periodo in cui si lamenta l’omissione contributiva.
Pur non essendo necessaria la prova scritta, è necessario che sia fornita una prova attendibile e precisa circa l’effettivo svolgimento della prestazione e la sua durata.
Tale prova può essere data anche attraverso la testimonianza, a condizione che il testimone rappresenti fatti della propria percezione diretta e attesti le ragioni di come sia venuto a conoscenza di tali fatti in modo da offrire elementi di riscontro. Ad esempio, potranno essere valutate le dichiarazioni dei colleghi di lavoro, del datore di lavoro o al più dei fornitori.

Per quanto riguarda, infine, la retribuzione, purtroppo la documentazione inviata non consente di determinarne la misura.
Sul punto, l’INPS ha precisato che “la retribuzione percepita nel periodo oggetto di rendita vitalizia non può essere provata né con autocertificazione dell’interessato, né mediante testimonianza.
L’art. 235 del R.D. 25-07-1940, n. 1077 non viene in aiuto in tal senso, stabilendo che “se il coadiutore è un commesso avventizio o persona estranea all'Amministrazione del lotto, il trattamento sarà fissato dall'Intendente di finanza della provincia, sentite le parti interessate”.
Non sarà, quindi, possibile desumere la misura della retribuzione da quella generalmente applicata nel settore.
I principi di cui sopra sono stati sostanzialmente ribaditi anche dalla Corte di Cassazione in diverse sentenze (da ultimo, Cass. 13202/2019). Si segnala, tuttavia, che, salva la rigorosa prova scritta circa l’esistenza e la natura del rapporto, secondo la Corte di Cassazione la durata e la retribuzione possono essere provati anche mediante testimonianza e presunzioni.

Tutto quanto sopra premesso, è possibile che la risposta negativa dell’INPS derivi da una carenza probatoria. Nell’ambito della documentazione a noi trasmessa, gli unici documenti attendibili sono i provvedimenti di nomina da parte del MEF, che tuttavia non precisano la tipologia di rapporto, né la retribuzione, né danno alcuna prova dell’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa.
Contro l’eventuale diniego dell’INPS potrà comunque essere proposto un ricorso amministrativo, secondo le modalità indicate nel provvedimento, oppure un ricorso al giudice del lavoro.

Anonimo chiede
giovedì 23/03/2017 - Veneto
“Ho ricevuto una richiesta dall'Ispettorato territoriale del lavoro di P. di comparizione per il tentativo di conciliazione monocratica(art. 11 comma 1 D.L.g.s.) a seguito di richiesta di intervento ispettivo relativo alla richiesta da parte della Federazione italiana lavoratori ambienti e servizi di P. di, secondo loro, conteggio mancati emolumenti. Ho bisogno di capire quale sarebbe l'iter che seguirebbe a una mia mancata partecipazione all'incontro, nel migliore e nel peggiore dei casi.

In attesa di Vostra cortese e sollecita risposta, porgo distinti saluti.


Consulenza legale i 30/03/2017
Il riferimento normativo in materia è il Decreto Legislativo n. 124/2004, il quale elenca i compiti del personale ispettivo delle Direzioni Territoriali del Lavoro, tra i quali vi è quello di (art. 7): “a) vigilare sull'esecuzione di tutte le leggi in materia di livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, di tutela dei rapporti di lavoro e di legislazione sociale ovunque sia prestata attività di lavoro a prescindere dallo schema contrattuale, tipico o atipico, di volta in volta utilizzato;
b) vigilare sulla corretta applicazione dei contratti e accordi collettivi di lavoro;
(…) e) effettuare inchieste, indagini e rilevazioni, su richiesta del Ministero del lavoro e delle politiche sociali”.

L’art. 11 del medesimo decreto – che è quello che qui più interessa - disciplina la cosiddetta “conciliazione monocratica”, ovvero stabilisce che quando il personale ispettivo chiamato ad effettuare un’ispezione si rende conto che la questione potrebbe essere risolta mediante un accordo tra le parti, le convoca per un tentativo di conciliazione: “Nelle ipotesi di richieste di intervento ispettivo alla direzione provinciale del lavoro dalle quali emergano elementi per una soluzione conciliativa della controversia, la Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente può, mediante un proprio funzionario, anche con qualifica ispettiva, avviare il tentativo di conciliazione sulle questioni segnalate.”

Le parti che vengono convocate hanno la facoltà di farsi assistere o da un professionista cui conferire mandato (avvocato, commercialista consulente del lavoro, ecc.: è indifferente) oppure da associazioni o organizzazioni sindacali.

Il funzionario ascolta le parti (congiuntamente e separatamente) e cerca di favorire una soluzione conciliativa: se le parti si accordano si stila un verbale di conciliazione, che può essere reso esecutivo da un Giudice a cura della parte interessata qualora l’altra si renda inadempiente all’accordo.

Diversamente, la norma dice: “Nella ipotesi di mancato accordo ovvero di assenza di una o di entrambe le parti convocate, attestata da apposito verbale, la direzione provinciale del lavoro dà seguito agli accertamenti ispettivi.”.
Ebbene, nel caso in esame, la mancata partecipazione all’incontro comporterà dunque la prosecuzione degli accertamenti ispettivi da parte dei funzionari, accertamenti che possono concludersi con un nulla di fatto (ovvero non viene riscontrata alcuna irregolarità né violazione di legge) per cui il datore di lavoro ne uscirà “indenne” (senza subire alcun provvedimento sanzionatorio).

Se all’esito degli accertamenti risulti, invece, che il datore di lavoro è debitore nei confronti del lavoratore di emolumenti retributivi o altri crediti, lo diffida a corrisponderli (art. 12): “Qualora nell'ambito dell'attività di vigilanza emergano inosservanze alla disciplina contrattuale da cui scaturiscono crediti patrimoniali in favore dei prestatori di lavoro, il personale ispettivo delle Direzioni del lavoro diffida il datore di lavoro a corrispondere gli importi risultanti dagli accertamenti.
2. Entro trenta giorni dalla notifica della diffida accertativa, il datore di lavoro può promuovere tentativo di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro. In caso di accordo, risultante da verbale sottoscritto dalle parti, il provvedimento di diffida perde efficacia (…).
3. Decorso inutilmente il termine di cui al comma 2 o in caso di mancato raggiungimento dell'accordo, attestato da apposito verbale, il provvedimento di diffida di cui al comma 1 acquista (…) valore di accertamento tecnico, con efficacia di titolo esecutivo.
4. Nei confronti del provvedimento di diffida di cui al comma 3 è ammesso ricorso davanti al Comitato regionale per i rapporti di lavoro (…)

L’art. 13 poi continua: “In caso di constatata inosservanza delle norme di legge o del contratto collettivo in materia di lavoro e legislazione sociale e qualora il personale ispettivo rilevi inadempimenti dai quali derivino sanzioni amministrative, questi provvede a diffidare il trasgressore e l’eventuale obbligato in solido (…) alla regolarizzazione delle inosservanze comunque materialmente sanabili, entro il termine di trenta giorni dalla data di notificazione del verbale di cui al comma 4” (si veda oltre) “3. In caso di ottemperanza alla diffida, il trasgressore o l’eventuale obbligato in solido è ammesso al pagamento di una somma pari all’importo della sanzione nella misura del minimo previsto dalla legge ovvero nella misura pari ad un quarto della sanzione stabilita in misura fissa, (…) Il pagamento dell’importo della predetta somma estingue il procedimento (…).
4. All’ammissione alla procedura di regolarizzazione di cui ai commi 2 e 3, nonché alla contestazione delle violazioni amministrative (…) si provvede da parte del personale ispettivo esclusivamente con la notifica di un unico verbale di accertamento e notificazione, notificato al trasgressore e all’eventuale obbligato in solido”.

E’ sempre opportuno presentarsi in sede conciliativa, non solo perché – evidentemente - la disponibilità all’incontro viene sicuramente interpretata come segno di buona fede e di correttezza, ma soprattutto perché – se in effetti il datore di lavoro sa di non essere perfettamente in regola con gli adempimenti di legge – ha la possibilità di “bloccare” l’indagine ispettiva (che, se proseguisse, potrebbe anche far emergere molte più mancanze di quelle riscontrate in un primo momento e che hanno determinato il funzionario a convocare le parti) e trovare una soluzione conciliativa che è sempre maggiormente vantaggiosa sul piano sanzionatorio.