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Articolo 2285 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 27/03/2024]

Recesso del socio

Dispositivo dell'art. 2285 Codice Civile

Ogni socio può recedere dalla società quando questa è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci [1373, 2292].

Può inoltre recedere nei casi previsti nel contratto sociale ovvero quando sussiste una giusta causa [2289].

Nei casi previsti nel primo comma il recesso(1) deve essere comunicato agli altri soci con un preavviso di almeno tre mesi(2) [24].

Note

(1) Il recesso, in quanto atto unilaterale recettizio, diviene efficace dal momento in cui giunge a conoscenza della società (v. 1334).
(2) In conseguenza del recesso, il socio uscente ha diritto al pagamento di una somma di denaro pari al valore della propria quota (v. 2289), ma non ha diritto alla restituzione dei beni conferiti. Il recesso costituisce una deroga al più generale principio dell'indissolubilità unilaterale dei contratti (v. 1372) e può essere ammesso solo nei casi espressamente previsti dalla legge o dal contratto sociale.

Ratio Legis

La norma prevede la libertà di recedere dal contratto sociale solamente qualora la società sia contratta a tempo indeterminato, in ragione del disfavore con cui l'ordinamento guarda ai rapporti giuridici senza vincoli di durata. Laddove invece la durata della società sia determinata nel contratto, il recesso può essere esercitato solo nei casi espressamente previsti dal contratto sociale oppure qualora sussista una giusta causa.

Spiegazione dell'art. 2285 Codice Civile

Un’altra causa di scioglimento del singolo rapporto partecipativo è rappresentata dalrecesso.
Il diritto di recesso è un diritto potestativo in virtù del quale il socio, alle condizioni determinate dalla legge o dal contratto sociale, può sciogliere il vincolo partecipativo che lo lega all’ente e agli altri soci.

Fermo restando che il contratto sociale può liberamente regolare il recesso, senza poterlo tuttavia sopprimere, il regime legale fissato dalla norma prevede che il recesso possa essere esercitato a condizioni differenti, a seconda che la società sia contratta a tempo determinato o indeterminato.

Nel caso in cui la durata non sia determinata nel contratto, oppure sia stabilita in misura pari alla vita del socio, quest’ultimo potrà sciogliere il proprio legame partecipativo senza la necessità di provare la sussistenza di una giusta causa, dando tuttavia un preavviso di almeno tre mesi alla società (recesso ad nutum). A differenza delle società di capitali, questo regime è dunque applicabile anche alle società il cui contratto sociale preveda un termine eccessivamente lungo, tale da superare normalmente le normali aspettative di vita dei singoli soci.

Qualora invece il termine sia previsto nel contratto, la regola impone al socio di dimostrare l’esistenza di una giusta causa, intesa come fatto capace di pregiudicare il rapporto fiduciario in essere con gli altri soci, così da non permettere altrimenti la prosecuzione del rapporto sociale (es: la violazione degli obblighi di lealtà e fedeltà da parte degli altri soci).

Massime relative all'art. 2285 Codice Civile

Cass. civ. n. 22349/2015

Qualora l'atto costitutivo di una società a responsabilità limitata non ne preveda specifiche ipotesi, il diritto di recesso convenzionale del socio postula necessariamente, per il suo perfezionamento, la delibera societaria di accettazione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, sancita l'illegittimità del recesso legale del socio ricorrente, aveva escluso che potesse desumersene quello convenzionale dalle dichiarazioni contenute nella comparsa di risposta della società depositata in altro giudizio e dalle risultanze del processo verbale di conciliazione di quel processo).

Cass. civ. n. 20544/2009

Nelle società di persone a tempo indeterminato, la dichiarazione di recesso del socio è un negozio giuridico unilaterale recettizio, che produce i suoi effetti nel momento in cui viene portato a conoscenza della società, a differenza del caso in cui la società abbia una scadenza prefissata, ove l'uscita di uno dei soci dalla compagine sociale determina una modifica del contratto sociale che necessita del consenso di tutti i soci. Nella prima ipotesi non è esclusa, peraltro, la facoltà di revoca del recesso da parte del socio, in quanto la prevalenza del rapporto volontaristico-collaborativo fra i soci comporta che una diversa comune volontà possa essere espressa, almeno fino a che non si sia proceduto alla liquidazione della quota del socio uscente mediante la revoca della precedente volontà di scioglimento del singolo rapporto sociale, sempre che sussista la concorde volontà di tutti i soci in tal senso.

Cass. civ. n. 2438/2009

Nella società personale contratta per un tempo determinato, il recesso di uno dei soci, che non venga esercitato nè per giusta causa, nè nei casi previsti dal contratto sociale, comporta la modificazione del medesimo contratto e, pertanto, necessita del consenso degli altri soci, quale accettazione, che è atto a forma libera - al pari del negozio cui si riferisce - e può essere desunta anche da "facta concludentia" univoci; in tal caso, determinando lo scioglimento del rapporto sociale al momento stesso del suo perfezionamento, il recesso prevale rispetto all'esclusione successivamente deliberata dagli altri soci, in quanto il principio secondo cui, nel concorso di più cause di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio, deve ritenersi operante quella che si verifichi per prima, trova applicazione anche nel caso di concorso fra recesso ed esclusione.

Cass. civ. n. 1602/2000

In tema di rapporti societari, l'indagine in tema di giusta causa di recesso (art. 2285 c.c.) va necessariamente ricondotta (così come per i rapporti di lavoro, di mandato, di apertura di credito, e per tutti quelli cui la legge attribuisca particolari effetti al concetto di «giusta causa») alla altrui violazione di obblighi contrattuali, ovvero alla violazione dei doveri di fedeltà, lealtà, diligenza o correttezza inerenti alla natura fiduciaria del rapporto sottostante, con la conseguenza che il recesso del socio di una società di persone può ritenersi determinato da giusta causa solo quando esso costituisca legittima reazione ad un comportamento degli altri soci obiettivamente, ragionevolmente ed irreparabilmente pregiudizievole del rapporto fiduciario esistente tra le parti del rapporto societario.

Cass. civ. n. 14360/1999

In ipotesi di recesso da società semplice (e connessa cessione della quota sociale da parte del socio uscente ai soci restanti), salvo che ciò non sia esplicitamente convenuto in sede pattizia, non può ritenersi connaturale alla prestazione dovuta dal receduto l'obbligo, di ottenere la cancellazione del proprio nome dal registro delle imprese, atteso che l'annotazione del proprio nome dal registro delle imprese, atteso che l'annotazione della residuale compagine sociale corrisponde all'interesse sia dei soci rimasti (per evitare che fi receduto continui ad impegnare la società nei confronti dei terzi), sia del receduto (per evitare la responsabilità che gli residuerebbero in ordine alle obbligazioni successivamente contratte dalla società) e che perciò tanto gli uni quanto l'altro potrebbero richiedere tale annotazione; ne consegue che l'omessa annotazione non può fondare una richiesta di risoluzione del contratto di cessione della quota sociale per inadempimento, non potendosi configurare a carico del socio receduto alcun inadempimento né alcuna violazione dei doveri di diligenza e buona fede previsti dagli artt. 1176, 1366 e 1375 c.c. e tenuto conto, tra l'altro, che l'art. 2300 c.c. pone a carico degli amministratori l'obbligo di dare pubblicità alle modificazioni statutarie e agli altri fatti relativi alla vita sociale di cui è obbligatoria l'iscrizione, onde un tale obbligo non potrebbe fare capo al socio receduto, che ha perso il potere di gestione, essendo divenuto ormai estraneo alla società.

Cass. civ. n. 11045/1999

Nel caso di recesso di socio di società di persone, il difetto di pubblicità del recesso non incide sulla validità dello stesso - che produrrà i suoi effetti nei confronti della società e degli altri soci per quanto attiene alla divisione degli utili, se esistenti, ed alla liquidazione della quota sociale - ma lo rende inopponibile ai terzi.

Cass. civ. n. 9899/1997

Costituisce principio generale, applicabile anche alle società cooperative, e desumibile anche dagli artt. 1373, commi primo e secondo, e 2285 c.c., quello per cui il recesso del socio non vale né ad escludere la responsabilità del socio medesimo per gli obblighi sociali validamente assunti dall'ente associativo durante il corso del rapporto, né ad escluderne la soggezione – in relazione alle posizioni sviluppatesi durante il rapporto stesso – al complesso del regolamento societario ad esse posizioni inscindibilmente pertinente, a quell'epoca, in vigore.

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D. L. G. chiede
mercoledì 27/04/2022 - Lombardia
“Gent.mi Avvocati, sono la rappresentate legale di una società semplice agricola appena costituita nel novembre 2021 con durata per un tempo determinato, di cui fanno parte altre 3 socie, tutte partecipanti al 25%. Una di esse (cittadina rumena) è inadempiente in termini di partecipazione alle spese e oneri lavorativi: nella fattispecie, non ha versato la propria parte per quanto riguarda la parcella del commercialista per il 2021 e per il primo trimestre 2022; inoltre non ha effettuato le semine in pieno campo e in serra che le competevano, costringendoci così a dover supplire alle sue manchevolezze all'ultimo momento, per rendere produttivo il suo campo da 5000 mq, in comodato d'uso gratuito alla Società dal 18 novembre 2021 al 31 dicembre 2022.
Il motivo degli screzi è di origine puramente personale, in quanto non andiamo più d'accordo coi suoi genitori che purtroppo la finanziano in tutto e per tutto.
Ha inviato una lettera raccomandata a noi socie di recesso volontario, nonostante avessimo convenuto verbalmente che sarebbe uscita dalla società nel momento in cui mi avrebbe venduto il suo terreno, di cui io sono confinante. Lei e i suoi genitori sono d'accordo nel voler vendere il terreno.
Attualmente la società non ha ancora un fatturato, in quanto stiamo cimentandoci ora con le semine... inizieremo a vendere di fatto non appena avremo effettuato un primo raccolto. Ho un preventivo di 950€ + ritenuta d'acconto da parte del nostro notaio e uno da 250€ + c.p. + iva dal commercialista per la cessione di quote e la relativa cancellazione dell'inadempiente dalla società e dal registro delle imprese, che inverosimilmente risultano a carico nostro.
La sua quota, ugualmente alle quote di tutte noi, consiste in una cifra simbolica di 300€ usata per coprire i costi notarili iniziali di costituzione della Società.
Mi chiedevo dunque: essendo il recesso un atto volontario da parte delle socia con tanto di raccomandata che lo attesta ed essendo le casse a zero per ovvie ragioni, come possiamo comportarci in queste circostanze?
Inoltre la socia inadempiente minaccia di inviarmi una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno chiedendo di accettare la sua offerta di vendita del terreno in questione, confinante al mio, ad un prezzo triplo rispetto a quello con cui lo ha acquistato nel dicembre 2021. In caso di mia risposta negativa o di non risposta si reputa libera di vendere il terreno a cui vuole e al prezzo che vuole. Mi risulta, invece che, per prassi, se io rifiuto di acquistare al prezzo con cui acquisterebbe un terzo esterno, allora può ritenersi libera di procedere. Potete cortesemente darmi conferma anche di quest'ultimo punto?

RingraziandoVi in anticipo per la cortese attenzione accordatami, colgo l'occasione per porgere i miei più Distinti saluti.”
Consulenza legale i 02/05/2022
Il recesso del socio è disciplinato dall’art. 2285 del c.c., il quale dispone che il socio può recedere unilateralmente dalla società quando questa è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci con un preavviso di almeno tre mesi mediante lettera raccomandata a/r; può, altresì, recedere nei casi previsti dal contratto sociale ovvero quando sussiste una giusta causa.

In caso di recesso, l’art. 2289 del c.c. dispone che il socio uscente ha diritto ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota, da calcolarsi in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento; il pagamento della quota, poi, dovrà essere fatto entro i sei mesi successivi.

Si deve considerare, inoltre, che, ai sensi dell’art. 2290 del c.c., il socio uscente è comunque responsabile verso i terzi per le obbligazioni sociale fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento.

Tanto premesso, il recesso unilaterale della socia è valido ed efficacie soltanto se la società è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci, se si è verificata una causa di recesso prevista dal contratto sociale o una giusta causa (in quest’ultimo caso la casistica delineata dalla giurisprudenza è molto ampia).
In ogni caso, è sempre possibile il recesso convenzionale, in cui le parti (soci uscenti e rimanenti) concordano l’uscita dei uno o più soci.

Nel caso di specie, assumendo la validità del recesso esercitato, la socia uscente rimane comunque responsabile per le obbligazioni che la società ha assunto fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto sociale (cioè il giorno in cui è decorso il preavviso per il recesso).
Ciò significa che, nell’eventualità in cui la società non dovesse riuscire a far fronte alle obbligazioni assunte, gli eventuali creditori potranno rivalersi anche su di lei; ai sensi dell’art. 2267 del c.c., infatti, tutti i soci, sono responsabili in solido per le obbligazioni sociali con il proprio patrimonio personale, poiché si tratta di una società di persone.

Si fa presente, tuttavia, che ciò non determina un obbligo di finanziamento della società in capo al socio: non è possibile obbligare un socio a finanziare la società, a meno l’obbligo non derivi da apposita pattuizione (eventualmente contenuta nel contratto sociale).
Il socio, infatti, è obbligato esclusivamente ad eseguire i conferimenti determinati nel contratto sociale, disposto dall’art. 2253 del c.c..
Le spese da porsi in capo alla società devono essere sostenute dalla stessa, eventualmente mediante finanziamenti o conferimenti effettuati dai soci in via volontaria; se questa non sarà in grado di pagare, i creditori potranno agire nei confronti dei soci (sempre salvo il beneficio della preventiva escussione del patrimonio della società, che impone ai creditori stessi di aggredire prima il patrimonio della stessa).
Nella prassi, le spese da sostenersi per le pratiche necessarie all’uscita di un socio dalla società vengono sostenute da quest’ultima.

Per quanto concerne il secondo quesito avanzato, l’art 7 della legge n. 817/1971, estende la prelazione agraria di cui all’art. 8 della Legge 590/1965 anche al coltivatore diretto proprietario di terreni confinanti con fondi offerti in vendita, purché sugli stessi non siano insediati mezzadri, coloni, affittuari, compartecipanti od enfiteuti.
Il combinato disposto delle norme citate, pertanto, stabilisce che il proprietario coltivatore diretto di un fondo confinante a quello offerto in vendita ha diritto di prelazione in caso di trasferimento a titolo oneroso del fondo stesso.

Nell’eventualità in cui un proprietario di un terreno decida di venderlo e nel momento in cui reperisca un acquirente, esso dovrà notificare con lettera raccomandata a coloro che hanno il diritto di prelazione la proposta di alienazione trasmettendo il preliminare di compravendita, in cui devono essere indicati il nome dell'acquirente, il prezzo di vendita e le altre norme pattuite compresa la clausola per l'eventualità della prelazione.
Il coltivatore, a questo punto, se intende esercitare il proprio diritto di prelazione dovrà farlo entro il termine di 30 giorni, a pena di decadenza.
Qualora il proprietario non provveda a tale notificazione o il prezzo indicato sia superiore a quello risultante dal contratto di compravendita, l'avente titolo al diritto di prelazione potrà, entro un anno dalla trascrizione del contratto di compravendita, riscattare il fondo dall'acquirente e da ogni altro successivo avente causa.
Questo significa che qualora il proprietario non rispetti i suoi obblighi e alieni il terreno ad un terzo acquirente, il coltivatore potrà rivalersi su quest'ultimo, riscattando il terreno al prezzo a cui è stato venduto; Il diritto “segue” il terreno, quindi anche nel caso in cui il terzo acquirente alieni a sua volta il fondo, il coltivatore potrà rivalersi anche sul nuovo acquirente, e riscattare il terreno al prezzo a cui è stato venduto dal primo proprietario.
Qualora il diritto di prelazione sia stato esercitato, il versamento del prezzo di acquisto dovrà essere effettuato entro il termine di sei mesi, decorrenti dal trentesimo giorno dall'avvenuta notifica da parte del proprietario, salvo che non sia diversamente pattuito tra le parti.

Nel caso ci fossero più soggetti confinanti al terreno in questione, tutti avranno la facoltà di esercitare il diritto di prelazione.
Se uno solo dovesse esercitarlo, non si porrebbe alcun problema.
Se intendessero esercitarlo più soggetti, si porrebbe il problema di stabilire il criterio per attribuire la preferenza all’uno o all’altro.
Per tali ragioni l’art. 7 del T.U. agricoltura ha stabilito un criterio preferenziale:
a) al primo grado, coltivatori diretti o imprenditori agricoli di età compresa tra i 18 e i 40 anni, la qualità di socio di cooperativa di conduzione associata dei terreni;
b) in grado successivo, il numero dei coltivatori e degli imprenditori predetti, purché siano in possesso di conoscenze e competenze adeguate ai sensi dell’art. 8 del Regolamento CE n. 1257/99 del Consiglio, emesso in data 17 maggio 1999.
Va anche osservato che la scala di preferenze è congegnata in modo tale da renderla operativa non soltanto se manca del tutto la condizione più favorita, ma anche se questa sia sussistente, ma non sia in grado di operare una soluzione: si pensi all’ipotesi di più fondi, in ognuno dei quali esista un coltivatore di età compresa tra i 18 e i 40 anni; è evidente che il requisito dell’età in tal caso non potrà recitare un ruolo decisivo ai fini della scelta e pertanto occorrerà ricorrere al secondo requisito: numero dei coltivatori ed eventualmente anche al terzo requisito, allorquando neppure il secondo requisito sia determinante.

Il diritto di prelazione spetta solo alle società agricole di persone in cui almeno la metà dei soci è in possesso della qualifica di coltivatore diretto; ciò che conta è il numero dei soci, indipendentemente dalla loro quota di partecipazione. Rimangono sempre escluse dal diritto di prelazione le società di capitali, indipendentemente dalla presenza di soci coltivatori diretti.

Dalle informazioni fornite, sembra che i terreni di cui la società si serve siano di proprietà dei soci, che ne hanno conferito il godimento.
Lei, pertanto, nell’eventualità in cui la proprietaria del fondo confinante al Suo (nel caso di specie la sua ex socia) dovesse decidere di vendere il proprio terreno, avrà diritto di prelazione sull’acquisto, secondo la normativa sopra esposta; ciò significa che la sua ex socia non potrà venderLe il terreno ad una cifra più alta rispetto all’offerta eventualmente ricevuta da un terzo.

In ogni caso, salvo casi particolari che in base alle informazioni di cui al quesito non ricorrono, non è possibile imporre la cessione del terreno; pertanto se la sua ex socia non dovesse essere intenzionata a venderlo, oppure non più a determinate condizioni, Lei non potrà in alcun modo obbligarla.
Allo stesso modo, la Sua ex socia non potrà ritenersi libera di venderlo a terzi per il solo fatto che Lei non intende oggi acquistarlo alle condizioni che Le ha richiesto, ma dovrà rispettare la disciplina relativa alla prelazione agricola sopra esposta, cioè concedendo a Lei la possibilità di esercitare il diritto nel momento in cui dovesse pervenire un’eventuale richiesta di acquisto.

Marco Z. chiede
mercoledì 14/10/2020 - Veneto
“Salve,
vorrei chiedere ai Vostri legali una conferma su mia interpretazione delle conseguenze dell’articolo 2285 cc. E specificamente per quanto riguarda la prima parte dell’art. 2285 e cioè la parte sulla durata della società.
Riporto la prima parte:
“ARTICOLO 2285 Recesso del socio
Ogni socio può recedere dalla società quando questa è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci.”
Per determinare se la società ha una durata per tutta la vita del socio si prendono come riferimento le aspettative di vita delle persone.
Ora questa interpretazione ci porta ad un paradosso logico/giuridico perché esclude de facto milioni di italiani dalla possibilità di diventare soci di una società di persone.
I milioni di italiani a cui mi riferisco sono logicamente le donne e gli uomini che hanno superato la loro aspettativa di vita.
Per questi milioni di italiani è con questa interpretazione impossibile diventare soci di una società di persone.

Una qualsiasi società viene costituita per vincolare i propri soci ad un contratto che è l’atto costitutivo della società.
Ora, nel momento in cui una persona che abbia superato la sua aspettativa di vita viene inclusa come socia in una società , qualsiasi durata si scelga , la società verrà equiparata ad una società contratta a tempo indeterminato perché chiaramente per questa persona si supera l’aspettativa di vita.
Quindi seguendo l’art. 2285 abbiamo che ora ogni socio è libero di uscire dalla società .
Quindi non esiste più alcun vincolo per i soci.
Ma è proprio per stabilire questo vincolo che si costituisce una società.
Dopo aver speso soldi di commercialista e notaio per l’atto costitutivo si avrebbe un documento che non è vincolante per alcun socio.
In più bisogna considerare l’impatto di questa interpretazione anche su persone che non hanno ancora superato la loro aspettativa di vita ma sono di una certa età.
E’ chiaro che se volessimo fondare una società con una durata di 6 anni non potremmo fondarla con un uomo di più di 76 anni(76 + 6 = 82 quindi superata l’età).
Oppure con una donna di più di 80 anni(80 + 6 = 86 anni quindi superata l’età).
Quindi ci troviamo con altri milioni di italiani che non possono diventare soci di determinate società di persone limitando pesantemente la loro libertà di iniziativa economica.
E’ chiaro che nessuna persona, razionale ed a conoscenza dell’art. 2285, accetterebbe come socio in una società un socio che ricada nelle ipotesi dell’art. 2285.

Facciamo un esempio.
Supponiamo si vogliano costituire in società in accomandita semplice una quarantina di persone per una durata di 6 anni nei quali si vogliono costruire e vendere un certo numero di appartamenti su un lotto edificabile.
I soci siano di 2 tipi:
1 proprietario di un lotto edificabile ancora da definire,
e 39 persone tra muratori, idraulici, elettricisti, architetti, termotecnici, ingegneri, ecc.
Supponiamo che tutte queste ultime 39 persone siano sulla quarantina.
Supponiamo anche che vi siano 2 lotti edificabili confinanti , perfettamente equivalenti, che vengono presi in considerazione per la costruzione degli appartamenti.
Uno di questi lotti sia di una persona di 60 anni.
L’altro lotto sia di una persona maschile di 76 anni .
Ora è chiaro che tutte le persone razionali sceglierebbero il lotto del 60-enne e farebbero diventare lui il 40-esimo socio.
Chiaramente perché il 76-enne fa entrare in vigore l’art. 2285 (76+6=82>aspettativa vita maschile) e quindi se lo si prende come 40-esimo socio tutti gli altri soci sono liberi di lasciare la società.

Quindi il 76-enne si trova limitato nella sua possibilità di iniziativa economica.
Questo in palese contrasto con l’articolo 3 della Costituzione che riporto qui:

“Articolo 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr.artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Quindi vediamo che con l’art. 2285 cc la Repubblica non solo non rimuove gli ostacoli di ordine economico ma addirittura li crea.
In questo senso si può affermare che l’art. 2285 cc prima parte sia incostituzionale.

Del resto un correttivo a questa interpretazione sbagliata dell’art. 2285 è già stato introdotto dalla giurisprudenza come vediamo dalla Sentenza n. 16022/2017 pubbl. il 08/08/2017 RG n. 16897/2015 Repert. n. 16641/2017 del 08/08/2017 del Tribunale di Roma di cui riporto il passaggio cruciale a pagina 8/12 del pdf della sentenza.
“Inoltre, si deve ritenere che la facoltà di recesso, nell’ipotesi in cui la società sia stata costituita “per tutta
la vita di uno dei soci”, sia consentita a colui le cui aspettative di vita siano inferiori alla durata della società,
cioè in relazione alle sue aspettative di vita e non genericamente a quelle di altri soci, essendo esclusivamente suo il relativo interesse tutelato dalla norma.”
Allego la sentenza con nome:
Tribunale di Roma 08082017.pdf

Pur essendo questa sentenza un miglioramento notevolissimo perché ora gli altri soci non possono lasciare la società rimane comunque il fatto che la persona che fa scattare l’art. 2285 può ancora lasciare la società a piacimento.
Quindi non si può fare alcun affidamento sul suo apporto alla società.
Quindi non vi è alcun motivo di farla entrare nella società.
Tornando all’esempio di prima, anche in questo caso , ogni persona razionale sceglierebbe il lotto edificabile del 60-enne.
Quindi anche in questo caso il 76-enne si trova limitato nella sua possibilità di iniziativa economica.

Concludendo si può asserire che l’art. 2285 cc prima parte è incostituzionale.”
Consulenza legale i 01/11/2020
Il sindacato di costituzionalità consiste in un raffronto tra una norma costituzionale e una norma ordinaria. Laddove da questo sindacato emerga una difformità tra i due termini di raffronto (norma costituzionale e norma ordinaria), la conseguenza potrà essere la declaratoria di incostituzionalità della norma ordinaria che contrasta con quella costituzionale.

Fatta questa breve premessa di inquadramento giuridico, emerge che il quesito richiesto sia rivolto alla valutazione di incostituzionalità alla luce del raffronto tra la norma di rango costituzionale rappresentata dall’art. 3 della Costituzione e la norma ordinaria rappresentata dall’art. 2285 del Codice Civile.

I profili di incostituzionalità sollevati riguarderebbero violazioni ai principi sostanziali che una parte della norma ordinaria arrecherebbe a quelli sanciti dall’art. 3 della Costituzione.

In particolare, detta violazione consisterebbe nella limitazione al diritto costituzionalmente tutelato della libertà di iniziativa economica concessa a ciascun cittadino. Infatti, secondo questa prospettazione, l’art. 2285 c.c., nella parte in cui stabilisce che una società di persone si considera a tempo indeterminato qualora la sua durata superi l’aspettativa di vita dei suoi soci, rendendo applicabile il diritto di recesso ad nutum per i medesimi, limiterebbe per taluni soggetti (ai limiti della loro aspettativa di vita) la menzionata libertà di iniziativa economica, in quanto la norma ordinaria porrebbe degli ostacoli a tale libertà nei confronti dei soggetti più anziani della comunità.

Ciò premesso, possono essere svolte le seguenti considerazioni sulle questioni di costituzionalità della norma di cui all’art. 2285 c.c. sollevate nel quesito.

Una immediata riflessione deve essere rivolta alla ratio dell’art. 3 della Costituzione, di cui viene paventata la violazione per quanto concerne il profilo dell’uguaglianza sostanziale tutelato da tale disposizione.

Con tale principio viene richiesto al legislatore di porre in essere concrete azioni positive volte a rimuovere gli ostacoli di ordine economico-sociale che si frappongono nel raggiungimento di tale uguaglianza tra tutti i cittadini nella partecipazione alla vita del Paese, in tutte le sue forme, ivi compresa quella del lavoro.

Ebbene, se si analizza la ratio di questa norma costituzionale, non si rinvengono profili di incostituzionalità nell’art. 2285 c.c., in quanto ai soggetti più anziani della comunità non è preclusa comunque la possibilità di esprimere la propria personalità (nell’ambito lavorativo, nel caso di specie) per mezzo di un rapporto consociativo.

Infatti, se tali soggetti intendono dar vita ad una società per sviluppare le proprie aspettative lavorative, senza le limitazioni che derivano dal meccanismo del recesso ad nutum concesso ai soci di una società, la cui durata supera quella dell’aspettativa di vita media dei propri componenti, ben potranno ricorrere ad altri modelli societari privi di tale meccanismo: come ad esempio, il modello delle società di capitali, in cui tale norma non trova applicazione, neppure analogicamente, come sancito sia dalla giurisprudenza (cfr. Trib. Milano, sentenza 17 ottobre 2016) che dalla dottrina dominante.

Pertanto, non sembra possa sostenersi che l’art. 2285 c.c. ponga un ostacolo alla liberà di sviluppo della propria personalità nei confronti di tali soggetti, atteso che questi ultimi potrebbero benissimo ricorrere ad altri modelli societari.

Inoltre, non si può omettere di considerare come la scelta del legislatore di considerare come a tempo indeterminato una società di persone, in cui l’aspettativa media di vita dei suoi componenti sia inferiore a quella di durata della medesima società, risponda a criteri ragionevoli, da rinvenirsi nella differenza strutturale (tipologica, secondo la terminologia più corretta) di tali modelli societari, nelle quali l’intuitus personae è prevalente, rispetto al modello delle società di capitali, nelle quali la struttura organizzativa assume un rilievo essenziale.

Nelle società di persone, infatti, proprio per la prevalenza dell’elemento personalistico, rappresentato dalla figura dei soci che la costituiscono, appare conforme a principi ragionevoli la scelta del legislatore di ricondurre la durata della società a tempo indeterminato in una siffatta ipotesi, visto e considerato che la società si identifica, sostanzialmente, con la persona dei suoi soci e che se, dunque, la durata è fissata in un tempo superiore alla loro aspettativa di vita, deve essere permesso ai medesimi l’esercizio di una altra libertà di pari rango costituzionale che trova espressione nell’art. 41 della Costituzione.

Difatti, in tal caso, ai soci deve essere permesso di esercitare la propria libertà di iniziativa economica, esercitando il diritto di recesso da una società i cui termini di durata sono superiori all’aspettativa media dei suoi componenti, così svincolandosi da un rapporto consociativo che, per i suoi termini di durata, assumeva i tratti di perpetuità (sempre per la prevalenza di quell’elemento personalistico che è da rinvenirsi nelle società di persone).

E allora, appare un equo contemperamento dei due diritti costituzionalmente garantiti, di cui agli artt. 3 e 41 della Costituzione, la scelta del legislatore di ricostruire il diritto di recesso dei soci nelle società di persona nei termini di cui all’art. 2285 c.c..

Per tutte le suesposte ragioni, non si rinvengono profili di incostituzionalità dell’art. 2285 c.c.

Paolo D. Z. chiede
giovedì 25/06/2020 - Umbria
“Buonasera,
vi scrivo in merito all'art. 2300 del c.c.il quale impone la pubblicazione presso la Camera di Commercio in merito alla volontà di recesso anticipato di un socio come da art. 2285 comma 1. in quanto io rappresentante legale della mia snc ho fatto richiesta presso la mia CCIA di competenza la quale ha annotato nella visura, al paragrafo del socio, l'espressa volontà. la mia domanda è questa:-il socio uscente in base a ciò viene tutelato in base all'art 2193 del c.c. ma, visto che tutte le altre informazioni di pubblicità legale (ammontare dei conferimenti, poteri di rappresentanza, numero soci, ecc.) rimangono invariate e che le stesse saranno modificate solo a seguito del deposito dell'atto notarile che, prendendo atto del recesso del socio determinerà le conseguenti variazioni nei patti sociali, il socio uscente è tenuto ad esercitare i poteri di straordinaria amministrazione oppure è esonerato in questo? Se in fase di stipula finanziamenti (atto di straordinaria amministrazione) il socio uscente si rifiuta di firmare o solamente di delegare chi per lui si occupa delle pratiche può incorrere a diffide oppure è tutelato dalla pubblicazione della sua intenzione di recesso? Sa società come può svincolarsi dai vari rifiuti di operare i poteri di straordinaria amministrazione del socio uscente nell'arco di tempo che intercorre fino all'atto notarile? Il comportamento di rifiuto del socio uscente che nel frattempo ostacola il decorso dell'azienda può essere una buona ragione per richiedere la sua revoca immediata e chiedere nei suoi confronti gli eventuali danni causati per il suo comportamento?
Non trovo nessuna casistica in merito quindi spero possiate aiutarmi.
Cordiali saluti.”
Consulenza legale i 08/07/2020
Prima di rispondere al quesito occorre fare una premessa, in quanto dal resoconto dei fatti non si evincono alcuni passaggi fondamentali.

Il recesso del socio, nelle snc, è regolato dall’art. 2285 del c.c., alla cui lettura si rimanda.

Sostanzialmente, detta disposizione prevede due diversi casi di recesso: i) la prima ipotesi di recesso è quella esercitata dal socio in una società la cui durata è tempo indeterminato; ii) la seconda ipotesi di recesso è quella esercitata dal socio nei casi previsti dall’atto costitutivo e/o dallo statuto e/o per giusta causa.

Laddove si rientri nella prima ipotesi il recesso si perfeziona solamente decorso il termine di 3 mesi dalla comunicazione con cui il socio ha preavvisato gli altri soci della propria intenzione di recedere. Laddove, invece, si rientri nella seconda ipotesi, il recesso si perfeziona immediatamente dalla ricezione della comunicazione di recesso da parte degli altri soci.

Nel quesito non si comprende se si rientri nella prima o nella seconda ipotesi di recesso.

Ad ogni modo, dal momento di perfezionamento del recesso (decorso il termine di 3 mesi dal preavviso dell’intenzione di recedere e/o immediatamente in caso di recesso per giusta causa o per i motivi previsti nell’atto costitutivo o nello statuto), il socio recedente perde ogni eventuale potere di amministrazione e decisionale attribuitogli dallo statuto e/o dall’atto costitutivo.

Pertanto, e venendo alla risposta alle domande circa l’obbligo di esercizio dei poteri di straordinaria amministrazione e il conseguente potere della società di imporre tale esercizio al socio che ha comunicato il recesso, non sussiste alcun obbligo in tal senso e, di conseguenza, nessun potere coercitivo della società in tal senso può essere esercitato nei confronti di detto socio. Quest’ultimo, una volta perfezionato il recesso, perde ogni potere in relazione agli affari societari, salvo il dritto ad ottenere la liquidazione della propria quota e a mantenere la propria responsabilità illimitata e solidale con gli altri soci con riferimento alle obbligazioni contratte dalla società fino al giorno del recesso, secondo quanto disposto dall’art 2290 del c.c..

Le suesposte considerazioni comportano, dunque, che nessun danno potrà essere richiesto al socio che ha comunicato il recesso dal momento che questo si è perfezionato.

In conclusione, dal perfezionamento del recesso il socio, perdendo ogni potere all’interno della società, non può più essere tenuto (e non potrebbe essere differentemente) ad esercitare alcun potere ordinario o straordinario in relazione agli affari societari.

Marco F. chiede
giovedì 30/06/2016 - Veneto
“Buongiorno,

sono a chiedervi alcune informazioni sul modus operandi del recesso senza giusta causa da s.n.c. e su quali sono i passi da compiere. In particolare vorrei sapere se è consigliabile contattare un commercialista per la determinazione della somma da liquidare prima della presentazione della comunicazione del recesso (per avere in anticipo una previsione di quale potrà essere la somma liquidabile). Vi chiedo inoltre in quale forma va presentato il recesso (scritto, raccomandata, pec?) e se i soci devono essere preavvisati di ciò (con eventuale consegna a mano della lettera di recesso) e se la lettera di recesso deve contenere motivazioni specifiche.

Vi chiedo inoltre se è preferibile che l'accettazione del recesso da parte dei soci debba avvenire in forma scritta ed infine cosa accade se uno o più soci respingono la richiesta di recesso. In quest'ultima ipotesi che soluzioni si prospetterebbero?
Vi ringrazio anticipatamente e vi porgo cordiali saluti.”
Consulenza legale i 06/07/2016

Nella società personale contratta per un tempo determinato, il recesso di uno dei soci, che non venga esercitato né per giusta causa, né nei casi previsti contrattualmente, necessita del consenso degli altri soci (si parla di un vero e proprio recesso "convenzionale"). Ciò perché il recesso comporta la modificazione del contratto sociale.
Il recesso, invece, è permesso in ogni momento qualora la durata della società sia stata pattuita a tempo indeterminato (ovvero con durata superiore alla normale vita umana: cfr. Tribunale di Roma, Sez. III, 21224 del 22 ottobre 2015; Tribunale di Roma, 4 marzo 2015; Tribunale di Napoli, 10 dicembre 2008),

In linea generale, la società ha durata indeterminata quando:
L'atto costitutivo non indica il termine di durata della società;
La società è contratta per tutta la vita di uno dei soci;
Il termine indicato supera la durata della vita o la durata media della vita umana;
E' intervenuta una proroga tacita della società.

Rispondendo, quindi, subito all'ultima domanda posta nel quesito, appare chiaro che il recesso - qualora non vi siano ne giusta causa ne tempo indeterminato - in assenza di consenso degli altri soci non è ammissibile. Un contratto, infatti, vincola tutte le parti contraenti e non vi è possibilità per alcuna di esse di sciogliersi unilateralmente. Occorre una modificazione consensuale, a cui partecipino tutti i contraenti.

Ipotizzando quindi che la società in questione sia stata contratta a tempo indeterminato queste sono le regole da seguire.
Il recesso, che consiste in una manifestazione di volontà unilaterale e recettizia, va presentato agli altri soci individualmente e non richiede forme particolari: la volontà di recedere può essere manifestata per iscritto (lettera o altro tipo di comunicazione), verbalmente oppure può desumersi da comportamenti incompatibili con la volontà di rimanere nella società (addirittura, secondo alcune pronunce giurisprudenziali, può essere contenuta anche nell'atto di citazione con il quale viene instaurata la lite tendente alla liquidazione della quota sociale appartenente al recedente).
La modalità va scelta in base al tipo di rapporto personale con gli altri soci: sicuramente, è sempre preferibile una comunicazione scritta che consenta di avere attestazione della ricezione (raccomandata a.r. o p.e.c.).

Il recesso non richiede di essere giustificato formalmente. Ciò, infatti, è necessario solo quando il recesso viene esercitato per giusta causa o per altro motivo espressamente previsto dall'atto costitutivo.

Non vi è neppure la necessità di "preavvisare" i soci della volontà di recedere, se non per mera cortesia e per mantenere i buoni rapporti con i medesimi.

Quanto alla liquidazione della quota, è certamente ben possibile rivolgersi preventivamente ad un commercialista per il calcolo: nulla lo vieta e la prudenza lo impone. Naturalmente, tale valutazione non avrà efficacia nei confronti degli altri soci, in quanto non elaborata nel contraddittorio (confronto) delle parti; potrà casomai servire come base per una trattativa sulla quantificazione. Come si può intuire, i costi di questa valutazione preventiva saranno a carico del solo socio recedente.

Se i soci non trovano accordo sulla determinazione del valore della quota, il recedente potrà rivolgersi al Tribunale, chiedendo che sia nominato un consulente tecnico ad hoc (di regola, un commercialista): i soci potranno poi a loro volta nominare un tecnico di parte, in modo che la perizia tenga conto di tutte le ragioni delle parti coinvolte. Infine, la liquidazione del valore della quota verrà consacrata dal giudice nella sua sentenza, basata sull'elaborato del perito.

Qualora, infine, si trattasse di voler recedere da una società di persone, senza giusta causa e senza che questa sia stata costituita a tempo determinato, allora, inevitabilmente, per raggiungere lo scopo, sarà necessario trovare l'accordo con tutti gli altri soci.


Filippo F. chiede
lunedì 17/08/2015 - Emilia-Romagna
“Sono socio di minoranza (16%) di un Snc con 4 in tutto soci e costituita nel 1971.
Nessun dipendente, varie proprietà mobili ed immobili e pochissimi debiti con istituti di credito.
Ho richiesto la visura camerale e su di essa non vi è alcun riferimento ad una scadenza, desumo pertanto la società sia costituita a tempo indeterminato.
Vorrei quindi recedervi unilateralmente.
So che devo mandare agli altri soci una raccomandata con preavviso di tre mesi dopodiché, se non provvede l'amministratore, potrò recarmi io al registro delle imprese per richiedere la trascrizione. Fatto ciò entro 180 gg penso siano tenuti a liquidarmi la mia parte.
È corretta la tempistica descritta sopra?
Essendo gli altri soci totalmente ostili a questa opportunità cosa potrei aspettarmi nel peggiore dei casi? Possono opporsi e bloccare il processo in qualche modo?
Cosa succede se decorso il termine dei 180 gg comunque non pagano?
Ho letto che sono i soci ad essere debitori, lo sono in solido? Potrò, in questo caso, eventualmente agire tramite decreti ingiuntivi?
Inoltre, in caso non si trovasse un accordo sulla cifra cosa succede e quanto vengono dilatati i tempi?
Più in generale qual'e' per me lo scenario peggiore anche per ciò che concerne le tempistiche?
Mi consigliate di farmi seguire da un commercialista o da un avvocato?
Avete altri suggerimenti di sorta?
Grazie”
Consulenza legale i 25/08/2015
Come correttamente rilevato nel quesito, il socio di una s.n.c. può recedere dalla società quando questa è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci, e il recesso deve essere comunicato agli altri soci con un preavviso di almeno tre mesi (art. 2285 del c.c.).

Salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo, il recesso del socio è valido ed operante nel momento in cui la dichiarazione di recesso viene portata a conoscenza degli altri soci: si tratta, infatti, di atto recettizio, che non richiede il consenso o l'accettazione degli altri soci.
Gli amministratori sono tenuti a pubblicizzare l'avvenuto recesso, iscrivendo il fatto nel Registro delle Imprese. In mancanza di iscrizione, il recesso, pur efficace nei confronti della società e degli altri soci, non risulta opponibile ai terzi.
Il termine per adempiere è di trenta giorni dal momento in cui il recesso è divenuto efficace.

E' altresì possibile che la comunicazione di recesso pervenga all'Ufficio Registro Imprese su comunicazione dello stesso socio receduto: in tal caso, l'ufficio inviterà la società, con lettera raccomandata, ad annotare l'avvenuto recesso e ad effettuare le necessarie modificazioni dei patti sociali, assegnando un termine dalla data di ricezione dell'invito entro il quale provvedere.
Qualora la società rimanga inerte, l'ufficio segnalerà il caso al Giudice del Registro, trasmettendo copia della documentazione, per l'eventuale iscrizione della notizia dell'avvenuto recesso, ai sensi dell'art. 2190 del c.c., cioè per ordine contenuto in un decreto del giudice.

Come poco sopra detto, il recesso nella società costituita a tempo indeterminato è un diritto del socio, non soggetto al consenso degli altri (l'art. 2289 precisa che, nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi hanno diritto soltanto ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota). Egli avrà, pertanto, indubbiamente diritto alla liquidazione del valore della quota sociale detenuta.

La liquidazione della quota del socio receduto è normalmente effettuata da un professionista (commercialista).
Il professionista si baserà sulla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento, tenendo conto dell'avviamento. Il contratto sociale può, peraltro, derogare alle suddette disposizioni: tuttavia, non sembrano ammissibili clausole che impongano la liquidazione della quota al valore nominale della stessa.

In caso di disaccordo tra i soci, i tempi della liquidazione potrebbero dilatarsi: non tanto perché essi possano opporsi alla liquidazione della quota in sé, quanto perché potrebbero esservi divergenze sui criteri da utilizzare per effettuare la determinazione della somma di denaro da corrispondere al socio uscente.
La liquidazione della quota è effettuata, infatti, tramite denaro proveniente dal patrimonio sociale, e i soci sono obbligati a erogare la somma in via sussidiaria al pari di ogni altra obbligazione sociale. Il pagamento deve essere effettuato entro 6 mesi dal giorno in cui si verifica il recesso (ultimo comma dell'art. 2289 c.c.).

Secondo la giurisprudenza, il credito relativo alla liquidazione della quota del socio uscente, avendo fin dall’origine ad oggetto una somma di denaro, ha natura pecuniaria, costituisce, quindi, un credito c.d. "di valuta" (Cass. 8 novembre 1995, n. 11598). Si tratta, perciò, di
un credito che - se liquido ed esigibile - è per ciò soltanto idoneo a produrre interessi di pieno diritto, a norma dell’art. 1282, comma 1, c.c., senza necessità di alcun atto di messa in mora.
Le lungaggini relativi alla liquidazione della quota, quindi, sono controproducenti per gli altri soci, i quali, più attendono, più rischiano di veder elevare la somma dovuta.

Se la quota viene liquidata ma i soci non procedono al pagamento, il socio uscente può certamente agire in via monitoria, depositando un ricorso per decreto ingiuntivo al fine di ottenere il versamento del suo credito, già determinato nell'ammontare.
Se, invece, non viene effettuata nemmeno la liquidazione della quota, il socio recedente potrà agire in via giudiziale nei confronti della s.n.c., domandando al giudice di determinare il valore della quota (di norma, il giudice si affida a un consulente tecnico) e di condannare la società al pagamento. Va ricordato che la società ha l'obbligo di liquidare la quota, mentre gli amministratori devono rendere il conto, al fine di consentire la formazione, in nome e per conto della società, di una situazione patrimoniale straordinaria al fine di provare il valore della quota: se gli amministratori si rendono inadempienti, il giudice può deferire loro il giuramento suppletorio (v. Cass. civ. n. 1036/2009).
Le tempistiche di un giudizio civile sono difficilmente prevedibili, in quanto il processo in primo grado può durare da un minimo di un anno fino a diversi anni. V'è da dire, però, che nel caso di specie, se il recesso viene esercitato ai sensi del primo comma dell'art. 2285, è sconsigliabile per gli altri soci mantenere un atteggiamento ostile, visto che il diritto al recesso e alla liquidazione discende dalla legge (diverso sarebbe il caso del recesso per giusta causa).

E' consigliabile chiedere l'assistenza di un commercialista per valutare la congruità della somma liquidata dalla società, se si ha il sospetto che essa sia inferiore a quanto dovuto, mentre l'assistenza di un legale è necessaria solamente laddove risulti inevitabile rivolgersi all'autorità giudiziaria, per il recupero del credito.

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